Palestina

Un’intervista a Toufic Haddad

Una cartina per dove?

Eric Rudder
Fonte: Socialist Worker - 22 maggio 2003

Il segretario di stato Colin Powell la scorsa settimana ha viaggiato in Medio Oriente ed in Europa per promuovere la “road map” (cartina stradale), recentemente messa in circolazione, per la pace in Medio Oriente. Ma tutti i salti mortali del dipartimento di Stato non possono nascondere il fatto che il primo ministro israeliano Ariel Sharon ne rifiuta la struttura essenziale e non vuole neanche pronunciare in pubblico le parole “road map”.

Appena due settimane dopo che gli USA, le Nazioni Unite (ONU), l’Unione Europea (UE) e la Russia hanno messo in circolazione, con grandi squilli di fanfara, il loro piano, esso è in pratica lettera morta, come molti altri piani messi in circolazione, dopo che nel 1993 sono stati firmati gli accordi di Oslo.

Toufic Haddad vive a Ramallah ed è coeditore di “Fra le linee”, un giornale cui collaborano sia Palestinesi che Israeliani che si oppongono all’occupazione. Ha parlato con Eric Rudder del Socialist Worker sulla “road map” e il più ampio contesto in cui ha luogo la resistenza palestinese all’occupazione israeliana.

La “road map” propone una strategia per la pace percorribile?

Io penso che si possa sicuramente dire che la “road map” non solo non è una strategia per la pace percorribile, ma che è di fatto un non inizio, un documento nato morto nella sua vaghezza e nei suoi difetti strutturali, che ripropone tutti i problemi delle proposte precedenti. In qualche caso, è davvero ben peggiore. Come tale, a mio parere è destinato a fare la stessa fine di Oslo.

Prima di tutto, è importante mettere in evidenza che, per far sì che i suoi fautori fossero tutti d’accordo a sostenere la “road map”, si è dovuto lasciare indefinite molte cose, su cui non dice molto. Ogni parte interessata –e in relazione ai Palestinesi intendo l’Autorità Palestinese (AP), non il popolo- può guardare cercare nella “road map” e vedervi ciò che vuole vedervi. Ogni parte vi vede la possibilità di conseguire i propri scopi, malgrado il fatto che queste visioni siano irrevocabilmente contrapposte.

Nello stesso tempo, la “road map” esplicita chiaramente alcune cose. In particolare, essa aderisce perfettamente alla valutazione israeliano-americana delle cause del conflitto in corso: la pace può “essere conseguita solamente”, quando ci sarà “la fine della violenza e del terrorismo (palestinesi)” e quando “il popolo palestinese avrà una leadership, che agisca con decisione contro il terrorismo e che voglia costruire realmente una democrazia fondata sulla tolleranza e sulla libertà”.

Non sorprende che il primo obiettivo della “road map” sia l’intifada. Questa rivolta popolare –con azioni armate e disarmate di sfida all’illegale occupazione di Israele- è stata la sola alternativa delle masse. Bisogna rendersi conto che i dirigenti dell’Autorità Palestinese erano pronti ad accordarsi al tavolo dei negoziati per una totale capitolazione dei diritti nazionali.

L’Intifada è stata in grado di smascherare il “processo di pace” per quello che era: un modo per mettere in piedi un maggior numero di insediamenti di coloni, porre in essere “condizioni di fatto” e indurre l’AP a reprimere la resistenza a questi piani. Facendo così, l’Intifada è servita anche a delegittimare i dirigenti dell’AP, che aveva sottoscritto questi accordi di “pace”, e a riaffermare il potere delle masse, i cui diritti nazionali e individuali stavano per venire traditi. L’Intifada ha forzato la mano ad Israele, dimostrando che se Israele vuole rafforzare la sua occupazione coloniale e distruggere l’aspirazione dei Palestinesi all’autodeterminazione, questo deve essere fatto in nome dell’occupazione e non in nome della pace.

