Referendum Francia. Prodi "Basta accuse, ora i governi dicano che Europa vogliono"

Intervista a Repubblica Radio dell'ex presidente della Commissione: "Dobbiamo
discutere a fondo"
31 maggio 2005
Paolo Garimberti
Fonte: La Repubblica - 31 maggio 2005

La percezione dell'Europa come un apparato burocratico non solo lontano,
ma addirittura contrario agli interessi dei cittadini, che sta alla base
del «no» francese, dice Romano Prodi, «non si è formata in un solo giorno,
ma in anni e anni», ed è colpa «dei governi che quando avevano un problema
attribuivano la responsabilità all'Europa e dei primi ministri che di fronte
alle difficoltà dicevano che a Bruxelles sono tutti cattivi». In una lunga
intervista collettiva a Repubblica Radio, nella quale ha risposto alle domande
degli opinionisti del giornale, l'ex presidente della Commissione afferma
però che il rifiuto della Costituzione da parte degli elettori francesi
«non è una tragedia, calma e gesso, ora bisogna ragionare». E replica duro
e ironico al ministro delle Riforme, il leghista Roberto Calderoli, che
ora vuole indire un referendum anche in Italia: «Ma su che cosa vuol fare
il referendum Calderoli, se il Parlamento ha già approvato la Costituzione?
Vuol forse fare un referendum sul Parlamento? Ma su...».

Presidente Prodi, che cosa è successo per cui siamo riusciti a trasformare,
nella percezione dei nostri cittadini, una Costituzione importante e decisiva
per il nostro futuro come la Costituzione europea in qualcosa di burocratico,
quasi fosse una Costituzione che appartiene solo all'élite e non al popolo?
Come è potuto avvenire questo rovesciamento?

RP «Non è avvenuto in un solo minuto... Dai e dai, ogni governo che aveva un
problema ne attribuiva la responsabilità alla Commissione europea. Quando
un primo ministro era in difficoltà diceva che a Bruxelles erano tutti cattivi
o tutti burocrati. Questo è durato anni e anni, la stampa ne ha fatto eco
- soprattutto quella anglosassone, che ha dettato molte musiche agli altri
media europei. Col tempo si sono sparse delle leggende metropolitane. Ad
esempio quella della grande burocrazia di Bruxelles. In tutto non arriviamo
a 25mila persone: è un quarto dei dipendenti comunali di Madrid o di una
media città europea. Abbiamo fatto l'allargamento con 3.000 dipendenti in
tutto per dieci paesi, e tutti parlano di super-burocrazia di Bruxelles.
E poi il super-bilancio: io ho tenuto il bilancio a meno dell'1% del prodotto
nazionale lordo europeo, e questo comprese la politica agricola, strutturale,
di ricerca. Se per anni si dice che l'Europa è l'origine di ogni male, poi
la gente quando va a votare ci crede. In Francia si è aperto un referendum
in presenza di tensioni represse nei confronti di Chirac, di una diffusa
paura della Turchia, e infatti questo referendum cambierà totalmente l'atteggiamento
europeo nei confronti di Ankara. Mi sembra che la conseguenza prima sia
questa. Metta tutto assieme e arriviamo al disastro».

Lei, presidente, ha gestito l'allargamento a Est. Uno dei fantasmi assieme
a quello turco che ha già citato, è stato proprio questo. Si è trovata una
figura retorica, l'idraulico polacco che avrebbe tolto il lavoro all'idraulico
francese. Lei non pensa che l'allargamento a Est - che era moralmente, storicamente
e politicamente necessario - sia stato fatto troppo in fretta con non adeguata
preparazione psicologica nell'Unione, e in un momento di congiuntura economica
che non favoriva questo salto?

