Martedì 27 luglio 2010

Il tempo della nostra Chiesa e l’Articolo 11

Articolo undici della Costituzione italiana Route Monte Sole - Barbiana 2010
di mons. Giovanni Giudici

Premessa
1 – La sensibilità al tema della pace nel nostro Paese.
A. Riflettiamo sull’Art. 11 della Costituzione.
B. La situazione della Chiesa in Italia oggi e la sua sensibilità nei confronti della pace.
1.La Chiesa nell’età moderna.
2.Il rapporto con ‘i laici’ nella costruzione della società.

Conclusioni
1.Applicazioni contemporanee dell’Articolo 11
2.Quale prassi pastorale può educare alla pace.
a.Testimonianza e annuncio
b.La prossimità
c.Scelte che toccano l’istituzione Chiesa
3.Le proposte formulate dal convegno CEI sul tema delle armi.

Premessa

E’ opportuno oggi, in questa circostanza speciale, accettare la sfida contenuta nella domanda: perché Dossetti non compare tra i riferimenti del movimento per la pace italiano, e dunque neppure nella sala dei ‘ritratti degli antenati’ di Pax Christi? Siamo chiamati a formulare una tale domanda non solo perché siamo qui oggi nell’area di un drammatico fatto di guerra che vogliamo ricordare, a monito di tutti coloro che dimenticano gli orrori della guerra, e siamo qui perché su questi temi ha pensato e ha scritto Dossetti. Ma è una domanda che ci dobbiamo fare perché, come ci è stato ricordato ieri, Dossetti ha dato un contributo determinante alla stesura dell’Articolo 11 della Costituzione. E si tratta di un dettato costituzionale che forma la base della sensibilità pacifista e non violenta presente nel nostro Paese.

Possiamo elencare ragioni banali e ragioni profonde a proposito della dimenticanza di Dossetti: la comunicazione di una riflessione sapienziale e teologica difficilmente raggiunge grandi numeri di ascoltatori; lo stile del ‘movimentismo’ che ha sostenuto il tema della pace nel nostro Paese; le occasioni che hanno posto in maniera più forte il tema della pace, e nella quali don Dossetti non era ormai più presente sulla scena pubblica.

Le ragioni decisive vanno collocate tuttavia in un secondo aspetto della testimonianza di Dossetti a proposito della pace: nel riflettere sulla pace, Dossetti va al centro del mistero cristiano. In ogni tema da lui affrontato, avvertiamo in questo procedere la caratteristica più evidente del suo riflettere. In questo aspetto della sua proposta, emerge con chiarezza che là dove la persona umana sperimenta il dolore, la contraddizione, la morte, il cristiano vede immediatamente delinearsi il conflitto tra luce e tenebra, tra vita e morte, tra egoismo e donazione di sé. E si trova a svolgere un discernimento sulla storia umana, fino a porla a confronto con Cristo. Il Figlio di Dio, non solo è vittima innocente che ha riscattato ogni dolore e ha ottenuto che esso si trasformasse in vita risorta, ma è anche colui che ha sorriso nella persuasione che il disegno del Padre, trascritto nel mondo dallo Spirito, è una vita rinnovata perché salvata: « In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra… Ogni cosa mi è stata affidata dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare».
(Luca 10,21)

Il Signore, vittima innocente, misteriosamente è presente in ogni dolore e dunque la scelta della guerra sta agli antipodi della nostra fede: chi decide di uccidere un uomo, è a Cristo che dà morte. Certo, la verità dell’incarnazione è in grado di riscattare ogni innocente che soffre e che muore; ma questa consolante certezza non diminuisce la responsabilità di ciascun credente, e della comunità cristiana, a contrastare ogni guerra e ogni scelta che alla guerra conduce.

