Palestina

«Solo con la non violenza si può sconfiggere la cultura della guerra»

Parla Ali Abu Awwad, di Parents Circle che riunisce famiglie israeliane e palestinesi che hanno perso familiari nel conflitto. A Monterotondo ha incontrato la famiglia di Angelo Frammartino, il cooperante italiano ucciso a Gerusalemme un anno fa
20 luglio 2007
Francesca Cutarelli
Fonte: Liberazione (http://www.liberazione.it)

Ali Abu Awwad, 35 anni, militante di Fatah, ha trascorso quattro anni nelle carceri israeliane. Nel 2000 il fratello Yousef è stato ucciso ad un check point vicino a Hebron. Ali ora fa parte del Forum di Parents Circle, oltre 500 famiglie palestinesi e israeliane che hanno perso famigliari nel conflitto. Lo abbiamo incontrato a Roma in compagnia di Luisa Morgantini, Vice Presidente del Parlamento Europeo e della comunità italo-palestinese del Lazio. A Monterotondo, Ali ha anche incontrato i famigliari e i membri della costituenda Fondazione Angelo Frammartino, il cooperante ventenne ucciso il 10 agosto del 2006 a Gerusalemme.
Dopo la morte di Angelo, il padre, Michelangelo aveva dichiarato: «Non ho nessun motivo di rancore. Mio figlio è vittima dell'ingiustizia del mondo, non di quel povero cristo che l'ha ucciso» e la famiglia è entrata in contatto con il Parents Circle. Dal 2005, Ali lavora al progetto The Way, in arabo Al Tariq, per riunire in un solo movimento diverse associazioni palestinesi che, spesso in collaborazione con gli israeliani, ogni giorno lottano per il diritto ad uno stato libero, per la fine dell'occupazione, contro la logica del nemico e ogni violenza.
«Almeno il 95 per cento dei palestinesi -ci dice Ali- non partecipa alla lotta armata e non usa armi. Subisce l'occupazione senza avere prospettive per sé e per i propri figli. Quando mio fratello è stato ucciso, ad un check point mentre intimava ai ragazzini palestinesi di non tirare pietre agli israeliani ricevendo in cambio una pallottola in testa sparata da 70 cm di distanza da un soldato, tutta la vita mi è passata davanti: mia madre, militante di Fatah, arrestata quando avevo 10 anni e mi sembrava un vero sequestro; la mia partecipazione alla rivolta, tirare pietre, la prima Intifada, l'arresto, il carcere e le torture. Rivivevo con la mente la perdita della terra, dei sogni, della possibilità di studiare e di avere un futuro. Dopo otto mesi di disperazione ho però capito che è un mio diritto scegliere di non essere né vittima né carnefice e ho incontrato il Parents Circle: per la prima volta vedevo degli Israeliani contro l'occupazione che si battevano per i diritti dei palestinesi. Per di più si trattava di persone in lutto a causa di militanti palestinesi. E' stato uno shock: se possono farlo loro, se posso io, allora possono tutti, pensavo. La vendetta non ci riporta in vita il fratello o il figlio, ma crea altri lutti. La non violenza non dà pretesti per ritorsioni o strumentalizzazioni e diventa un attentato al sistema educativo di guerra in cui israeliani e palestinesi crescono da 40 anni. Come Parents Circle parliamo agli adolescenti spiegando che, se resistere contro l'occupazione è un diritto, la via non violenta deve essere il mezzo: ma si tratta di un processo e ha bisogno di tempo».

In questi ultimi tempi la violenza in Palestina appare ancora di più fuori controllo?
Non esiste pace senza giustizia, come non esiste una vera Autorità sotto un'occupazione militare, che condiziona i comportamenti e la sicurezza di palestinesi e israeliani. Ora, per il bene del popolo palestinese bisogna trovare una posizione comune, includere nei negoziati tutte le forze politiche, non solo Hamas e Fatah, ma anche i movimenti civili che sono la vera speranza di cambiamento. Bisogna finirla di giudicare solo i palestinesi. Perché la comunità internazionale ha rapporti ufficiali con un partito come il Likud, il cui programma afferma che ad entrambi i lati del fiume Giordano si trova Israele cancellando in tal modo la Palestina, e li rifiutano invece ad Hamas? E poi qualcuno sa cos'è Israele? I suoi confini risalgono al '48, al '67 o al territorio attuale che, arbitrariamente e grazie al muro, ha annesso altre terre palestinesi, riducendo la Palestina a meno del 22% del suo territorio originario?

Lo chiedi all'Europa, al Quartetto o a Tony Blair?
A chiunque abbia la volontà politica, che finora è mancata, per trovare una soluzione a questo conflitto. L'Europa e la comunità internazionale possono fare molte cose: la prima è ristabilire la giustizia. Non credo che una forza Internazionale a Gaza sia la scelta migliore. Bisogna ridare speranza ai palestinesi, dare loro prospettive per il futuro, fermare le uccisioni mirate da parte di Israele, bloccare il muro e l'occupazione. Bisogna anche ridare slancio all'iniziativa di pace araba e scongiurare la divisione del nostro popolo. Sul ruolo di Tony Blair al Quartetto non sono ottimista: mi chiedo perché i grandi leader, come l'ex presidente Usa Jimmy Carter, arrivino ad una fase di saggezza solo alla fine della propria carriera durante la quale, invece, avrebbero potuto agire concretamente per la pace. Forse, come è avvenuto in Irlanda del nord, Blair può riuscire a mediare: ma lì erano le donne e i prigionieri ad avere un ruolo di primo piano.

Sei stato prigioniero per quattro anni, cosa ne pensi della decisione israeliana di liberare 250 detenuti di Fatah?
Quasi 12mila prigionieri palestinesi sono trattenuti illegalmente nelle carceri israeliane. Spesso si tratta di leader politici che possono contribuire alla pace e all'unità per il popolo palestinese, in particolare Marwan Barghouti. Il carcere per me è stata una scuola: nonostante le violenze fisiche, psicologiche e le torture, i detenuti palestinesi si organizzano, discutono di strategie. La scelta di liberare 250 prigionieri di Fatah, unilaterale come il ritiro di Gaza, non basta: sono un militante di Fatah, ma riconosco che tale decisione indebolisce Mahmoud Abbas e divide i palestinesi. C'è bisogno di un accordo che risolva l'intera questione dei prigionieri, con uno scambio che includa anche la liberazione del caporale israeliano Shalit.

Quale potrebbe essere il ruolo dell'Italia?
La cooperazione italiana e l'impegno per la Palestina sono straordinari. In questi giorni sto collaborando con una giornalista di Rai Cinema per un documentario, Mothers, che spero sia selezionato al Festival di Venezia perché mostra madri israeliane e palestinesi unite nel lutto per aver perso un figlio. Ma le realtà italiane solidali con il popolo palestinese sono molte: di una di queste faceva parte Angelo Frammartino. La sua morte ci ha sconvolto. Ora, è un fatto importantissimo che la sua famiglia sia entrata in contatto con il Parents Circle ed altre famiglie ferite. Il padre di Angelo, Michelangelo, mi ha accolto come un figlio, e incontrandoci a Monterotondo per la seconda volta, il legame è ancora più stretto: gli occhi lucidi nel salutarci, ci siamo dati appuntamento al 10 agosto, primo anniversario della sua morte, quando la famiglia verrà a Gerusalemme. Io sarò con loro, idealmente insieme a tanti altri israeliani e palestinesi, a ricordare che Angelo vive nei nostri sogni.

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