RP «Ma non diciamo sciocchezze, scusi la franchezza. L'allargamento è un fatto
storico, bisognava farlo e poi se anche ci sono tensioni o impopolarità,
quando una cosa è fatta per chiudere una tragedia della storia, evitare
le guerre, rimettere le cose assieme, si fa e basta. Nel caso specifico
è stato fatto talmente bene che tutti lo hanno votato contenti. Migliaia
di leggi sono state cambiate, messe a posto per avere una legislazione comunitaria
uguale per tutti, per garantire i nostri cittadini: nessuno ha detto che
l'allargamento era stato fatto male. Dopo l'allargamento io ho proposto
la politica di vicinato, cioè l'anello degli amici, in modo che fosse chiaro
che i confini dell'Europa erano ormai stabiliti in modo da togliere l'angoscia.
Può darsi che in qualche paese l'allargamento abbia inciso, ma non è stato
di certo determinante e comunque era una cosa che andava fatta».

Lei per anni ha sostenuto che occorreva un doppio livello: un'Europa vera
e propria con una specifica identità politica, storica e culturale, un'identità
riconoscibile all'interno e riconosciuta all'esterno, e poi una politica
di miglior vicinato con Paesi che dovevano avere di certo una relazione
speciale con l'Europa ma che gli europei stessi non sentivano parte dell'Europa.
Non crede stia prevalendo l'idea di un'"Europa pizza", come ha detto qualcuno,
per definire qualcosa di molto sottile e di molto esteso?

RP «Certo, ma non riguarda il referendum francese, dove una grossa parte voleva
più Europa. Qui dovremmo fare un'analisi specifica, perché noi abbiamo messo
insieme i voti che hanno detto «no» perché volevano più Europa e quelli
che hanno detto «no» perché ne volevano di meno. Che nei governi stia prevalendo
l'Europa che dice lei non c'è alcun dubbio. Tony Blair in questi anni è
stato abilissimo a fare questa politica. Ne ho discusso anche con lui, in
una cordiale ma ferma discussione. Ho detto: "dovrete pure decidervi nel
lungo periodo su qual è il destino che volete dare alla Gran Bretagna".
E' chiaro che la Gran Bretagna non può che essere per l'«Europa pizza»,
l'Europa sottile, più mercato che altro».

Lei ha detto che questo voto non può che cambiare il futuro. In che senso?

RP «Beh, adesso non possiamo certo mettere in discussione tutto. Ma pur essendo
convinto che siamo sulla via giusta, bisognerà coinvolgere i media, l'opinione
pubblica, tornare a discutere. Non si può fare finta di niente. Si dice,
"facciamo un altro referendum in Francia, facciamone due, tre, quattro,
cinque". Di fronte a questo mi sembra molto difficile. Poi seguirà molto
probabilmente il "no" olandese. E questo rende il "no" britannico, o il
fatto che il referendum britannico non si tenga proprio, un fatto quasi
fatale... Bisogna discutere a fondo su che cosa vogliamo in un'Europa futura.
Oggi abbiamo il Trattato di Nizza, l'Europa ha le sue istituzioni. Calma
e gesso. Stiamo tranquilli, però discutiamo a fondo sul futuro, prendendoci
il tempo necessario».

Parlando di futuro: si delinea chiaramente una sussistenza dell'Europa con
il Trattato di Nizza, e tuttavia si metteranno in moto dei meccanismi di
cooperazione più stretta tra alcuni paesi. Lei, come leader dell'opposizione,
quale posizione vede per l'Italia?

RP «Credo lei abbia ragione a considerare questa ipotesi. Qui è chiaro che
il ruolo dell'Italia è fondamentale: non possiamo che essere tra i paesi
d'avanguardia di questa possibile Europa a velocità superiore, o anello
interno, lo chiami come vuole. L'Italia non vive senza l'Europa, noi non
abbiamo la tradizione e la robustezza francese. Per noi il sì all'Europa
è un fatto ovvio perché ne abbiamo più bisogno, anche nei ricordi. In Francia
ha giocato moltissimo il ricordo della Francia passata, della sua potenza
mondiale, c'è stato molto interrogarsi se la sua potenza sarà più efficace
nell'ambito di un'Europa o fuori dall'Europa. In Italia questo problema
non si pone, non c'è questa memoria storica come non c'è stata nel referendum
spagnolo che è andato via liscio. Però io penso che proprio per questo o
l'Italia è all'avanguardia europea o esce definitivamente dalla politica
mondiale, come sembra essere il triste destino di questi ultimi anni».