E’ nella prospettiva di pensiero affermata da don Dossetti, che si apre il discorso anche sullo statuto teologico dell’insegnamento sociale della Chiesa. Ne abbiamo parlato ieri affrontando la nozione di “bene comune” in Dossetti. La dottrina sociale della Chiesa non può più essere considerata come “filosofia sociale”, ma va precisandosi come “teologia morale”, appello cioè del Vangelo alla coscienza credente. Si tratta di lasciare la prospettiva di un insegnamento che si presenta come il delineare un modello astratto di comportamenti sociali e politici (la ‘terza via’), per entrare nella sempre più chiara presa di coscienza che l’insegnamento della Chiesa in temi sociali si caratterizza per la sua valenza profetica, di stimolo al superamento di ogni formula di convivenza storicamente sperimentata, ponendo a metro di giudizio il Vangelo. Il discepolo di Cristo dunque è chiamato alla testimonianza, anche nella società, anche nei fatti sociali.

1 – La sensibilità a proposito della pace nel nostro Paese e nella Chiesa.

Ogni spinta ad uno stimolo ad un pensiero creativo e critico, e a un’azione audacemente riformatrice non può tuttavia prescindere dall’analisi della condizione presente, sia della situazione del cattolicesimo politico del nostro Paese, sia della situazione della chiesa che è in Italia.

A.L’art.11 - costituzione e la sua recezione oggi

Per una adeguata comprensione dell’art.11 della Costituzione non si può prescindere dal contesto che lo ha generato; vale, esponenzialmente, per esso ciò che Dossetti sostiene più generalmente per la Costituzione e i suoi principi supremi: essi scaturiscono da quel “crogiuolo ardente” di principi e valori transtemporali rappresentato dalla meditazione sulla tragedia epocale senza paragoni e senza precedenti che fu la seconda guerra mondiale con i suoi sessanta milioni di morti.

Non si spiega altrimenti il facile, immediato consenso generale, in sede di Assemblea costituente, intorno a quella formulazione così forte e così netta. Come è noto, la Costituzione raccoglie e tenta di fondere in un’unica prospettiva fondante la convivenza nazionale, le tre linee culturali presenti nel dopo-guerra italiano: la tradizione cattolica, la tradizione marxista, la tradizione ‘laica’ o liberale.

Noi ci soffermiamo a riflettere a proposito dell’ambito del cattolicesimo sociale e politico, perché di questo, in quanto Pax Christi, siamo eredi e ad esso fa riferimento pure il gruppo dei padri della costituzione che sono di matrice cattolica. Ne conosciamo bene i nomi e i meriti.

Analizziamo ora il dettato dell’Articolo 11. Nel verbo “ripudiare” c’è una radicale, palese condanna morale. In origine, si parlò di “rifiuto”. Oggi, la distanza temporale ha diminuito in molti la consapevolezza che la guerra rappresenta sempre un grande male. Inoltre sono intervenute le pur legittime problematizzazioni del significato della guerra. Nella prima presa di posizione di Dossetti siamo nel contesto della guerra globale e della minaccia atomica. Vi era inoltre una obiettiva sudditanza alle alleanze militari. Oggi i conflitti hanno assunto forme nuove e molteplici. Tutto ciò ha purtroppo attenuato, nella coscienza collettiva, la forza di tale ripudio-condanna,

Dietro tale ripudio vi è, da parte del costituente, un investimento di fiducia nelle risorse della politica, della diplomazia, del negoziato, della possibile composizione dei conflitti. Più in radice, una fiducia nel dialogo, nella parola e nella ragione.

Pur non escludendo in assoluto la guerra di difesa da un aggressore esterno, la formulazione della legge costituzionale esclude categoricamente la guerra di aggressione e di conquista. Si chiude così, nella coscienza pubblica del nostro Paese, il capitolo delle sciagurate guerre coloniali e le aggressioni dovute a patti assurdi con altri paesi aggressori. In positivo l’art. 11 testimonia una sorta di unilaterale rinuncia al mezzo bellico, come a dire che il nascente Stato costituzionale italiano scommette su relazioni internazionali improntate alla concordia e alla pace.

L’art. 11 è un tutt’uno; lo diciamo sulla scorta della riflessione di Leopoldo Elia il quale amava fare osservare che il Costituente non ha articolato due distinti commi, ma un'unica norma, senza soluzioni di continuità. Dunque la seconda parte dell’Articolo è coessenziale alla prima parte dell’art.11, e fissa il cosiddetto “principio internazionalista”, cioè l’apertura dell’Italia alla comunità internazionale e alle sue istituzioni. Di più: si giunge ad affermare il conferimento ad esse di quote della propria sovranità per perseguire quel bene comune universale più grande dell’interesse nazionale che è rappresentato dalla sicurezza, dalla giustizia e dalla pace.

