Bimbi stregoni, i rifiutati di Kin-la-Belle
«Cent francs, Monsieur, s'il vous plait». Intabarrato in una copertina consunta, che lascia trasparire solo gli occhi appesantiti dal sonno, un bimbo minuscolo si alza dalla panca di legno che aveva eletto a giaciglio. Intorno a lui, una decina di compagni continuano indisturbati i loro sogni. Kinshasa, rond-point Ngaba, quartiere di Lemba, a due passi dal campus universitario. Ogni sera, il brulicante mercato diventa dormitorio per una squadriglia di infanti abbandonati. Sono gli shegué, i bambini di strada, figli dell'Aids e della guerra, ma soprattutto di quella decomposizione sociale che è diventata normalità in questa megalopoli caotica e sovrappopolata in cui solo il 5 per cento degli abitanti ha un regolare lavoro.
A Kinshasa, i bimbi di strada sono migliaia: a Masina, un sobborgo vicino all'aeroporto tanto affollato da meritarsi il soprannome di «Repubblica popolare di Cina» e nei vari quartieri «coupe-gorge» («tagliagola») della parte orientale della città, in cui è sconsigliato avventurarsi dopo il tramonto, una legione di sheguési aggira ogni notte a caccia di cibo. Si insinuano tra i banchi vuoti dell'enorme mercato fatto costruire da Laurent-Désire Kabila. Si accasciano in ritrovi di fortuna. Si aggrappano alla vita con quel misto di sfrontatezza e incertezza che segna una maturità raggiunta troppo precocemente.
Un universo di potenziali Harry Potter
L'incedere di questo esercito di bimbi privati della propria infanzia è ritmato da uno sfondo di grida forsennate, di urla isteriche che tagliano in due il silenzio di questi quartieri miserabili. Sono le sette pentecostali, spuntate come funghi e diffusesi con la forza di un uragano tropicale: in ogni angolo della capitale, le chiese carismatiche raccolgono ormai - e spesso per sessioni di preghiera che durano notti intere - migliaia di persone, che si gettano tra le braccia dei vari pastori e predicatori con la stessa foga con cui un naufrago avvinghierebbe una tavola di legno in mezzo al mare. Apparentemente slegati l'uno dall'altro, i due fenomeni sono assolutamente complementari. Anzi, sono un fenomeno unico. Perché lo sviluppo delle chiese pentecostali - a sua volta determinato dalla crisi che ha stravolto il tessuto sociale di tutto il paese - ha portato a una recrudescenza delle credenze nella stregoneria. E il terrore per la stregoneria ha diffuso nella capitale una sorta di universo parallelo perverso in cui ogni bambino è sospettato di essere un potenziale Harry Potter. Detto in altri termini, gran parte degli sheguéche animano e agitano il panorama urbano di Kinshasa sono stati cacciati di casa con un'accusa gravissima: quella di essere degli infidi stregoni, che trascinano il malocchio sul tetto familiare.
Capro espiatorio perfetto, il bimbo troppo irruente o troppo silenzioso, quello che ancora fa la pipì a letto o che rifiuta il cibo è subito stigmatizzato e messo alla porta. Se non viene raccolto dalle organizzazioni che si occupano di assistenza e reinserimento, andrà ad ingrossare i già corposi ranghi dell'esercito degli shegué.
Vera e propria emergenza sociale in una città priva di ogni sistema di assistenza sociale o sanitaria, il fenomeno degli enfants-sorciersè relativamente recente. «Fino all'inizio degli anni '90, non avevamo mai sentito parlare di bambini stregoni», ricorda Richard Voka, presidente del centro Simba-ngai («Sostienimi» in lingala), che assiste i bimbi abbandonati dando loro un tetto e insegnando loro un mestiere. «Tutto è cominciato con la crisi economica e lo sviluppo delle sette evangeliche. Sono loro ad aver diffuso questa credenza nella stregoneria, che è diventata una vera e propria piaga».
