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Vecchie fabbriche cercano salvatori

Viaggio tra gli operai autogestiti di Buenos Aires In Argentina, cinque anni dopo la sommossa popolare che ha cacciato il governo liberista, è in continua crescita il movimento di recupero e autogestione delle fabbriche abbandonate dai padroni. Alcune storie operaie di successo
6 gennaio 2007
Claudio Tognonato
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Sono passati ormai cinque anni dall'insurrezione popolare che mandò a casa il governo argentino di Fernando de la Rúa e del suo ministro dell'economia Domingo Cavallo. Le convulse giornate del 19 e 20 dicembre 2001 - con l'assalto a supermercati, banche e istituzioni, e con un tragico saldo di decine di morti e feriti - furono un modello di sommossa popolare, contro il governo e contro il progetto neoliberista di cui esso era espressione.
Il modello economico, imposto con il colpo di stato del generale Rafael Videla nel 1976, poi adottato dai governi che si sono succeduti per un quarto di secolo e sempre ratificato dagli organismi finanziari internazionali, aveva portato l'Argentina al fallimento. In quelle giornate convulse il Fondo Monetario Internazionale venne individuato come la «mano invisibile», il primo colpevole del tracollo politico, economico e sociale del paese. Dopo quattro anni di continua recessione, le autorità assistevano inerti all'inevitabile epilogo: il prodotto interno lordo cedeva nell'ultimo anno perdendo in dodici mesi ben 16,3 punti. L'inflazione correva, il peso, la moneta argentina, pur ancorata al dollaro con un cambio fisso, perdeva il suo potere d'acquisto. I salari, solo nel 2001, avevano perso il 32% del loro valore reale. Tutto ciò aveva portato alla chiusura la quasi totalità delle piccole industrie. Le stime ufficiali parlavano di un 25 per cento di disoccupati, ma la cifra reale era di gran lunga maggiore. Chi non aveva lavoro accettava qualsiasi condizione e chi ancora lo aveva era disposto a tutto pur di non perderlo.
Gli operai occupano
In quei giorni la disperazione e la rabbia si unirono: le vittime del modello neoliberista non erano disposte a pagare il conto degli errori delle loro classi dirigenti. In questo clima di quasi insurrezione molti operai scelsero di rispondere alla sfida - all'inizio timidamente, poi in modo sempre più articolato - occupando le fabbriche abbandonate dai proprietari. Convinti che a fallire non erano loro ma i padroni, gli operai si offrivano di riprendere in mano la produzione e la gestione dell'attività.
Luis Caro, presidente del Movimento Nacional de Fábricas Recuperadas por los Trabajadores (Mnfrt), tra i principali promotori di queste iniziative ci spiega: «Molti avevano lavorato in quelle fabbriche per venti o trent'anni; ora, invece di tornare alle loro case e attendere un indennizzo che non sarebbe arrivato mai perché la legge dava la priorità alle banche creditrici nel recupero del debito, preferivano restare in fabbrica a lottare».
Oggi ci sono diversi movimenti che raggruppano e coordinano le attività delle fabbriche «recuperate». Anche se le loro posizioni politiche si sono differenziate, non hanno mai perso di mira l'obiettivo che li accomuna. Il successo di queste iniziative, insieme all'appoggio da parte del governo, ha dato loro sempre più spazio e credibilità, sia in Argentina che nel resto dell'America Latina. E' difficile dare una stima precisa dell'impatto di questa nuova forma di produzione sull'economia del paese: non si sa nemmeno con certezza quante siano le fabbriche recuperate. I due principali movimenti sono il già citato Mnfrt, che coordina l'attività di circa 130 stabilimenti rioccupati, e il Mner (Movimiento nacional de empresas recuperadas) intorno al quale si dice ne convergano circa 70. L'esperienza comunque è positiva e il numero continua a crescere.
Quando si entra in queste fabbriche si sente subito che il clima di lavoro è diverso. Ho avuto l'opportunità di visitarne alcune insieme a Luis Caro e quindi ho potuto verificarlo di persona. Durante la visita spesso gli operai si avvicinano per salutarci: raccontano come stanno andando le cose e ci informano anche sulle proprie vicende personali. Caro è nato nella borgata di Villa Fiorito, alla periferia sud di Buenos Aires, ed è riuscito a laurearsi in giurisprudenza a 36 anni. È una persona che non si arrende e questa tenacia lo ha portato alla testa delle lotte del movimento. Anche se ha peccato di qualche ingenuità politica, il ruolo di mediazione che svolge tra le istituzioni, la magistratura e gli operai delle fabbriche dimesse ne fa una pedina indispensabile.
Ognuna di queste industrie ha una storia a sé, un singolare percorso di risanamento e si trova in uno stadio diverso del recupero della capacità produttiva.
Visita alle fabbriche recuperate
La prima fabbrica che visitiamo è la Ghelco, una industria alimentare di medie dimensioni che produce materie prime per la preparazione di gelati e dolci. La Ghelco è stata una delle prime fabbriche recuperate. Già dal 1998, cioè all'inizio della recessione economica, i salari avevano incominciato a subire decurtazioni: ma alla fine del 2001 ormai non si trattava più di salari, ma di vere e proprie elemosine (50 dollari per Natale, 20 per Capodanno). Nel gennaio arrivarono i telegrammi di sospensione delle attività e il mese successivo l'azienda veniva dichiarata in fallimento. Gli operai si opposero alla chiusura dello stabilimento e fondarono una cooperativa, restando per oltre due mesi accampati davanti ai cancelli per impedire che l'azienda fosse smantellata e i macchinari liquidati e portati via. La strategia era concepita per evitare lo scontro che un'occupazione avrebbe inesorabilmente prodotto, con l'intervento della polizia, la repressione e alla fine lo sfratto. In questo modo invece gli operai ottennero la solidarietà di altre fabbriche, raccogliendo fondi per portare avanti la loro lotta. Nel mese di giugno ricevettero dalla magistratura l'autorizzazione a tornare in fabbrica e riprendere la produzione.
