Palestina

Vittorio Arrigoni

Processo al via, quattro giovani alla sbarra

Michele Giorgio (da Gaza )

Vittorio Arrigoni

Sono chiusi nella gabbia degli imputati, quattro dei sei giovani accusati di aver rapito e assassinato Vittorio Arrigoni. Mahmoud Salfiti, Tamer Hasasnah, Khader Jram e Amer Abu-Ghoula. Sono i superstiti della (presunta) cellula salafita (altri due membri, tra cui il giordano Abdel Rahman Breizat, sono morti in uno scontro a fuoco con le forze speciali di Hamas) che credeva, prendendo in ostaggio l'attivista italiano, di poter liberare lo sceicco jihadista al Maqdisi, arrestato dalla polizia di Gaza a inizio anno.
Vittorio poi l'hanno ucciso, brutalmente, dopo averlo immobilizzato e pestato. Hanno agito da soli o avevano qualcuno dietro? Il dubbio è forte. Ma ora sono lì, davanti a noi. E li osserviamo con attenzione. Pare impossibile che dei ragazzi poco più che ventenni abbiamo potuto togliere la vita a un giovane italiano che alla loro terra martoriata aveva dedicato la sua esistenza. Ma tant'è.


Salfiti appare tranquillo, indossa una maglietta a righe blu e azzurre orizzontali e con lo sguardo cerca i suoi familiari seduti tra il pubblico. Accanto a lui Hasasnah, camicia e pantaloni beige, barba lunga e ben curata, sorride e saluta i parenti. Al Ghoula, maglietta nera e pantaloni color verde militare, non dice una parola. Jram è il più teso, chiede consiglio al suo avvocato, poi torna a sedersi. E' lui che ha suggerito ai compagni di sequestrare Vittorio. I due si erano conosciuti davanti al palazzo «Abu Ghalion», sul lungomare di Gaza, dove Vik ha vissuto a lungo. Jram prestava servizio alla stazione dei vigili del fuoco situata di fronte, vicino all'ingresso del porto dove Vittorio si recava spesso spesso per uscire in mare con i pescatori nella speranza di poterli proteggerli, con la sua «presenza passiva», dalle intimidazioni minacciose della marina militare israeliana. Vik si fidava di lui, come di tutti a Gaza.


La madre di Jram ripete che il figlio è un bravo ragazzo. «Era un amico dell'italiano, voleva solo spaventarlo, non ucciderlo», ripete la donna provando a dare un'immagine più positiva del figlio. Le indagini invece hanno accertato che la «scelta» di Vittorio da parte dei rapitori si deve soprattutto alla sua insistenza.
Non siamo i soli ad avere lo stomaco sottosopra. Sono presenti nell'aula fatiscente del tribunale militare di Mashtal (Gaza city) diversi amici di Vik, italiani e palestinesi. Paolo non regge la tensione, lui i quattro ce li ha proprio davanti, a un paio di metri di distanza: a un certo punto si alza, esce dall'aula. Forse per fumare una sigaretta. Ebaa non riesce a dire una parola. Meri, Valentina e Adriana ascoltano attente la traduzione in italiano di ciò che si dice in aula, garantita da Sami, odontotecnico di Khan Yunis. I giornalisti presenti, italiani e palestinesi, sono meno di dieci. I media locali hanno ignorato la notizia del processo - ma la conoscevano in pochi, dato che le autorità non lo hanno mai annunciato pubblicamente.


«In piedi, entra la corte» urla un militare battendo con forza la mano sul leggio. Il presidente della corte, Ata Abu Mansur, indossa l'uniforme come il pubblico ministero (assistito da una collega donna). Legge ad alta voce i nomi degli imputati, tre dei quali residenti nel vicino campo profughi di Shate. I primi due sono accusati d'aver partecipato direttamente all'operazione - uno, Salfiti, venne preso nel corso del blitz in cui furono uccisi i «capi» della cellula salafita Abdel Rahman Breizat e Bilal al Omari, Jram e Ghoula hanno responsabilità penali minori.
Gli imputati principali rischiano fino alla pena di morte ma, come ci ha spiegato prima dell'udienza il procuratore militare Ahmad Atallah, la famiglia Arrigoni avrebbe in quel caso il diritto di chiedere la non esecuzione della condanna. In ogni caso la pena di morte nell'ordinamento palestinese può essere eseguita solo con l'approvazione scritta del presidente dell'Autorità Nazionale. Ma visto che Cisgiordania e Gaza sono separate, nella Striscia questo ruolo è ora svolto dal consiglio dei ministri.


Alle spalle del pubblico ministero sono seduti i legali del Centro Palestinese per i Diritti Umani (Cpdu), incaricati dalla famiglia Arrigoni di rappresentarla al processo (in assenza anche del legale italiano Gilberto Pagani, ancora in attesa di entrare a Gaza dal valico di Rafah). Colpo di scena: l'avvocato Mohammed Najar, che assiste Khader Jram, obietta che la costituzione di parti civili non è prevista nel procedimento penale presso le corti militari. Il giudice accoglie il rilievo e invita l'avvocato Eyal al-Alami a sedersi con il pubblico, potendo svolgere solo il ruolo di osservatore.
E' un duro colpo, dopo la fatica enorme fatta dagli Arrigoni per far arrivare a Gaza il documento di incarico ufficiale al Cpdu secondo i criteri fissati dalla procura militare. Al momento non è chiaro quale potrà essere la funzione precisa degli avvocati del Cpdu. «Con nostra grande sorpresa - ci dice Khalil Shahin, vice direttore del Centro per i diritti umani - abbiamo appreso che il governo di Hamas di recente con un decreto ha modificato la procedura penale nelle corti militari, vietando la costituzione delle parti civili. Non pensiamo che l'abbia fatto per colpire proprio noi ma in ogni caso è una decisione presa in segreto che respingiamo come tutte le modifiche dei codici a Gaza avvenute dopo il 2007».


L'udienza va avanti ancora qualche minuto. La corte dispone il rinvio al 22 settembre dopo che la pubblica accusa annuncia l'introduzione di nuovi elementi di prova e di un cd con le confessioni degli imputati. Materiale contro la cui presentazione la difesa si oppone - non avendo ricevuto nulla in anticipo - e che i giudici si sono riservati di ammettere o meno prima della seconda udienza, una volta che gli avvocati avranno potuto prenderne visione. Il processo è aggiornato. «In piedi, la corte di ritira», urla lo stesso militare battendo la mano con ancora più forza di prima sul leggio. Usciamo dall'aula, come tutti gli altri, con tanto amaro in bocca.

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