Latina

Il 1 gennaio Jair Bolsonaro si insedia al Planalto

Il Brasile che verrà

L’odio del presidente contro indigeni e contadini e il suo disprezzo per i diritti civili, sociali e politici fanno temere il peggio per il paese
30 dicembre 2018
David Lifodi

Manifesto contro Jair Bolsonaro

Il 64% dei brasiliani ritiene che la presidenza di Jair Bolsonaro (si insedierà il prossimo 1 gennaio), sarà“ottima” o “buona”. La percentuale di coloro che vedono con favore “Bolsonazi” (così lo chiamano i suoi oppositori) al Planalto è assai superiore a quel 55% che lo ha eletto a fine ottobre nel ballottaggio con il petista Fernando Haddad. In pratica, riflette l’analista politico Eric Nepomuceno sul quotidiano argentino Página 12, Bolsonaro è ben visto anche tra coloro che hanno scelto di non recarsi alle urne per scegliere il presidente del più grande paese dell’America latina.

Il Brasile progressista ancora non si capacita di come sia potuto succedere tutto ciò, ignorando, però, un dato di fatto evidente, il forte scontento popolare dovuto ai quasi 12 milioni di disoccupati e ai 7-8 milioni di persone che cercano di tirare avanti con lavori precari o comunque temporanei. L’idillio tra i brasiliani e il progressismo si è rotto, secondo molti, nel 2013. Nel giugno di quell’anno, di fronte all’imminente competizione calcistica della Confederations Cup, che avrebbe anticipato i mondiali e i giochi olimpici negli anni successiv, le manifestazioni di protesta coinvolsero gran parte della popolazione. Dilma Rousseff e il Partido dos trabalhadores pensarono subito ad un tentativo di colpo di stato e, in effetti, la destra cercò di cavalcare quella protesta che, peraltro, era partita da gruppi extraparlamentari di sinistra e da piccoli gruppi di tendenza anarchica, a partire dal Movimento Passe Livre. Il Pt cercò di ignorare le mobilitazioni, finendo per essere percepito come una elite contro la quale, spesso giocando sporco e attraverso evidenti strumentalizzazioni, si è scagliato Bolsonaro, approfittando del disincanto e dello scontento di gran parte della popolazione brasiliana. È in questo contesto che Bolsonaro ha avuto buon gioco nel presentarsi come candidato antisistema.

Tuttavia, è stato nel 2016, con il colpo di stato che ha destituito Dilma Rousseff, democraticamente eletta, che il paese ha iniziato a vivere in uno stato d’eccezione permanente, dove lo stato di diritto è stato rapidamente soppiantato da una magistratura aggressiva responsabile di una vera e propria persecuzione politica nei confronti della stessa presidenta e di Lula. Lo scopo della destra radicale era quello di blindare lo Stato, imporre al Congresso l’elezione di uomini di fiducia dei mercati, del latifondo e di una parte del potere giudiziario scommettendo, con successo, su una campagna giocata su una serie di fake news che hanno finito per falsare completamente la campagna elettorale. La memoria e la coscienza politica del popolo brasiliano è stata sommersa da questo attacco combinato dell’ultradestra ed ha finito per spiazzare partiti e movimenti di sinistra, che non sono riusciti a cambiare la narrazione della storia imposta da Bolsonaro e dai suoi uomini. La capacità dell’estrema destra di strumentalizzare, ribaltare il discorso e portare il dibattito politico su argomenti a lei affini è stata tale che l’ex presidente tucano Fernando Henrique Cardoso, appartenente al Partito della socialdemocrazia (Psdb, corrispondente alla destra moderata che al primo turno delle presidenziali aveva appoggiato Geraldo Alckmin) è stato bollato come “comunista”, malgrado abbia trascorso tutti i suoi anni al Planalto a combattere contro i Sem terra, i sindacati e le organizzazioni popolari.   

Le priorità della presidenza Bolsonaro mettono i brividi, soprattutto il programma del futuro ministro dell’Economia  Paulo Guedes, il Chicago Boy che ha già promesso ai signori dell’agrobusiness e alla bancada ruralista che potranno fare ciò che vogliono. João Pedro Stedile (storico leader dei Sem terra e della Via campesina) e João Marcio (docente all’Università federale rurale di Rio de Janeiro), hanno analizzato nel dettaglio il piano economico e sociale del governo Bolsonaro. In particolare, “Bolsonazi” mira a ridurre i diritti del lavoro, favorendo la precarietà lavorativa, a privatizzare le risorse naturali del paese (petrolio, minerali, terra, acqua e biodiversità) per venderle alle multinazionali e a mettere in discussione tutte le demarcazioni delle terre indigene.

Inoltre, sembra certa anche la privatizzazione di tutte le imprese statali e dell’istruzione pubblica, i cui principi fondamentali saranno smontati pezzo dopo pezzo. Già si parla di università private e dell’allontanamento di docenti ritenuti “di sinistra”, oltre alla riduzione dei fondi per le borse di studio e all’imposizione di rettori vicini al governo negli atenei a scapito di elezioni libere e democratiche. E non è finita qui. L’ambiente figura all’ultimo posto in ordine di importanza per Bolsonaro, a dispetto della crescita dei fondi destinati al commercio delle armi (e alla loro vendita libera). Non è un caso che il Brasile sia già uscito dalla Cop 25 lamentando inesistenti problemi di bilancio. Per il presidente le risorse a disposizione vanno spese in ambito bellico.  

Il 2019 in Brasile si preannuncia nefasto e foriero di pessime previsioni. Tutte le cosiddette minoranze, dai neri alle donne, passando per le organizzazioni popolari e i movimenti urbani, dalla comunità lgbt ai campesinos, fino a partiti e organizzazioni politiche di sinistra e ambientaliste saranno oggetto di vere e proprie persecuzioni politiche simili al fascismo per compiacere la borghesia industriale, l’oligarchia terriera, una parte dei militari e delle chiese evangeliche.

Dal 1 gennaio Bolsonaro, in qualità di militare (ci tiene sempre a ribadire la sua provenienza dall’esercito e a sottolineare che non è un politico) si appresta a rivoluzionare il paese e il fatto che il Brasile, a differenza, ad esempio, dell’Argentina, non abbia mai fatto i conti con il passato (la Commissione per la verità e la giustizia ha riconosciuto lo Stato colpevole dei crimini commessi dalla dittatura, ma nessuno dei responsabili è stato mai giudicato o condannato) rende ancora più preoccupante il futuro del gigante dell’America latina.

Note: Articolo realizzato da David Lifodi per www.peacelink.it.
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