Quest’ultimo punto è molto importante, perché la “road map” vuole ricreare e far rinascere nuovamente il “processo”, anche se non porta alla “pace”. Questa è stata la strategia americana nel “processo di pace” fin dal suo inizio nei primi anni ’70, per cui il processo è più importante della pace. Processo significa tempo e tempo significa insediamenti di coloni e nuove condizioni di fatto, che riducono le possibilità per i Palestinesi e indeboliscono la rivendicazione dell’attuazione dei diritti nazionali dei Palestinesi.

Certo, ci sono poche piccole carote –ridotte all’osso- gettate ai Palestinesi: una fine dell’allargamento degli insediamenti dei coloni, la rimozione dell’insediamento delle basi costruite dopo l’inizio dell’Intifada, uno “stato provvisorio”. Ma tutto questo – a parte il fatto che era incredibilmente vago e persino assurdo- accadrà solo dopo che sarà riesumata la vecchia polizia autonoma colonialista; il che significa in realtà che i Palestinesi devono legarsi da soli le mani ed aiutare l’iniziativa di Israele ancor prima che il negoziato sui problemi reali sia cominciato.

Per quanto concerne Israele, il migliore scenario è quello di una leadership palestinese che firmi un accordo che spazzi via la risoluzione internazionale per la fine dell’occupazione e conceda il diritto a ritornare ai rifugiati palestinesi: confermando così la strategia sionista di creare “condizioni di fatto” e della “forza che si fa diritto”. Nello scenario peggiore, la “road map” è sufficientemente vaga per essere rinviata indefinitamente, permettendo l’allargamento degli stanziamenti di coloni, il raggruppamento di un numero maggiore di Palestinesi in un territorio più ristretto e il consolidamento di un modello di controllo.

In definitiva tutto ciò rende i negoziati irrilevanti. Considera, per esempio, come la “road map” propone di risolvere la questione dei rifugiati palestinesi, forse la più importante questione nazionale palestinese. Secondo la “road map” ci deve essere “un accordo giusto ed equo e una soluzione realistica al problema dei rifugiati”.

Cosa diavolo si suppone che significhi? Cos’è? Perché è chiaro che ciascuno di questi aggettivi qualificativi abbia ramificazioni di significati completamente differenti. Una soluzione “giusta” implicherebbe l’attuazione della risoluzione 194 dell’ONU. Una soluzione “equa” è qualcosa di simile a un indietreggiamento rispetto a una soluzione “giusta”. Comunque non è esattamente chiaro cosa vorrebbe dire e a chi toccherebbe interpretare il termine “equa”.

Infine, non è chiaro cos’è una soluzione “realistica” o a chi tocca decidere cos’è “realistico”. La realtà, dopo tutto, può essere cambiata dalla volontà politica: di fatto questo è, in primo luogo, impegnata a fare Israele. È giusto dire che una “soluzione realistica” torna utile a quelli, che sono in grado di cambiare la “realtà”; Così questa finisce con l’essere una concessione alla potenza militarmente dominante di Israele e alla sola superpotenza mondiale che lo sostiene, gli USA.

Perciò, la road map è un tentativo di ritornare al vecchio modello. È un tentativo, se vuoi, maldestro di “ritornare nuovamente insieme”, dopo che Israele ha usato tutto il suo arsenale per liquidare l’Intifada. È progettato per punire i Palestinesi per avere l’ardire di spezzare il cliché del conflitto: un processo senza fine, la cui temporaneità è diventata una forma di permanenza, una routine in cui la parte debole, con rapporti di forza ad essa sfavorevoli, gira a vuoto, rivendicando una vera attuazione di ciò che non potrà mai essere.

Tragicamente questa sciarada continua a trovare sostenitori dalla parte dei Palestinesi, sebbene l’Intifada abbia molto indebolito questa componente della società palestinese.

La “road map” non è che vino vecchio in bottiglie nuove. Quello che gli imperialisti, in Israele e negli USA, non hanno capito, o non vogliono vedere, o contro cui cercano di indirizzare la “road map”(leggi : ciò che cercano di liquidare) è il fatto che, con l’esplosione dell’Intifada due anni fa, le masse palestinesi boicottano questo vino. Hanno messo l’occhio su un nuovo modello, che al momento può sembrare un po’ confuso, ma che ciò nonostante emergerà dai sacrifici degli ultimi due anni e mezzo.

