Mano durissima sul Guatemala
Il recente ritrovamento di una nuova vittima del massacro di Totonicapán, avvenuta a quasi un mese di distanza dalla repressione di stato del 4 ottobre contro gli indigeni maya che protestavano contro l’aumento indiscriminato del prezzo dell’energia elettrica ed il mancato riconoscimento delle autorità ancestrali, rappresenta un altro passo verso l’abisso in cui è sprofondato il Guatemala. La vittima, raccontano le cronache, era scomparsa durante la mobilitazione del 4 ottobre ed è stata ritrovata in fondo ad un burrone con segni di tortura.
Questo è il Guatemala, uno stato trasformato dall’alleanza tra l’oligarchia terriera, il mercato globale e le imprese transnazionali in un laboratorio delle peggiori pratiche di repressione di tutto il Centroamerica, in compagnia dell’Honduras. È di pochi giorni fa la notizia del tentato omicidio di Mario Itzep, dirigente dell’Osservatorio Indigeno. La situazione si fa sempre più tesa in un paese che sta scivolando verso una vera e propria dittatura militare. La mano dura promessa dal presidente Pérez Molina in campagna elettorale è divenuta durissima: guerra aperta alle organizzazioni popolari, agli indigeni, ai contadini e, più in generale, a tutte quelle fasce sociali poverissime che provano ad alzare la testa. Le voci degli ultimi giorni dicono che il ministro degli Interni, Mauricio Lopéz Bonilla, ha proposto di dichiarare lo stato d’assedio in tutte le zone del paese dove sono in corso conflitti ambientali e legati alla terra, decine e decine in tutto il paese. Non solo: altre fonti danno come certo l’acquisto, da parte del governo guatemalteco, di sei aerei militari e altrettanti radar speciali da utilizzare per tenere sotto controllo eventuali attività insurrezionali. L’acquisto, caldeggiato dall’esercito guatemalteco, sarà possibile grazie al credito concesso dal brasiliano Bndes (Banco Nacional de Desenvolvimento Econômico e Social), non nuovo ad operazioni di questo tipo. Come se non bastasse, sempre dall’esercito sarebbe arrivata la proposta di infiltrare agenti segreti all’interno dei movimenti indigeni e contadini: in pratica, in Guatemala si stanno creando le premesse per l’instaurazione di una vera e propria democratura che la faccia finita, una volta per tutte, con qualsivoglia forma di protesta. Da anni il Guatemala è un paese allo stremo ed i suoi abitanti sono perseguitati da una guerra a bassa intensità: il governo non fa nulla per tentare almeno di camuffare questa situazione e la strage di Totonicapán è un segale chiarissimo dell’indirizzo che intende seguire Pérez Molina. Da un lato le multinazionali del settore minerario, elettrico ed edile, dall’altra i settori popolari, sempre più in difficoltà di fronte alla crescente prevaricazione governativa, a cui si unisce quella delle imprese private di sicurezza schierate militarmente a difesa dell’oligarchia latifondista. Solo per rimanere agli ultimi giorni, alcuni dirigenti maya sono stati minacciati dall’esercito, attivisti di sinistra vicini alla Urng (Unidad Revolucionaria Nacional Guatemalteca, l’ex guerriglia trasformatasi in partito politico) accusati di terrorismo, e il settore progressista della chiesa cattolica è finito nel mirino dei militari per aver organizzato la resistenza contro la costruzione delle dighe e delle miniere a cielo aperto insieme alla popolazione. Da notare che l’Urng ha firmato gli accordi di pace del 28 dicembre 1996, mentre su Pérez Molina pesano le responsabilità del genocidio compiuto ai danni degli indigeni maya durante gli interminabili anni del conflicto armado. Infine, l’esercito occupa a suo piacimento villaggi e cittadine dove sono in corso conflitti ambientali, come accadeva ai tempi dell’operazione “terra bruciata”. Era già accaduto il 1 maggio a Santa Cruz de Barillas, quando le comunità della zona si opposero alla costruzione di una centrale idroelettrica ed i militari risposero uccidendo un manifestante ed arrestandone molti altri, le cui pene arrivano quasi a cinquanta anni di reclusione con la surreale quanto improbabile accusa di terrorismo. È successo molto spesso a San Juan Cotzal, dove sta crescendo il rifiuto alla diga di Palo Viejo imposta dall’Enel e alle altre centrali in costruzione nella regione ixil grazie alle concessioni del Ministero di Energia e Miniere. E ancora, non accenna a cessare l’opposizione alla diga di Xalalá, il progetto idroelettrico che già i precedenti presidenti Berger e Colom avevano tentato di portare a termine senza successo. Adesso è la volta di Pérez Molina, in nome di uno sviluppo che deruberebbe gli esclusi di sempre delle loro terre e dei loro fiumi. Il presidente intende riprendere i lavori per l’edificazione della diga ad ogni costo: nel caso in cui si alzi una voce di protesta è già pronto l’apparato militare per spazzare via le voci dissenzienti.
La violenza che ha caratterizzato il Guatemala fin dalla metà degli anni ’50, quando gli Stati Uniti rovesciarono il presidente Jacobo Arbenz prima che mettesse in atto una timida riforma agraria, ha ripreso il vigore degli anni’80, quelli del regime incarnato dai feroci Lucas García e Rios Montt: non è un caso che proprio la figlia dell’ex dittatore, Zury Rios presieda un’organizzazione che raduna familiari di ex militari, ma che in realtà ha scopi apertamente eversivi e agisce come forza paramilitare. In Guatemala una corda già molto tesa rischia di rompersi: a rimetterci, ancora una volta, sarà quella società civile che rischia di essere soffocata dall’uomo forte di turno , in questo caso Pérez Molina ed il suo governo.
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