Un discorso di padre Zanotelli

La tenerezza delle donne, via per la pace

''Il sistema nel quale viviamo e' violento, maschilista e patriarcale. Per uscirne occorre la tenerezza, che costituisce il cuore, l'essenza dell'essere donna, e va trasformata in un principio politico vincente''
15 marzo 2004
Fonte: Discorso di Zanotelli: http://www.vita.it
Appello per la nonviolenza da parte di una donna: http://italy.indymedia.org

Agnese Ginocchio. Voce e musica di Pace. Di una donna Queste parole sono state pronunciate recentemente da padre Alex Zanotelli in un incontro a Pescara. Il missionario comboniano è venuto nella città adriatica per un incontro della Rete Nonviolenta Abruzzo. E si è trattenuto anche il giorno seguente, 8 marzo, festa della donna. E ha voluto dire la sua. Parole che come al solito sono state dirette e schiette quelle del padre comboniano, da anni impegnato nel campo della solidarietà e della Pace. Padre Alex ci ha ricordato come nei secoli l'uomo è stato spesso capace solo di distruggere umanità. Mentre le donne, abituate alla cura amorevole dei figli(quanti di noi ricordano, magari anche dopo la fatidica soglia degli "anta" le amorevoli cure materne!), sono da sempre più colme degli uomini dell'empatia verso gli altri indispensabile per vivere in pace. Come nn dimenticare le grandi storie di donne che hanno segnato la storia. A partire dalle donne che ultime rimarranno a fianco del Cristo nell'ultima prova, quella della crocifissione. E saranno sempre loro le prime ad arrivare al sepolcro, e a dare l'annuncio della Resurrezione. Sono sempre stato convinto che Gesù abbia voluto che fossero le donne le prime a vederlo risorto. Proprio perché sono loro la speranza e l'amore sulle quali si fonda l'annuncio evangelico. E come non dimenticare tra le tante, una delle prime leader nonviolente del Novecento, Rosa Luxemborg. La sua lotta nelle Germania dei primi anni del Novecento anticipò anche i grandi profeti nonviolenti del Novecento, da Gandhi a Capitini. E proprio Gandhi fu definito uno dei primi femministi. Il Mahatma ha sempre apprezzato le donne. Che secondo lui avevano nel proprio animo i semi dell'ahimsa. Tanto è vero che disse sempre di aver imparato la nonviolenza da Kasturbai, sua moglie. Arrivando a Capitini non possiamo non ricordare che la bandiera arcobaleno che aprì la prima storica Perugia-Assisi fu confezionata sapientemente da mani femminili. E sempre le donne furono in prima fila a parteciparvi. La tenerezza, l'empatia, l'amore e la commozione di cui parla padre Alex sono state racchiuse dal Buon Dio in una donna che ha cambiato il Novecento. Una piccola grande donna che ha saputo, proprio come le donne della tradizione, accogliere il messaggio del Cristo. Ovviamente sto parlando di Madre Teresa. La sua dedizione agli altri, il suo scorgere in tutti il volto di Cristo, il suo amore per i fratelli sono un esempio. Che viene seguito ogni giorno da tantissime donne. Da Annalisa Tonelli, morta pochi mesi fa, alle tantissime missionarie. Il nuovo secolo si è aperto nel segno del terrorismo e delle guerre preventive. Ma per qualcuno questo sarà il secolo dell'altra metà del cielo. Sarà il secolo delle donne. Uomini se veramente vogliamo la Pace, la Pace vera, quella del Cuore e dell'Amore, dobbiamo farci da parte. E lasciare il posto alle vere tessitrici di Pace. Sarebbe veramente una bella prospettiva!!

Da un articolo di alcuni giorni fa di Indymedia Italia di Nella Ginatempo del Tavolo Bastaguerra - Parole di donna, parole di Pace:

Questa volta voglio parlare di sentimenti. Sono stanca di raffinati discorsi politici e ideologici dietro cui si nascondono furibonde passioni e disperati ancoraggi alle nostre poche certezze esistenziali. Sono nonviolenta per quello che sento, per ciò che mi fa ridere e mi fa piangere, prima ancora che per quello che penso o che apprendo dai libri o imparo da attivisti politici piú esperti di me.

Sono nonviolenta perché la violenza sui corpi delle persone mi fa dolore. Ho sentito in questi mesi inneggiare tante volte alla resistenza armata in Iraq e nei luoghi in cui l'Impero scatena le sue macchine di morte, ho sentito richiami all'eroismo dei nostri partigiani, dei partigiani vietnamiti, alla gloria dei combattenti per la libertà di tutto il mondo. Non discuto sulle ragioni di queste cause di giustizia da cui nasce anche la mia storia personale. Però non riesco a vivere la "necessità della lotta armata in certi contesti" come una esaltazione eroica, come un rifiorire della mia passione politica (questo mi pare di leggere sui volti e nelle parole di tanti compagni, soprattutto maschi).