Chi è Abu Mazen e cosa dice il suo nuovo ruolo di primo ministro su quanto sta accadendo nell’AP?

Abu Mazen è uno dei pochi sopravissuti della prima generazione dei fondatori di al-Fatah, quantunque certamente non ha molta influenza o un seguito rilevante dentro al-Fatah, diversamente da ex leader come Abu Jahad, Abu Iyad e abu Hol. Infatti è diventato noto fra i Palestinesi solo dopo l’accordo di Oslo.

Come firmatario di Oslo, Abu Mazen ha ricevuto un certo numero di “incentivi” economici e si è impegnato in iniziative equivoche per arricchirsi. È stato associato alla fondazione di grandi imprese private, intestate ai suoi figli, per speculare sul monopolio dei bisogni fondamentali. Ha un lussuoso palazzo in riva al mare a Gaza, che più di una volta è stato fatto oggetto di lanci di pietre da dimostranti.

La lista è lunga. Abu Mazen e i tipi come lui sono proprio i personaggi che l’Intifada ha delegittimato.

È particolarmente famigerato per la sua partecipazione a quello che è noto come accordo Beilin-Abu Mazen del1996. Questo era sostanzialmente una definizione dello status dei territori sottoscritta insieme a Yossi Beilin, un laburista del parlamento israeliano. Quando i termini vennero a conoscenza dei media, confermò i timori dei Palestinesi sul fatto che i negoziati stavano portando alla totale svendita dei diritti dei Palestinesi, ivi compresi la negazione del diritto a ritornare e il non ritorno ai confini del 1967 precedenti all’occupazione israeliana della West Bank e di Gaza. Nel piano vi erano dettagli che svelavano le acrobazie manipolatrici per includere entro i confini di Gerusalemme il villaggio di Abu Dis, che sarebbe stato ribattezzato Al Quds (Gerusalemme in arabo), e che sarebbe servito come capitale del nuovo stato palestinese.

La nomina di Abu Mazen a primo ministro è l’espressione dell’ingerenza degli USA e degli europei: e del loro obiettivo di usare la “road map” per creare le condizioni per la definitiva successione ad Arafat. Abu Mazen rappresenta l’ala di opposizione dell’elite presente dentro al Fatah e l’AP, che non tollera la strategia di lungo periodo di Arafat, che persegue contemporaneamente linee contraddittorie: una strategia che serve l’interesse di Arafat di mantenere il potere.

Abu Mazen è apertamente contro l’Intifada e la condanna pubblicamente, definendola “caos armato”. Preferisce, invece, ingraziarsi gli USA, vedendo negli USA i salvatori della causa palestinese.

Crede che la visione complessiva dei Palestinesi debba essere cambiata. Invece di combattere per conquistare i propri diritti, crede che sia necessario integrarsi nel quadro dell’economia globale e che lui e i suoi portaborse saranno, quindi, utili come principali collaboratori di Israele e del processo di globalizzazione.

È un’ironia della storia che Abu Mazen sia salito al potere sotto la sembianza di “una riforma democratica”. Persino le stime filoamericane non gli assegnano fra i Palestinesi una quota di popolarità superiore al 3%. È proprio il tipo di personaggio che i Palestinesi –che hanno a lungo perseguito la strada di una vera riforma- avrebbero “riformato” già da molto tempo: lo hanno, cioè, messo da parte.

Ma il fatto è che Abu Mazen ha sviluppato stretti legami con gli Americani, gli Europei ed elementi dell’establishment israeliano a partire dagli anni di Oslo. È stato perciò sostenuto e preparato come il “solo candidato accettabile a primo ministro” –secondo la retorica democratica dell’UE- nel caso un altro round del teatrino del processo di pace dovesse avere le benedizioni dell’imperialismo.

La vittoria degli USA in Iraq come ha cambiato l’atteggiamento di Ariel Sharon e del Likud nei confronti dell’Intifada? Cosa ti aspetti nei prossimi mesi dal governo israeliano?

Sebbene non sia un esperto di politica israeliana, è chiaro che la campagna Usa in Iraq rappresenta una vittoria della logica “la forza si fa diritto”, che è stata la logica del sionismo fin dal suo inizio.