Questa apertura-investimento muove dalla convinzione che il mito della sovranità nazionale ha generato guerre e che comunque gli Stati nazionali sono inadeguati a perseguire la giustizia e la pace. Intuizione che, oggi, nel tempo della globalizzazione, si rivela straordinariamente lungimirante.

La seconda parte dell’art.11, non possiamo ignorarlo, mira non solo a richiamare anche giuridicamente il dovere di coltivare e costruire la pace; essa mira anche a porre in primo piano il tema della giustizia internazionale; dunque la Costituzione prescrive comportamenti positivi, richiede un’opera costruttiva a favore della giustizia e della pace. Tra giustizia e pace infatti vi è una correlazione profonda, che l’Articolo 11 fa emergere e che il legislatore ha voluto tenere presente.

L’attenzione alla dimensione internazionale è invocata anche a sostegno delle missioni internazionali. Una responsabilità che non può essere esclusa o omessa, nel contrasto e nella soluzione di taluni conflitti. Quando davvero ricorrono gli estremi dell’ “ingerenza umanitaria”, cioè per scongiurare genocidi o disarmare l’ingiusto aggressore. Abbiamo avuto una situazione di questo tipo proprio alle porte di casa nostra. E’ solo quindici anni fa, e a non più di seicento km. dalle nostre frontiere, che avviene la ‘pulizia etnica’ di Srebrenica. Il caso è, purtroppo, da manuale. Guerra di conquista, violenza generalizzata, vendetta di un gruppo più forte sull’altro, in nome di una rivincita ‘storica’.

Naturalmente la legge costituzionale elenca tre condizioni (almeno) per legittimare l’intervento: che si tratti di missioni non in contrasto con l’assunto principale dell’art.11 (il ripudio della guerra), che le operazioni si svolgano sotto l’egida dell’Onu (la sola legittimata a varare e vagliare tali operazioni), che, nel concreto svolgimento di tali missioni, il mezzo non contraddica il fine (cioè la giustizia e la pace).

Giusto invocare l’art. 11 per le missioni militari. Ma esso prescrive anche altro. Penso l’attivo, concreto contributo italiano alle azioni condotte dalle organizzazioni internazionali e mirate a pace, giustizia, diritti umani. Difficile non rilevare al riguardo vistose inadempienze italiane: penso al miserrimo contributo allo sviluppo e alla lotta all’Aids, ricordo la vistosa negligenza del Governo Italiano nella cooperazione internazionale, nella risposta a decisioni di collaborazioni riprese e propagandate ad ogni vertice internazionale. Su questo punto siamo alle prese con una riforma da anni attesa e mai varata.

B. La condizione della Chiesa in Italia oggi e la sua sensibilità nei confronti della pace.

Aspetto caratterizzante la nostra fede è anzitutto la testimonianza del Regno di Dio. Passo fondamentale per vivere in esso è il dono della pace che Gesù risorto affida ai suoi discepoli. La forza per vivere la pace nel mondo ci è garantita dal battesimo. Quando parliamo della pace come dono di Cristo, non parliamo soltanto della capacità di rapportarci con atteggiamenti non aggressivi nei confronti delle persone che incontriamo. Dunque, caratteristico della comunità cristiana è l’impegno a riconoscere nella storia quali sono le scelte di una società o di una cultura che costruiscono la pace, e quali invece sono le premesse sociali a proposito della guerra.

