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Testo della poesia e saggio di approfondimento

La bambina di Pompei

Con uno sguardo colmo di pietas Primo Levi si sofferma, attraverso la sua poesia, su quello che è il disastro della guerra per ogni singolo essere che ne viene coinvolto. La bambina di Pompei si apre con la rievocazione di una calamità naturale, ma poi allarga alle altre “calamità”
8 ottobre 2022
Franca Sartoni

Primo Levi

Con uno sguardo colmo di pietas Primo Levi si sofferma, attraverso la sua poesia, su quello che è il disastro della guerra per ogni singolo essere che ne viene coinvolto. La bambina di Pompei si apre con la rievocazione di una calamità naturale, ma allarga poi il discorso a quelle “calamità” che, invece, si potrebbero ben evitare. L’elefante sposta il punto
di vista a quello del mondo animale, con un effetto di straniamento particolarmente efficace.

La bambina di Pompei

Poiché l'angoscia di ciascuno è la nostra
Ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna
Che ti sei stretta convulsamente a tua madre
Quasi volessi ripenetrare in lei
Quando al meriggio il cielo si è fatto nero.
Invano, perché l'aria volta in veleno
È filtrata a cercarti per le finestre serrate
Della tua casa tranquilla dalle robuste pareti
Lieta già del tuo canto e del tuo timido riso.
Sono passati i secoli, la cenere si è pietrificata
A incarcerare per sempre codeste membra gentili.
Così tu rimani tra noi, contorto calco di gesso,
Agonia senza fine, terribile testimonianza
Di quanto importi agli dei l'orgoglioso nostro seme.
Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella,
Della fanciulla d'Olanda murata fra quattro mura
Che pure scrisse la sua giovinezza senza domani:
La sua cenere muta è stata dispersa dal vento,
La sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito.
Nulla rimane della scolara di Hiroshima,
Ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli,
Vittima sacrificata sull'altare della paura.
Potenti della terra padroni di nuovi veleni,
Tristi custodi segreti del tuono definitivo,
Ci bastano d'assai le afflizioni donate dal cielo.
Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.


20 novembre 1978

Il testo si apre con un postulato (“Poiché l’angoscia di ciascuno è la nostra”) che ci indica, ancora una volta, a quale altezza etica si colloca l’opera di Levi; a questo verso, a mio parere, si può accostare, declinata però in un “noi”, la nota affermazione di Terenzio Homo sum, humani nihil a me alienum puto, “Sono un essere umano, niente di ciò che è umano ritengo estraneo a me”.
“Poiché l’angoscia di ciascuno è la nostra”: dunque Levi rievoca, usando il “noi”, (“noi” come esseri umani), il momento della morte di una fanciulla durante l’eruzione del Vesuvio, “quando al meriggio il cielo si è fatto nero”. La fanciulla si stringe alla madre come se volesse rientrare nel suo grembo, ma invano, perché “l’aria volta in veleno” è filtrata nella sua casa tranquilla, “lieta già del tuo canto e del tuo timido riso”. E in queste ultime parole è evidente l’eco di Leopardi che, in “A Silvia”, come bene ricordiamo, aveva scritto “sonavan le quiete/ stanze, e le vie d’intorno,/ Al tuo perpetuo canto (v. 7-9). Ed anche il “tuo timido riso”, come scrive Levi, è un’eco leopardiana, una specie di sintesi di “negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi” (v. 4) di Silvia.
La cenere dopo secoli si è pietrificata in un contorto calco di gesso (i calchi ben noti dei corpi delle vittime di Ercolano, Pompei e Stabia e l’enjambement “pietrificata/ a incarcerare” nei versi 10 e 11 mette in risalto due termini-chiave), rappresentando così una agonia che sembra senza fine, “terribile testimonianza/ Di quanto importi agli dei l’orgoglioso nostro seme…”(v. 13-14). Ed anche questo è un richiamo a Leopardi, a “La ginestra” nei versi 37-41, con una identica e
sconsolata percezione dello scarto tra la fragile preziosità dell’uomo e la spietatezza della Natura: “A queste piagge/ venga colui che d’esaltar con lode/ il nostro stato ha in uso, e vegga/ quanto è il gener nostro in cura/ dell’amante natura. E la possanza/ qui con giusta misura/ anco estimar potrà dell’uman seme… (Leopardi, Canti, “La ginestra o il fiore del deserto”, versi 37-43. Inutile aggiungere che l’argomentazione leopardiana prende le mosse appunto dall’eruzione del
Vesuvio… Con una analoga pietà per l’uomo…).
Dunque la fanciulla di Pompei, per tornare al testo leviano, ci ha lasciato l’impronta del suo dolore, del suo corpo, ma di Anne Frank (di cui Levi non dice -e questo accade anche in altre poesie- il nome, usando invece la perifrasi “la fanciulla d’Olanda” (v.6) non è rimasto, dal punto di vista fisico, nulla: la sua cenere (ancora la cenere!) è stata dispersa nel vento… L’autore ne rievoca la prigionia “tra quattro mura” (“murata fra quattro mura”, con una figura etimologica che
ribadisce il senso di chiusura), cioè i due anni nell’alloggio segreto ad Amsterdam, e la scrittura, così importante per Anne, ricordata due volte nei versi a lei dedicati: “che pure scrisse la sua giovinezza senza domani”…”la sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito”.
E nulla rimane della scolara di Hiroshima, neppure ridotta in cenere, ma tramutata in una “ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli” (v. 21, la bomba nucleare), “vittima sacrificata all’altare della paura” (bellissimo il v. 22, forse un richiamo al sacrificio di ifigenia di cui parla Lucrezio, ma attualizzato all’esser stata vittima del clima di paura dell’incipiente guerra fredda).

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