Il ministro per le Riforme Calderoli ha già detto che proporrà al governo
di fare un referendum anche in Italia.

RP «Ma su cosa vuol fare il referendum, che il Parlamento l'ha già approvato?
Fa un referendum sulla sovranità del Parlamento? Ma su...».

È vero però, presidente, che anche in Italia - al di là dell'aspetto istituzionale,
perché il Parlamento ha già approvato la Costituzione - questo voto rischia
di dar fiato a pulsioni, che ci sono e che vengono prevalentemente da destra,
che sono contro l'Europa. E a questo moto di rifiuto si aggiunge poi la
critica portata da Fausto Bertinotti su una Costituzione troppo liberista.
Questa congiunzione di critiche da destra e da sinistra lei come la vede?
E come vede questa accusa di un'Europa nelle mani di un'elite troppo liberista,
sostenuta soltanto da ceti dirigenti? Lei sa che c'è anche questa critica...

RP «Lo so. In Francia i famosi manifesti del "no" spiegano che la Carta cita
decine di volte il liberismo, e Delors replica che però cita ben 89 volte
la parola sociale. Questa Costituzione è certamente un compromesso, ed essendo
un compromesso non infiamma nessuno. Però dava un serio ordine al futuro.
Adesso quest'ordine è stato rifiutato. Non è una tragedia perché viviamo
con le leggi esistenti, ma siccome l'Europa è indispensabile alla nostra
vita futura, ci serve per non sparire dalla faccia della terra, dobbiamo
metterci tranquilli a ripensare al nostro futuro. Senza badare a questi
incroci casuali tra destra e sinistra, perché Bertinotti e Calderoli sono
l'estrema sinistra francese e l'estrema destra francese».

Quest'accusa di troppo liberismo e di poco sociale non è stata mossa soltanto
dall'estrema sinistra: è stata mossa da più della metà del partito socialista,
da Laurent Fabius, da moltissimi deputati della sinistra - diciamo così
- moderata. Credo che questo venga anche dalla difficoltà di interpretare
e di leggere quello che è stato chiamato un Trattato costituzionale. È un
trattato o una Costituzione? Un trattato deve comprendere la terza parte
dell'attuale Costituzione, quella che contiene tutti gli indirizzi politici
per il futuro. Mentre una Costituzione dovrebbe soltanto esprimere dei principi.
Questa ambiguità, questo elenco telefonico che è stato il Trattato, era
molto difficile da leggere per gli elettori.

RP «Questo è un altro discorso. Il manifesto di Delors riportava una mia posizione, in cui con durezza dicevo che non dovevamo metterci questa terza parte della Costituzione perché è tecnica, e perché la parte sugli aspetti tecnici dev'essere facilmente emendabile, flessibile. Ma c'erano i signori britannici, che volevano una Costituzione non emendabile perché non si andasse più avanti di così. Non è una cosa nuova che parecchie persone volessero qualcosa in più: ero io stesso a capeggiarli, con la Commissione. Ma in politica si fanno le cose possibili, e questo era un buon compromesso. Certamente io
volevo di più: ma non siamo nati ieri, dobbiamo capire che c'erano queste
diversità e che bisogna fondere le volontà adagio adagio. Io ripeto sempre il proverbio della mia città natale: "Meglio succhiare un osso che un bastone", è una questione di buon senso. Non ho mai detto che era la migliore Costituzione
possibile, ho detto però che era un bel passo avanti».
«Voglio fare un'ultima raccomandazione: state attenti quando si dice che
questa Costituzione è stata scritta da burocrati e non dal popolo. A scriverla
è stata un'assemblea più vasta di quella che ha scritto qualsiasi altra
Costituzione: erano membri dei parlamenti europei, dei parlamenti nazionali,
ne hanno preso parte i governi... Quindi è uscita dal popolo. I governi
- compreso quello italiano, sarebbe bene ricordarlo al signor Calderoli
- avevano dei suoi rappresentanti. Almeno non si dica che è nata dai burocrati
di Bruxelles».

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