Conoscere la storia come cristiani e operare perché le opinioni, le impostazioni ideali, le scelte politiche siano in grado di costruire la pace, ecco l’impegno che dobbiamo assumerci. Del resto è questo il modo di procedere della comunità cristiana delle origini; essa riflette sugli avvenimenti, li paragona con la rivelazione di Gesù e ne trae le conseguenze. Così avviene, secondo Atti degli Apostoli 4,23-31. Questo è pure il modo di procedere della Chiesa che sollecitava Dossetti quando chiedeva che il discernimento fosse fatto “finchè c’è tempo”. Ci sono infatti poi circostanze che precipitano in avvenimenti dolorosi e ormai insanabili. Non sono lontani da noi i drammatici eventi di Bosnia del 1995; non mancano nelle nostre cronache recenti i gesti di talune parti politiche, mai criticati se non da qualche voce, che promuovono giudizi e scelte violente di tipo razzistico.

Occorre dunque domandarci come oggi possiamo nella Chiesa italiana vivere la nostra responsabilità di credenti che amano la pace, e quali strumenti abbiamo a disposizione per far crescere una tale sensibilità.

1. La Chiesa nell’età moderna:

Collochiamo la nostra breve e sintetica analisi in un quadro più ampio che faccia emergere quelle caratteristiche della cultura post-moderna che tendono a rendere sempre più marginale il cristianesimo e frammentata, dunque indebolita, la comunità cristiana.

Per l'avanzare del processo di secolarizzazione, si avvertono non poche resistenze alla comunità cristiana e al cristianesimo in generale da parte della cultura circostante. Questa cultura tende infatti a emarginare, a ridurre e a volte a presentare in forma caricaturale le realtà religiose e, in particolare, il cristianesimo. Lo si nota ad esempio dal modo spesso riduttivo con cui vengono presentati e divulgati nell’opinione pubblica le iniziative e gli interventi della Chiesa.

Tuttavia, se da una parte bisogna constatare una crescente marginalità sociale del cristianesimo, dall’altra non si può ignorare un fenomeno di ritorno di interesse per la religione; non subito e solo per la Chiesa, ma per la religione personale.

Tali fenomeni conducono, pur con vari e contraddittori percorsi, al manifestarsi di tre figure di credenti che si riferiscono a Cristo e al suo Vangelo:

a) coloro che praticano la religione invisibile (Luckmann1), spiccatamente soggettiva, riserva esclusiva dell’anima, senza Chiesa e senza pratica morale corrispondente; protesi dell’identità assente, senza riferimenti alle forme della cultura.
b) quanti fanno parte di movimenti fondamentalisti, aggregazioni religiose con la figura della setta (movimenti); essi alimentano il nuovo contenzioso laici e cattolici.
c) coloro che teorizzano il ritorno della religione civile o ne favoriscono le applicazioni concrete.

Il fenomeno che maggiormente segna oggi la comunità ecclesiale è quello della cosiddetta religione dell’anima, cioè una fede senza appartenenza (believing without belonging - "credere senza appartenere"), che significa essenzialmente de-istituzionalizzazione e, quindi, separazione fra religiosità ed ecclesialità. L’ abbandono dei legami religiosi ha fatto parlare di una “religiosità vagabonda”, nella quale l’accesso alla religione si trova sempre meno in ambito etico e sempre più in quello estetico.

Questo fatto ha comportato il passaggio da una struttura di chiesa ben visibile nelle sue forme, a una religiosità più individualizzata, privatizzata, fino a relegare la religione nello spazio privato delle coscienze, rendendola quindi meno visibile.

Oltre alla privatizzazione, un’altra componente della sensibilità religiosa odierna è data dall’amplificazione delle esperienze emotive, un fenomeno che riguarda non solo i giovani, ma riflette cambiamenti culturali ben più estesi e profondi.

Questa religione dell’anima, che peraltro ha presenza egemone sullo scenario europeo, pone problemi consistenti alla Chiesa che è in Italia, oltre che alla coscienza di ogni cristiano. Assistiamo infatti ad un primo scenario: la comunità cristiana è composta da persone con sensibilità diverse e per questo non è più possibile svolgere un cammino unitario di Chiesa. Non sono ricercati o proposti spazi di discernimento all’interno della comunità: pochi i Consigli Pastorali, le Assemblee di laici o di preti, i momenti di confronto tra gruppi, associazioni, movimenti. Insomma, è difficile giungere ad un giudizio unitario e condiviso a proposito di temi etici rilevanti. In questo contesto, bastano le dichiarazioni del Magistero ecclesiale? E’sufficiente invocare l’ubbidienza?