Molto lentamente e senza finanziamenti gli operai sono riusciti in questi anni a ricontattare i vecchi clienti, tra cui la Nestlé. Nel 2005 il governo di Buenos Aires ha concesso in modo definitivo l'esproprio dello stabilimento: gli operai della cooperativa si sono impegnati a rimborsare la spesa in 23 anni a partire dal 2007. I macchinari, invece, sono stati donati dal governo ai lavoratori. Tutto questo mi viene raccontato con grande entusiasmo mentre percorriamo i diversi reparti. Alcuni operai si avvicinano e aggiungono dettagli di ciò che oggi è la loro storia. Nel periodo di massimo splendore nell'azienda i lavoratori erano 280, oggi la cooperativa è formata da 44 soci. Quasi tutti i ruoli di amministrazione e direzione sono a rotazione. Si cerca di evitare che si ricrei una divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.
Borgata malfamata
Lasciata la Ghelco ci mettiamo in marcia verso un'altra fabbrica recuperata, questa volta nella zona di Dock Sud, nel quartiere della Boca. Si tratta del cantiere Navales Unidos (ex Sanym), che occupa un ampio spazio (36.000 metri quadrati) tra il Riachuelo, uno dei fiumi più inquinati del paese, e l'Isla Maciel, una malfamata borgata del sud di Buenos Aires. La Sanym gestiva questo cantiere fino quando è rimasta anch'essa vittima del modello neoliberista. Negli anni '90 l'Argentina si era aperta al mercato internazionale seguendo le direttive del Fmi e del Congresso di Washington. Aveva eliminato le tariffe doganali e annullato ogni legge che potesse intralciare la libera attività delle multinazionali. Ma un cantiere come questo non poteva reggere il confronto con le grandi aziende mondiali del settore, in una fase di globalizzazione selvaggia.
Nel luglio 2001, in piena crisi recessiva, i 120 operai ricevettero il telegramma di licenziamento e subito dopo venne dichiarato il fallimento della Sanym. Allora anche nei cantieri un gruppo di lavoratori decise di creare una cooperativa per recuperare l'azienda e tornare a produrre. Hanno affittato la struttura a condizioni agevolate e si sono messi in contatto con il Mnfrt. Insieme ai leader del movimento sono riusciti a uscire indenni da un violento confronto con la polizia che voleva sgomberare le installazioni e hanno un po' alla volta ripreso le attività. La cooperativa, che oggi è formata da 34 soci e 5 dipendenti, ha ottenuto nel agosto 2005 l'esproprio del cantiere.
Risaliamo in macchina e partiamo verso la Diogenes Taborda, una fabbrica di pezzi di ricambio per macchine agricole che un tempo era la Fortuny Hermanos. L'azienda è andata in rovina negli anni '90, lasciando gli operai per strada. I proprietari l'hanno abbandonata e dopo due anni un piccolo gruppo di lavoratori si è messo in contatto con il Movimento, ha studiato il processo avvenuto in alcune imprese recuperate e ha deciso di chiedere la custodia della fabbrica e delle macchine, in quanto si sapeva che c'erano stati furti e danneggiamenti. La magistratura ha concesso la custodia per un mese e poi ha riconosciuto la «continuità lavorativa».
Mi raccontano che non è stato facile rimettere in funzione gli impianti: oltre ai furti e alla ruggine i servizi (elettricità, acqua, telefoni) erano stati tagliati e i contratti hanno dovuto essere rifatti ex novo; ma dopo quattro mesi è stata ripresa la produzione. Nel 2004 è arrivato il decreto di esproprio, gli operai hanno ricevuto sussidi da parte del municipio e sono riusciti a riportare la produzione annuale a duecentomila lame per macchinari agricoli.
L'ultima visita è quella alla cooperativa Los Constituyentes (ex Wasserman), una fabbrica di tubi e condutture di acciaio. La Wasserman era una impresa familiare con 45 anni di attività e 250 impiegati che nel 2000 ha sospeso tutto il personale. Anche qui gli operai sono riusciti dopo un po' di tempo ad ottenere l'esproprio della fabbrica e la cessione dei macchinari. Quando si arriva allo stabilimento si percepisce subito l'alto ritmo di produzione della cooperativa. Mi raccontano che, oltre alle esportazioni, la loro produzione copre il 20 per cento del mercato nazionale. La produzione oggi è al massimo della capacità. I 95 soci che formano la cooperativa studiano la convenienza di strutturarsi su un turno di lavoro in più.
Tutte queste fabbriche sono organizzati in una struttura prevalentemente orizzontale. Le decisioni vengono prese in Assemblea e tutti percepiscono la stessa retribuzione. L'autogestione si rivela più pragmatica che ideologica. Sembrerebbe che la soluzione ai problemi concreti costituisca la via per la costruzione di un progetto sociale alternativo: questa volta la teoria potrebbe nascere dall'azione.

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