Latina

Sottomesso ancora oggi alle politiche coloniali, il paese è divenuto uno stato fallito

Haiti: un paese a sovranità limitata

Tra i responsabili, la criminalità organizzata, gli Usa e tutte quelle dittature e interventi stranieri che si susseguono in questo poverissimo paese provocando un'emergenza politica e umanitaria.
6 maggio 2024
David Lifodi

Haiti: un paese a sovranità limitata

La storia di Haiti, da sempre, è quella di un paese impoverito, adesso alle prese con un vuoto di potere istituzionale, oltre ad essere periodicamente flagellato da catastrofi naturali e devastato dalla violenza della criminalità organizzata come è emerso, una volta di più, nel marzo scorso, quando 3.600 carcerati sono riusciti a darsi alla fuga.

Gli attacchi armati della criminalità organizzata, che ha paramilitarizzato il piccolo paese caraibico, e la rinuncia del primo ministro, Ariel Henry, hanno fatto il resto. “Il popolo haitiano riporta una storia di formidabili resistenze e tragedie indotte”, ha scritto Gerardo Szalkowicz nell’articolo Haiti: Il fallimento neocoloniale e “l’eterno castigo della sua dignità” , ricordando che in questo paese nacque la prima rivoluzione nera, nel 1805 con Toussaint Louverture, ma anche la dipendenza dalla Francia e lo sbarco dei marines Usa, che rimasero ad Haiti dal 1915 al 1935. Da allora è stato un susseguirsi di dittature e interventi stranieri, culminata con le presidenze di Michel Martelly e Jovenel Moïse, l’imprenditore bananiero a sua volta assassinato nel luglio 2021.

Ai giorni nostri, mentre Henry si trovava in Kenya per negoziare l’arrivo dell’ennesima missione militare (tutte quelle precedenti, anche a guida latinoamericana, a partire dalla Minustah, sotto l’egida Onu, nel corso degli anni si sono rivelate fallimentari, anche per i continui soprusi sulla popolazione esercitati dagli stessi contingenti militari, ad esempio quello brasiliano era guidato dal generale golpista e filobolsonarista Augusto Heleno), la violenza è esplosa di nuovo in maniera incontrollabile ed è culminata con la liberazione di 3.600 uomini in prigione appartenenti ai gruppi armati.

In soli cinque anni, riferisce Henry Boisrolin, coordinatore del Comitato Democratico Haitiano, “Haiti è passato dall’avere una criminalità relativamente bassa a contare su federazioni di bande con un enorme finanziamento e armate fino ai denti”, sul modello del controllo territoriale già sperimentato dalle bande paramilitari in paesi come Messico, Ecuador e Colombia. Lo scopo, spiega ancora Boisrolin, è gettare le basi per un caos pianificato, “disarticolare la protesta sociale e il tessuto comunitario. Il popolo sta subendo l’azione di questi squadroni della morte, che sono strumenti dell’élite haitiana e della comunità internazionale, principalmente degli Usa, per piegare il movimento popolare, seminare il terrore ed evitare un’altra sollevazione”.

Haiti si trova ad essere uno stato fallito, infiltrato da ex agenti della Cia come Guy Philippe e manovrato dagli Stati Uniti, che seguono con attenzione quanto sta accadendo, non vogliono intervenire in prima persona, ma al tempo stesso insistono nel mantenere una sorta di controllo sul paese per utilizzarlo come base e non perdere di vista Cuba e Venezuela.

Sembra essere, ancora una volta, la criminalità a rappresentare il cavallo di Troia per l’intervento Usa, come sottolinea Camille Chalmers già docente all’Universita statale di Haiti dal 1980, leader del partito di ispirazione socialista Rasin Kan Pèp la e della Plataforma Haitiana por la Demanda de Desarrollo Alternativo de Haití.

Nell’intervista rilasciata a Brasil de Fato /Resumen LatinoamericanoLa crisis es de “criminalidad política” para facilitar la intervención de Estados, Chalmers sostiene che a guadagnare dalla situazione attuale in cui si trova il paese sono “le imprese statunitensi specializzate nella produzione di armi poiché si arricchiscono con il sangue della popolazione haitiana”.

Anche Chalmers, come Boisrolin, denuncia la presenza ad Haiti di Guy Philippe, esponente di primo piano nel colpo di stato che fece cadere il governo progressista di Jean-Bertrand Aristide nel 2004, ma ancora sostenuto dagli Stati Uniti, nonostante sia stato detenuto proprio negli Usa, per traffico di droga, prima di essere estradato proprio ad Haiti nel novembre 2023, un mese dopo la decisione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di inviare truppe nel paese.

In questo contesto, hanno destato scalpore le dichiarazioni della ex ambasciatrice statunitense ad Haiti, Pamela White, la quale ha affermato che Guy Philippe, dovrebbe essere consultato per risolvere la situazione nel paese, nonostante sia, adesso, esponente di spicco delle pandillas, la cui crescita procede di pari passo con quella, nell’ultimo decennio, del Partido de las Cabezas Afeitadas (PHTK, estrema destra, il partito dell’ex presidente Henry).

La violenza pandillera, che dallo scorso febbraio sta distruggendo scuole, università e ospedali, rappresenta un caso di criminalità politica poiché è direttamente funzionale ad accrescere le probabilità di un intervento statunitense. Inoltre, sulla cosiddetta gangsterización di Haiti, pesa anche l’imposizione, a capo dello stato, del Core Group, una sorta di consiglio coloniale capeggiato da Usa, Francia, Spagna, Germania, Canada e Brasile a seguito dell’omicidio del presidente Jovenel Moïse.

Oggi Haiti vive un’emergenza umanitaria infinita, travolta da centinaia di gruppi criminali che si disputano il paese e la popolazione che si trova ad essere vittima dei paramilitari, ma anche di uno stato in dissoluzione che non è in grado di offrire protezione ai cittadini. Indipendentemente dal governo di transizione che verrà, Haiti resta un paese a sovranità limitata e vittima permanente del colonialismo.

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