La condizione della nostra comunità ecclesiale rende dunque difficile il cammino verso una sensibilità positiva a proposito di temi etici rilevanti, quali sono quelli connessi con gli aspetti sociali della morale. Per quanto ci riguarda, ecco la carenza di un cammino verso una sensibilità positiva a proposito della pace e in genere dei contenuti che abbiamo visto presenti nell’Articolo 11 della Costituzione.

La seconda tentazione consistente della Chiesa è quella di intendere il fenomeno del ritorno alla religione civile, come una nuova opportunità per il cattolicesimo civile, dimenticando che invece il compito primo della Chiesa è di curarsi della coscienza dei singoli, approfondendo le ragioni evangeliche della adesione alla fede e offrendo gli strumenti che le permettano alla singola coscienza. Poi da qui discende la possibilità che tutta la comunità cristiana possa contribuire a governare la complessità in cui la società è immersa e dalla quale tutti siamo interpellati.

2. I problemi del rapporto con i ‘laici’ nella costruzione della società.

Anche il rapporto tra laici e cattolici, in questo tempo, appare piuttosto lontano dal clima della Costituente. E’ difficile intendersi e dialogare, o meglio, si tratta di un rapporto “agitato”.

È vero che talvolta anche i laici sembrano prestare attenzione alla parola della Chiesa, sopratutto quando non sanno a chi affidare l’etica pubblica... È il caso dei cosiddetti "atei devoti" − un ossimoro che ha fatto fortuna in Italia più che altrove − i quali, pur dichiarandosi democratici, mostrano d’essere sensibili alle attenzioni etiche e alle dichiarazioni di principio, al punto tale da chiedere talvolta il consenso alla Chiesa nel formulare le richieste legislative per nuove condizioni in cui la società si trova a svilupparsi. Così la religione cattolica diventa in Italia la grande supplente dell'etica pubblica.

Facendosi forti di questo ascolto, alcuni membri della gerarchia insistono sulla necessaria subordinazione delle leggi umane alla legge naturale, interpretata dal magistero della Chiesa. Talvolta si nota che il giudizio sulle leggi che riguardano i comportamenti umani soprattutto in ambito dell’etica della vita è molto severo; si esprime addirittura in termini di obiezione di coscienza nei confronti di norme, o persino di comportamenti professionali dovuti, che hanno a che fare con comportamenti che la morale cristiana dichiara immorali. Non allo stesso modo di sviluppa una attenzione ai temi dell’etica sociale, e in specifico, per ciò che riguarda la giustizia tra i popoli, lo sviluppo di aree del pianeta in cui la povertà può solo lasciar prevedere tensioni e guerre. Il tema degli armamenti non è preso a carico dal dibattito pubblico all’interno della Chiesa.

In Italia il ritorno alla religione civile non coinvolge solo il rapporto tra mondo ecclesiale e uomini politici che si ispirano a credenze religiose, ma si estende anche agli atei devoti i quali, pur essendo privi di veri interessi per la religione, fanno tuttavia ricorso ad essa come strumento efficace per difendere il patrimonio di cultura e di valori dell'Occidente. Alcuni laici, infatti, identificano nel sacro una diga alla decadenza morale, una garanzia di fronte alla caduta dei valori civili e una possibile barriera ideale, talvolta anche fatta di norme cervellotiche, contro il crescente numero di persone appartenenti a religioni e culture diverse dalla cultura occidentale e dalla religione cristiana. Non è un aiuto alla pace il fatto che la vita sociale appare come orfana dei grandi riferimenti ideali dei quali pure la vita comune ha bisogno.

Non si può però ignorare che le raccomandazioni morali della Chiesa suonano talvolta sgradite agli orecchi della cultura laica allorchè si parla dello sviluppo dei popoli, della giustizia nella distribuzione dei beni tra le nazioni, della ricerca di guadagno mediante la costruzione e il commercio delle armi. Il motivo è che la predicazione della Chiesa sembra a loro ignorare il nesso obiettivo tra evidenza morale e forme dello stile di vita dell’occidente, la necessità di curarsi dello sviluppo umano di tutti i popoli. Premesse tutte che sarebbero in grado di sostenere quanto è richiesto dalla seconda parte dell’Articolo 11 della Costituzione.