A dire il vero la vivo come un lutto. La mia ragione si rifiuta di accettare che l'unico mezzo per non farsi sopraffare dalla violenza del potere e per non subire l'ingiustizia della guerra e dell'occupazione sia la lotta armata. Ma credo che la mia ragione sia refrattaria per il fatto che i miei sentimenti mi portano da un'altra parte. Per questo ostinatamente cerco altre strade, mi sforzo di convincere gli altri che la resistenza attiva può essere ancora piú efficace se diventa lotta nonviolenta di massa col sabotaggio, col boicottaggio e la disobbedienza civile. Quindi c'è una radice sentimentale che mi porta a rifiutare l'uccidere: e quando mi viene presentata la necessità dell'autodifesa con le armi come legittima azione positiva, io dico sí è legittima, ma dentro di me c'è un pianto perché io sento che uccidendo per difenderci sacrifichiamo anche una parte della nostra umanità. Non riesco ad abbracciare l'estetica del fucile, mi dà un sentimento di cupezza e di morte.

Forse mi posso permettere questi sentimenti perché vivo in un paese ricco e pacificato, dove altri hanno imbracciato il fucile prima che io nascessi ? Dunque la non violenza è un lusso ? Non sono convinta di questo perché ci sono state e ci sono nel mondo tante lotte di povera gente che anche per la propria sopravvivenza, come nell'India di Gandhi, hanno scelto pratiche di nonviolenza attive. E in ogni caso oggi io sento cosí, sento il ripudio dell'uccidere e in fondo io rappresento un tipo antropologico: una donna di mezz'et` occidentale, benestante (e nipote di un prigioniero dei campi di sterminio nazista). Bene, forse questo tipo antropologico ha maturato una diversa, nuova sensibilità.

Ho ammirato la Resistenza e l'ho insegnata a scuola: ma oggi ai sentimenti di esaltazione eroica subentra la pietà. Provo pietà per chi è stato costretto a uccidere, non solo per chi è morto. E non so se oggi io stessa sarei capace di imbracciare il fucile per una causa di giustizia. Credo di no perché, come nella "Guerra di Piero", non vorrei vedere gli occhi di un uomo che muore. Perché sento che qualunque causa di giustizia si infrange di fronte alla somma ingiustizia di sopprimere una vita umana.

Sono sconvolta dal gesto di quella madre kamikaze palestinese, ma anche dalle sue parole. Io che sono madre ho rischiato consapevolmente la vita per mettere al mondo una creatura in una situazione molto difficile. Adesso mi si presenta l'esaltazione del martirio di una donna che accetta di fare a pezzi il proprio corpo pur di uccidere gli odiati corpi del Nemico. Che abisso di distruttività!

Certo che comprendo le ragioni dell'odio, maturato nel popolo oppresso di Palestina. Ma anche se comprendo l'odio non riesco ad accettare il pensiero e la pratica della morte. Aldilà di qualunque discorso giustificatorio credo che i kamikaze siano una mostruosità, una specie di orrifica deviazione dei popoli oppressi che non credono piú nella vita e nel futuro. Loro malgrado e nostro malgrado la loro disperazione ha prodotto una mutazione genetica della lotta di liberazione di un popolo. Come ci si può liberare scatenando solo l'odio e la morte, scardinando i sentimenti atavici di rapporto vitale tra madre e figli, negando perfino l'istinto di sopravvivenza, offrendo ai figli l'esempio di chi uccide e muore ?

Tutto ciò mi produce una immensa pietà e anche una cupezza infinita. Non posso sentirmi parte di un mondo, di un secolo, di una civiltà, che giustifica l'uccidere in nome di una causa di giustizia. Devono esserci altre strade, altrimenti il futuro non può cominciare.

Sono entrata in questo grande movimento dei movimenti perchè rilanciava lo spazio dell'utopia, perché diceva che "Un altro mondo è possibile". E adesso sono disposta a fare qualunque cosa per sostenere la causa, tranne che ad uccidere e, contemporaneamente, a giustificare l'uccidere: questo è in definitiva il motivo per cui mi oppongo alla guerra. Perchè la guerra uccide, cosí come uccide la fame, la sete, lo sfruttamento capitalistico sui paesi poveri del mondo.

Capitalismo e guerra sono le due facce della stessa medaglia: entrambi calpestano quel meraviglioso mistero che è la vita umana. Credo che tocca a noi aprire le porte di quell'altro mondo possibile, ma la chiave non può essere la giustificazione delle lotte violente del Novecento. La chiave sta nell'utopia concreta della nonviolenza. Ovvero nel fondare il tabú dell'uccidere, nel trasformare il sentimento del lutto in elemento di una nuova antropologia, in processo di civilizzazione.

Imparare a lottare per la giustizia senza armi e senza violenza potrebbe portarci molto lontano. Potremmo riuscire a dimostrare che non è possibile governare il mondo con le armi e togliere completamente consenso ed egemonia ai signori della guerra che alle armi ci hanno lungamente educato.

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