Senza dubbio, la vittoria in Iraq conforterà l’establishment israeliano nell’approfondimento e nel rafforzamento delle sue politiche razziste e coloniali. Lo vediamo quotidianamente. Israele ha continuato con arroganza la sua politica di assassinio e di arresto degli attivisti, di demolizione delle case, di conduzione di massicce incursioni dentro Gaza, di fondazione di nuovi insediamenti di coloni e persino di realizzazione di piani per la costruzione di un muro lungo il confine orientale: tutto dopo l’uscita della “road map”.

La campagna in Iraq forse non ha permesso a Sharon e soci di portare a compimento il trasferimento definitivo dei Palestinesi fuori della Palestina, forse a causa della crescente presa di coscienza dovuta alle campagne pro Palestinesi, forse a causa degli ordini americani ad Israele, forse per entrambi i motivi. Ma è chiaro che ha permesso un ulteriore consolidamento della seconda opzione israeliana: il rafforzamento del suo regime di apartheid su tutta la Palestina. Possiamo, quindi, aspettarci che questo approccio andrà avanti più velocemente prima che il teatrino della “road map” giunga al termine.

La veloce vittoria degli USA in Iraq –soprattutto dopo che il Pentagono era stato tenuto indietro da un’inaspettata resistenza- deve essere stato un colpo al morale degli oppositori dell’imperialismo in Medio Oriente. Ha condotto la gente ad abbassare gli obiettivi relativamente al genere di cambiamento politico per cui organizzarsi?

Questa è una domanda interessante ed importante. Io non credo che il risultato della guerra porterà all’abbassamento degli obiettivi; porterà piuttosto a “un chiarimento di prospettiva”.

Questa ha molte dimensioni. Prima di tutto, il ruolo attivo giocato –apertamente e segretamente- dai governi arabi ha immesso nel panorama il vero dilemma che sta di fronte alle forze antimperialiste, specialmente nei paesi filo occidentali della Giordania, dell’Egitto e degli stati del Golfo.

Alcuni commentatori hanno correttamente notato che nel mondo arabo non ci sono state grandi dimostrazioni contro la guerra, come in Europa e negli USA. Ma ne hanno interpretato in maniera sbagliata il motivo.

Le dimostrazioni in Europa, in quanto erano in opposizione alle politiche dei loro governi e all’imperialismo USA, in un modo o nell’altro sono state un’affermazione dei sistemi politici stessi, nonostante le pecche di questi sistemi. Ma nel mondo arabo, prima di tutto, non esiste questa legittimazione dei sistemi politici. Infatti, vi sono paesi interi con nessuna base storica, che sono essi stessi la creazione dell’imperialismo.

Le forze antimperialiste stanno prendendo coscienza del fatto che il mondo arabo ha bisogno di molto di più che i loro governi dicano di essere contrari alla guerra. è necessario che ci sia una trasformazione più radicale: una trasformazione per la quale non sono pronte e non sanno necessariamente come portarla aventi, data la complessità dei sistemi di controllo che li opprimono.

Non è chiaro se questo sia stato pienamente compreso, ma immagino che ci sarà un’internazionalizzazione delle lezioni che il campo antimperialista arabo ha messo insieme.

La prima e più importante di queste lezioni è la conclusione che ci si deve sbarazzare del modello antidemocratico, filo occidentale e capitalistico-clientelare. Secondo c’è la comprensione che l’alternativa rappresentata dall’”approccio bin Laden” non è un’alternativa auspicabile.

Mi aspetto, quindi, di assistere alla crescita di un movimento che rompa sia con i regimi arabi corrotti che con la strategia senza prospettive di al-Qaeda, benché ci vorranno degli anni perché si sviluppi e si esprima. Purtroppo qui viene messa a nudo la debolezza delle forze veramente di sinistra del mondo arabo, che ostacola molto la formazione di una corrente in grado di comprendere l’attuale struttura dell’oppressione e dello sfruttamento e di contrapporle un’alternativa.


Note: Traduzione di Giancarlo Giovine per Z-mag
http://www.zmag.org/italy/haddad-roadmaptowhere.htm
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