Qualche conclusione

1)Per una compiuta lettura-interpretazione dell’art. 11 si dovrebbe aprire nel paese una discussione franca e serrata sul bene difesa. Al varo di ogni finanziaria si improvvisa una disputa di corto respiro su tagli più o meno appropriati al settore difesa. Perché tale discussione sia seria e proficua, non superficiale o strumentale, sarebbe necessario maturare un consenso, a valle di un vero aperto confronto, sulla “cultura della difesa” nel nostro paese. Su ciò che essa presuppone e prescrive, su ciò che è necessario e ciò che non lo è. Tale “cultura della difesa”, a sua volta, rinvia all’idea che come comunità nazionale abbiamo del posto che compete all’Italia nella comunità internazionale. Un’idea non velleitaria ma realistica e capace di concretezze di prospettive e di interventi; non parassitaria perché vissuta su alleanze attuate e volute da altri, e neppure accidiosa, quasi non toccasse anche a noi costruire la pace attraverso impegni per una più giusta distribuzione dei beni, mediazioni politiche a livello internazionale e diplomazia.

Un secondo aspetto importante è la pressione che, attraverso l’opinione pubblica, si può svolgere a proposito del commercio delle armi. E’ a dir poco allarmante che la normativa proposta dalla Legge 9 luglio 1990, n.185 [Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento], che prevede la discussione dei dati raccolti dalla Presidenza del Consiglio, a oltre due anni dall’inizio della legislatura non sia stata ancora discussa.

E’ inoltre da tener presente che l’Italia occupa un posto di rilievo nel commercio internazionale delle armi, passando nell’ultimo quinquennio ad un incremento di più del 200% per l’area dei Paesi europei. Va inoltre ricordato che il Governo Italiano autorizza l’esportazione di armi in paesi nei quali è controverso il rispetto dei diritti umani e vi è una attenzione allo sviluppo umano decisamente medio basso. Parliamo di paesi come l’Arabia Saudita, gli Emirati arabi, l’India e il Pakistan, la Turchia. 2

Questo è il terreno proprio della politica con la P maiuscola, che si nutre di visione e di progetti di largo respiro. Una politica di cui, purtroppo, non si vede traccia. Ma, attenzione, anche a noi tocca coltivare una visione e una cultura politica di questo tipo, giacché senza politica non si risolvono i problemi comuni (‘sortirne assieme…” e il bel verbo usato da don Milani, verso il quale idealmente siamo in cammino, quando parla della politica). Noi siamo chiamati, da credenti, ad operare dentro la chiesa e dentro la società. Il pericolo, che molto ci penalizza, sta nella tentazione di opporre al pragmatismo dei politici un utopismo (profetismo?) velleitario che non scuote la loro sordità.

2)Un secondo pericolo è la trascuratezza nei confronti della comunità ecclesiale; senza di essa non ha modo di crescere la passione per il Vangelo e per le sue prospettive a proposito della pace. Domandiamoci con realismo: nel contesto ecclesiale che abbiamo velocemente descritto, quale prassi pastorale può formare i credenti alla pace?

A) La prima attenzione è che è necessario recuperare la categoria della testimonianza cristiana − un comportamento attivo che consegni alla persona la verità stessa del vangelo. Questo sembra oggi un impegno fondamentale per il cristiano. Che cosa annuncia il Vangelo a proposito della Pace? Perché Cristo è detto “nostra pace”?

In un contesto culturale in cui è avvertito come importante il dialogo e la tolleranza, l'idea di testimonianza pur non perdendo la connotazione di uno stile amichevole nella proposta religiosa, porta in se la persuasione che il credente può svelare il senso del mondo, in Cristo. La testimonianza non può dimenticare che una connotazione essenziale dell’ annuncio cristiano è l'appello alla conversione, perché la rivelazione di Dio chiede di necessità di accogliere la lettura che Cristo offre della storia umana.