Normalmente i bimbi stregoni vengono da famiglie miserrime, spesso disgregate, in cui i genitori o coloro che ne fanno le veci sono incapaci di fornire il necessario sostentamento alla numerosa prole. Il caso di Christian, a questo proposito, è emblematico. Alla morte del padre, la madre si trasferisce in Angola e questo bimbetto di tredici anni rimane a vivere con i nonni. Lo shock per l'assenza dei genitori si traduce in un atteggiamento introverso, al limite del mutismo. I nonni vanno a vedere un pastore evangelico, che identifica immediatamente i segni della stregoneria e propone un esorcismo. Ma i suoi tutori, terrorizzati dall'idea di avere uno stregone in casa, preferiscono malmenarlo e metterlo alla porta. Christian ha passato tre anni in strada prima di essere raccolto dai volontari di Simba-ngai. Ora sta facendo un apprendistato da falegname e ha un grande sogno in testa: aprire un atelier tutto suo.
L'appropriazione della devianza
Con i suoi tre laboratori di falegnameria e i suoi due dormitori, il centro Simba-ngai assiste 96 bimbi abbandonati. «Raccogliamo i ragazzini per strada e cerchiamo di convincerli a venire da noi a imparare un mestiere», racconta Voka. Che continua: «Non sempre è facile. Noi miriamo a reinserire i più piccoli, quelli che non sono ancora stati completamente traviati dalla vita di strada». Nella tassonomia della disgregazione sociale della capitale congolese, è prassi operare una distinzione tra due diverse categorie: «i bambini nella strada» (che sono stati abbandonati da poco o che semplicemente stanno tutto il giorno in giro ma non hanno lasciato la famiglia) e «i bambini di strada» (quelli cioè che hanno eletto la strada a propria famiglia). Si tratta di due livelli distinti, cui corrisponde un diverso grado e possibilità d'azione. «I bambini di strada sono gli sheguéin senso proprio, quelli ormai impossibili da aiutare. Nelle nostre spedizioni notturne nei luoghi sensibili dove si ritrovano, noi cerchiamo invece di individuare i bambini nella strada», continua Voka. «Offriamo loro del cibo, discutiamo con loro e diamo loro l'indirizzo del nostro centro. Alcuni vengono. E il semplice fatto che hanno attraversato la città testimonia di un reale interesse ad abbandonare la strada. Dopo colloqui psicologici e un periodo di prova, li inseriamo nel programma di tirocinio. Poi, quando è possibile, contattiamo la famiglia per avviare un percorso di reinserimento».
Il problema è che spesso i bimbi stregoni introiettano le accuse che vengono loro rivolte e assumono il loro ruolo come vera e propria reazione a una società che tende a respingerli. Immaginano quindi di avere poteri straordinari, di vivere in un universo onirico parallelo («il secondo mondo»), in cui uccidono le persone con la forza del pensiero e se ne cibano. I racconti citati dall'antropologo belga Filip De Boeck, che ha studiato a lungo il fenomeno e ha scritto insieme alla fotografa Marie-Françoise Plissart un libro illuminante sulla città («Kinshasa. Tales of the invisibile city»), mostrano in modo molto chiaro questo meccanismo di appropriazione della devianza. «Il mio nome è Touckys. Sono diventato uno stregone a causa di mia zia. Mi ha trasformato quando avevo otto anni. Ora ho tredici anni. Anche mio fratello è nel secondo mondo. Ci incontriamo regolarmente durante i raduni notturni. Mio fratello ha cominciato a uccidere la gente prima di me. Da quando sono diventato uno stregone, ho mangiato solo una persona, una donna. Nel secondo mondo, sono sposato. Mia moglie si chiama Helena ed esiste solo durante la notte», ha raccontato uno dei bimbi interrogati da De Boeck.
Le perversioni del demone urbano
Il fatto è che i bimbi stregoni sono solo una delle molteplici perversioni di una città che è ormai ridotta a un cumulo di macerie. Nell'immaginario ironico e rassegnato dei suoi abitanti, la vecchia «Kin-la-belle» delle speranze post-coloniali ha ormai lasciato spazio a «Kin-la-poubelle» («Kin-la pattumiera»), gigantesca discarica a cielo aperto intasata da un traffico apocalittico e da stormi di indigenti, sorta di demone urbano che fagocita indifferente i suoi abitanti. In questo contesto desolante, l'arte d'arrangiarsi è l'unica speranza di sopravvivere. E, tolte le poche organizzazioni assistenziali, gli enfants-sorciershanno ben pochi rimedi: tanto vale allora credersi stregoni e cercare di fare miracoli.
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