Palestina

Io non compro "Made in Israel"

Si diffonde anche in Italia il boicottaggio dell'economia di guerra israeliana
19 marzo 2003
Claudio Grassi
Fonte: Liberazione, 19 marzo 2003

Rachel Corrie aveva solo 23 anni e tanta voglia di vivere, di lottare per difendere il diritto alla vita dove viene negato. Era un'attivista dell'International Solidarity Movement e rappresentava l'altra faccia degli Stati Uniti, quella del "not in my name", del ripudio della guerra di Bush. Ha trovato la morte tra le strade polverose di Rafah, nella Striscia di Gaza, sotto un bulldozer dell'esercito israeliano: stava difendendo con il proprio corpo le case dei palestinesi. Il suo paese si è limitato a chiedere: "spiegazioni per il fatto increscioso", ben attento però a pesare le parole nei confronti del governo di Tel Aviv. Rachel era una pacifista, non un marines, e Sharon è pur sempre il migliore alleato degli Usa nella regione, schierato in prima linea nella nuova crociata contro il mondo arabo.

Anche nel nostro paese parlare senza fronzoli di Israele, delle sue ininterrotte violazioni dei diritti del popolo palestinese, è ancora un tabù. Rischi d'incappare in una campagna mirata che ti paragona ai peggiori antisemiti della storia, come è avvenuto ad Alberto Asor Rosa, di leggere il tuo nome sul solito "scoop" di Libero sui "legami tra la sinistra nostrana e i kamikaze integralisti", di trovare qualche rabbino estremista che invoca l'applicazione della legge Mancino, pensata apposta per i neonazisti. Figuriamoci se l'oggetto della discussione sono azioni pratiche e praticabili, volte a colpire alle fondamenta l'economia di guerra su cui si basa lo stato israeliano, a esercitare una pressione dal basso affinché abbia termine l'occupazione illegale di Gaza, della West Bank e di Gerusalemme Est e sia riconosciuto il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi; una pressione sull'esempio di quella che ha contribuito a sgretolare il Sudafrica dell'apartheid.

LE ACCUSE INFONDATE

Perfino a sinistra, tra le forze amalgamatesi attorno al rifiuto della guerra senza se e senza ma, capaci di critiche anche molto nette alla politica del governo americano o al regime turco (autore del genocidio di milioni di kurdi), spesso si è costretti a ripiegare su posizioni difensive quando si denunciano i crimini commessi in Palestina. Proprio per non incorrere nella scure dell'"antisemitismo". Può quindi capitare che, assieme a dirigenti Forza Italia e post-fascisti di An (dal passato tutt'altro che immacolato su argomenti di questo tipo), amministratori locali di centrosinistra si scaglino contro un tranquillo circolo Arci di Pisa, giudicando "assolutamente sbagliato e incondivisibile" il boicottaggio dei prodotti made in Israel. O che intellettuali di origine progressista, strumentalizzando questa campagna, alludano al ritorno di un clima da "notte dei cristalli".
La risposta più eloquente è venuta dalla Rete degli "Ebrei contro l'occupazione", secondo la quale la paura dell'"antisemitismo" è "un'arma formidabile nelle mani di Sharon, del governo israeliano e di tutti coloro che lo appoggiano", il cui uso politico è grave "non solo perché distrae da ciò che è stato l'antisemitismo storico ed offende la memoria delle sue conseguenze, fino al massacro degli ebrei europei, ma anche perché genera nuovo antisemitismo".
I critici del boicottaggio, evidentemente, non sanno - o fingono di non sapere - che l'appello ai "consumatori" a non comprare merci israeliane (riconoscibili dal codice a barre che inizia col numero 729) e di aziende direttamente coinvolte in questa economia di guerra, è stato lanciato più di due anni fa, in concomitanza con l'inizio della nuova Intifada, proprio da gruppi e personalità ebraiche degli Stati Uniti e dei territori occupati. Non sanno - o fingono di non sapere - che a livello mondiale ed europeo la campagna è sostenuta dai soggetti più svariati. In Inghilterra lo stesso governo di Tony Blair, pressato da alcune associazioni di consumatori, è stato costretto a far ritirare dagli scaffali dei supermercati una serie di prodotti provenienti dalle zone sotto occupazione israeliana, soprattutto dalle alture del Golan, e illegalmente marchiati "made in Israel". In Francia il boicottaggio è attuato dalla quasi totalità dei partiti di sinistra, dal Partito comunista alla Lcr passando per i Verdi, ma anche dalle Donne in Nero, Attac e la Confederazione contadina di Bovè. Il parlamento europeo sta discutendo se mantenere o meno le relazioni commerciali con lo stato israeliano e, in ogni caso, il 10 aprile dello scorso anno ha votato la sospensione dell'associazione di Israele all'Ue.