In questo senso, la fedeltà al vangelo deve sopportare l'inattualità, cioè la distanza inevitabile con la fugacità dell'opinione. E ciò esige un compito critico nei confronti della cultura in cui siamo chiamati a vivere.

B) La seconda attenzione, che consegue dalla prima, consiste nell’invito a cogliere l’essenzialità del vissuto cristiano, quale prassi di prossimità − nella contingenza dei tempi − con gli uomini e le donne, alla luce di Cristo e del vangelo. Come ricordava recentemente anche il Papa, nell’incontro con i vescovi italiani riuniti per l’assemblea della CEI: «l'accoglienza della proposta cristiana passa attraverso relazioni di vicinanza, lealtà e fiducia». E ancora: sono i «rapporti umani autentici, che aiutino a non sentirsi soli davanti alle sfide della vita».

In una situazione di vita così radicalmente mutata, non esistono soluzioni facili e l’annuncio del Vangelo deve confrontarsi con le nuove forme di vita sia personale che comunitarie. Sappiamo che ormai oggi non esiste più un metodo pastorale unico e valido in ogni luogo e occasione, ma siamo al tempo stesso consapevoli che non è possibile abdicare ingenuamente ad ogni struttura, invocando una pseudo disponibilità allo Spirito.

Dunque, non si tratta di rinunciare ad ogni piano pastorale, ma di prestare attenzione, al tempo stesso, ad accompagnare discretamente lo sbocciare della vita che sorge qui e là in modo imprevedibile, perché possa trasformarsi in una “avventura spirituale”. Solo così, infatti, si può andare incontro alle esigenze di coloro che non fanno parte delle abituali comunità parrocchiali.

Questo significa contare anzitutto sulle “relazioni di prossimità”, perché «la vita e la fede non si generano a distanza, ma ad altezza dello sguardo e a portata della voce, in un luogo preciso, su una porta di casa e attraverso incontri significativi» (Christoph Theobald).

Il rispetto per l’interiorità e l’incontro personale sono certamente elementi essenziali di un’esperienza cristiana caratterizzata da «cammini di fraternità e di umanizzazione». Tuttavia, non si può fare a meno del quadro istituzionale, perché un corpo non sta in piedi, né può crescere senza un’ossatura.

3)Per quanto riguarda l’istituzione Chiesa, vi è pure un cammino da fare per ciò che riguarda la lealtà verso la Costituzione della quale ora parliamo. E’ vero che ci siamo soffermati principalmente sull’Articolo 11, ma la lealtà verso la Costituzione merita considerare due profili:

A) quello della trasparenza e della legalità, a cominciare dai bilanci, che dovrebbero essere esemplari, sia per corrispondere al “privilegio” del regime concordatario, sia per un dovere di coerenza con il messaggio etico-civile di una Chiesa che predica civismo e lealtà verso le
istituzioni;

B) il profilo che attiene alla cooperazione responsabile di laici competenti nella gestione dei beni ecclesiastici. L'esperienza attesta che talvolta, in questo caso anche ai piani bassi della Chiesa, l'illegalità e' il prodotto, più o meno consapevole, della leggerezza e del pressapochismo, di un deficit di familiarità con le leggi civili. Se i sacerdoti, il cui ministero li chiama ad altro, tanto più in un tempo di penuria di vocazioni, delegassero di più a laici capaci e affidabili, certi spiacevoli incidenti si farebbero più rari

C) Per quanto poi riguarda le proposte da tenere presenti nella comunità ecclesiale a proposito dell’Articolo 11, ritorniamo su quanto è stato detto e pubblicamente approvato il 30 gennaio scorso in un convegno voluto dall’Ufficio CEI per i problemi del lavoro, del sociale e della pace, dalla Caritas e da Pax Christi. Le riprendiamo a conclusione del nostro incontro.

Per concludere: possibili teemi da sviluppare nelle comunità cristiane

1.Il rifiuto della logica delle armi e del riarmo. Dire armi significa dire produzione, commercio, partecipazione finanziaria, guerra, sopruso contro le popolazioni povere, controllo sociale nei paesi a democrazia fragile, corsa al riarmo, bambini soldato, ferite, morte. Come comunità cristiane, ci è chiesto di disapprovare la fabbricazione incontrollata delle armi, di non giustificarne l’uso indiscriminato, di far riflettere quanti operano in questo settore produttivo, economico, finanziario se Vangelo non ha nulla da chiedere loro a questo proposito.
2. La scelta della nonviolenza evangelica come linguaggio, progetto sociale e politico, testimonianza e primizia del Regno di Dio. E’ per noi una sfida pastorale il fatto che nelle nostre comunità cristiane trova acritica accoglienza la giustificazione della guerra e della violenza, della legittima difesa armata e della ingerenza umanitaria con gli eserciti, e non è altrettanto presente l’attenzione per la difesa popolare nonviolenta, la passione per la verità e i concreti gesti di amore che danno prospettive a un mondo nuovo e possibile, secondo le parole dei Profeti. Il cristiano non distoglie il volto dalla brutalità dell’oppressione, ma nemmeno si fa trascinare nella logica che lo vuole “nemico” perché altri lo hanno definito come tale.
3.La riconciliazione come stile e impegno. Non solo la società secolarizzata ma anche le nostre comunità cristiane sono sempre più divise, incapaci di dialogo, accusatorie, “l’un contro l’altra armata”. Scegliere la pace significa fare ogni sforzo per riuscire a essere presenza di riconciliazione, facilitatori di incontro, generatori di dialogo, tessitori di perdono. Se è ormai consolidata l’idea che ogni parrocchia abbia al proprio interno la Caritas attenta alle povertà del territorio e alle politiche sociali oppure un gruppo di catechisti, è sempre più urgente che ogni parrocchia faccia nascere un “gruppo ‘Giustizia e Pace” che si articoli anche come “gruppo di verità e riconciliazione” capace di ricucire le fratture senza che il prezzo sia quello dell’avvocato, dei giudici di pace o dei tribunali penali. Quante energie e denaro risparmiati e quanta comunione preservata!
4.Un rapporto evangelico con il denaro. Con troppa facilità gestiamo le nostre economie senza criterio. Abbiamo soldi in banche che sostengono il commercio di armi, investiamo in fondi di cui bene non conosciamo l’utilizzo.
5.Coraggio nelle sfide che rendono vivo e impegnativo il quotidiano: la sfida della speranza contro la disperazione, la sfida della povertà contro la dissipazione, la sfida della nonviolenza contro la vendetta, la sfida della giustizia contro l’elemosina, la sfida della partecipazione contro la pigrizia del disimpegno civile, la sfida della comunità contro l’egoismo, la sfida del disarmo contro la guerra, la sfida della Pasqua contro la morte, la sfida dell’abitare contro la sopravvivenza, la sfida dell’accoglienza contro la paura, la sfida della conversione contro la rigidità, la sfida della vita contro la morte.

Scelte pastorali

La scelta fondamentale del disarmo deve esplicitarsi in precise scelte e gesti che siano chiare e visibili nella concreta vita della nostre comunità cristiane. E' necessaria una traduzione pastorale del Magistero sociale della Chiesa.
Elaborare precisi itinerari educativi che evidenzino la testimonianza di profeti non armati, di profeti nonviolenti.
Avviare un serio e organico lavoro sui temi di "Giustizia e Pace" iniziando dal ridare vigore e spazio alle Commissioni Giustizia e Pace a livello nazionale, diocesano e locale, continuando il lavoro educativo nelle nostre parrocchie e comunità locali, allargando la collaborazione internazionale nelle comunità cristiane sui temi della pace e della scelta nonviolenta,
Progettare itinerari specifici di formazione teologica, morale, spirituale alla pace che accompagnino adeguate scelte di denuncia, di rinuncia e annuncio per una nuova "civiltà dell'amore".

29 luglio 2010

Note: 1) Th. Luckmann, La religione invisibile, Il Mulino, Bologna 1969
2) Cfr. Beretta G., Armamenti italiani: vent’anni di esportazioni. Aggiornamenti Sociali, Luglio Agosto 2010, p.491
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