I PRODOTTI DA NON ACQUISTARE

E in Italia? Nonostante la strumentalizzazione o, più spesso, la ferrea censura dei media, nel nostro Paese hanno già avuto luogo centinaia di iniziative. Promossi principalmente dal Forum Palestina (www.forumpalestina.org) e altri comitati di supporto alla causa palestinese, volantinaggi hanno informato i clienti abituali dei supermercati Auchan, La Rinascente, Upim e Carrefour, e azioni dimostrative sono state indette contro le sedi di Caterpillar, Mac Donald's e Hazera Genetics, tre delle aziende inserite nella lunga lista.
Sono prodotti dalla Caterpillar, i bulldozer dell'esercito israeliano utilizzati per demolire le case palestinesi e sradicare gli alberi d'ulivo. Il presidente della più nota catena di fast-food, Greenberg, è direttore onorario di una Camera di Commercio e Industria America-Israele e, secondo il Chicago Online, Mac Donald's è uno dei maggiori partner economici di un'organizzazione ultra-conservatrice ebraica. La Hazera Genetics è, invece, un'azienda israeliana specializzata nell'import di sementi geneticamente modificate e che, con i suoi pomodorini "Pachino" di dubbia genuinità, sta mettendo in crisi le coltivazioni tradizionali della Sicilia.
Che il boicottaggio sia uno strumento utile, dai risultati tangibili, lo dimostra la recente sospensione dell'accordo stipulato tra l'azienda italiana Acea (di cui il Comune di Roma è il principale azionista) e le autorità israeliane in materia di sfruttamento delle acque. Le petizioni firmate in calce da decine di esponenti politici, giornalisti, docenti, semplici cittadini e le interrogazioni presentate al sindaco Veltroni hanno fatto sentire il fiato sul collo, contribuendo a fare chiarezza su un atto che sarebbe suonato alla stregua di una provocazione. Infatti, fa notare il Forum Palestina, la sottrazione dell'acqua ai palestinesi e agli altri paesi della regione (il Libano, per esempio) è un elemento fondamentale del colonialismo israeliano; Israele, a differenza dei paesi vicini, non ha mai sottoscritto i trattati internazionali sulle acque e non si contano le risoluzioni dell'Onu che hanno condannato le sue rapine delle risorse naturali, prima fra tutte proprio l'acqua.
Al rifiuto di acquistare prodotti di società dai nomi esotici, come Jaffa, Carmel, Delta Galil, di multinazionali tipo Nestlé, Coca Cola, Nokia e L'Oréal, o di stipulare accordi commerciali con le autorità d'Israele, ora si aggiunge anche la richiesta di una moratoria delle relazioni scientifiche e culturali con lo stato sionista. Centinaia di docenti e ricercatori di ogni parte del globo, tra cui diversi italiani, hanno sottoscritto due appelli distinti del "Coordinamento degli scienziati per una pace giusta in Medio Oriente", nei quali si chiede la cessazione di ogni forma di collaborazione istituzionale e di sostegno materiale agli organismi israeliani, fino a quando il governo di Sharon non deciderà di avviare seri negoziati di pace con i palestinesi. Con l'impegno dei firmatari di non assistere ad alcuna conferenza scientifica in Israele e non rispondere alle richieste di perizie provenienti dalle istituzioni di quel paese, fermo restando che nessuno mette in discussione le relazioni personali con singoli colleghi israeliani.

UNO STRUMENTO EFFICACE

"L'abolizione del diritto all'educazione e all'insegnamento, la chiusura delle Università, la persecuzione degli studenti", sono le parole di Etienne Balibar, docente emerito all'Università di Paris X Nanterre, "sono intollerabili, soprattutto nelle condizioni di una occupazione militare.
Non possiamo accettare che da un lato della linea di demarcazione regnino le libertà accademiche e dall'altro la costrizione e la schiavitù". Per lui e gli altri accademici non è stata una scelta facile. La calunnia di "antisemitismo" è sempre dietro l'angolo, e non mancano anche tra le presunte "colombe" coloro che considerano il boicottaggio una proposta "senza precedenti", salvo poi non battere ciglio dinnanzi all'embargo criminale che colpisce l'intero popolo irakeno o ad atti di pirateria internazionale come la legge Helms-Burton. A chi ha cercato di trovare le differenze tra l'attuale situazione nei territori occupati e quella del Sudafrica del razzismo boero, prima della vittoria di Mandela, Balibar risponde che "io non credo che l'occupazione della Palestina sia meno orribile dell'apartheid", e ai colleghi israeliani che hanno mostrato "sconcerto" e "indignazione" propone di impegnarsi concretamente per sostenere le Università palestinesi, "poiché ogni dialogo, anche quello accademico, ha come condizione il ristabilimento di un minimo di uguaglianza fra le parti".
Il boicottaggio è un'arma pacifica, alla portata di tutti, non rivolta contro le popolazioni civili (a differenza dell'embargo) ma contro l'establishment politico, militare ed economico che tiene sotto il tallone di ferro milioni di persone. Un mezzo attraverso il quale far sentire la nostra vicinanza alla Resistenza palestinese e alla sua legittima lotta di liberazione nazionale, ma anche alle forze democratiche, ai refusenik, a quella parte di Israele che dice "signornò" alla violenza del regime di Ariel Sharon. Un modo di acquistare intelligente, in antitesi al modello produci-consuma-crepa.

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