La nonviolenza del forte

3 settembre 2007
Rocco Altieri

The way of the Lord is for the brave,
not for the coward. (Pritam)1

Gandhi satyagraha in Sudafrica.

Il racconto (2) dell’epica lotta che prese l’avvio l’11 settembre 1906 in Sud Africa crea nel lettore moderno stupore e incredulità. L’entusiasmo e la forza sprigionati da quel grande movimento popolare, la sagacia di Gandhi nell’orientarlo, ci sembrano, a distanza di un secolo, straordinari e difficili da spiegare, soprattutto se commisurati ai parametri del nostro “realismo politico”.
Il satyāgraha in Sud Africa è stato, in realtà, un grande laboratorio, religioso e politico, che fece esclamare a Tolstoj (3), nella lettera inviata a Gandhi, due mesi prima di morire: “Il vostro lavoro nel Transvaal, che pur sembra essere così lontano dal centro del nostro mondo, in realtà è di fondamentale e straordinaria importanza, in quanto fornisce l’esperimento più significativo che il mondo da tempo aspettava, e nel quale possono ora impegnarsi non solo i cristiani, ma tutti i popoli della terra” (4).

Satyāgraha: la forza della verità

Il metodo di lotta sperimentato da Gandhi in Sud Africa è conosciuto col nome di satyāgraha che significa letteralmente: perseverare nella verità, parola (5) preferita all’espressione resistenza passiva, che al fondo lascia ancora intendere la volontà di molestare la parte avversa (6), ed è, perciò, priva di “amore costruttivo”. Scrivendo su “Indian Opinion”, Gandhi spiega il significato del nuovo termine: “Satya che vuol dire Verità, implica amore, e agraha che vuol dire fermezza, genera forza, e talvolta funge da sinonimo di “forza”. Così iniziai a chiamare il movimento indiano satyāgraha, vale a dire, la Forza che è generata da Verità e Amore cioè nonviolenza, e smisi di usare l’espressione “resistenza passiva” (7). In un’altra occasione Gandhi ne approfondisce l’etimologia: “La parola Satya (Verità) è derivata da Sat, che significa ciò che è. E nulla è o esiste in realtà eccetto la Verità. Questa è la ragione per cui Sat o Verità è forse il nome più importante di Dio. Infatti è più corretto dire che la Verità è Dio, piuttosto che Dio è la verità” (8).
Così Gandhi spiega la differenza tra il metodo del satyāgraha e la pratica della resistenza passiva, usata diffusamente nel mondo anglosassone, ad esempio dal movimento delle suffragette: “Satyāgraha differisce dalla resistenza passiva come il Polo Nord dal Polo Sud. Quest’ultima è stata intesa come l’arma del debole e non esclude l’uso della forza fisica o violenza allo scopo di raggiungere il proprio obiettivo; mentre la prima è stata concepita come l’arma del più forte, ed esclude l’uso della violenza in qualsiasi forma” (9).
Perciò la forza della verità può altrimenti essere chiamata “forza dell’amore”, anche se Gandhi avverte che: “Senza verità non c’è amore; senza verità esso può diventare attaccamento morboso, come nell’amore per il proprio paese, che porta offesa agli altri; o infatuazione, come del giovane innamorato per una ragazza; o ancora può essere cieco e irrazionale come nell’amore possessivo dei genitori verso i propri bambini. Attraverso la verità, Amore trascende ogni animalità e non è mai parziale. Satyāgraha, quindi, è stato descritto come una moneta: su una faccia leggi amore, sull’altra verità. È una moneta corrente in ogni luogo e ha un valore incalcolabile” (10).
Infine, il satyāgraha può anche essere inteso come “forza dell’anima”, in quanto “un chiaro riconoscimento dell’anima interiore è una necessità se un satyāgrahi (11) crede che la morte non significhi la cessazione della lotta, ma il suo culmine” (12). “La morte in combattimento è una liberazione, e la prigione è la porta di accesso alla libertà” (13).
L’inseparabile combinazione di verità e amore appare essere il punto risolutivo nella relazione tra i fini e i mezzi: “Senza ahimsa (14), scrive Gandhi, non è possibile cercare e trovare la verità. Ahimsa e Verità sono così interconnesse che è praticamente impossibile distinguerle e separarle. Sono come due facce di una moneta, o piuttosto di un disco metallico liscio senza impronte. Chi può dire, qual è il diritto, e quale è il rovescio? Nondimeno ahimsa è il mezzo, Verità è il fine. I mezzi in quanto mezzi devono essere sempre al centro della nostra ricerca, e così ahimsa è il nostro supremo dovere. Se noi ci prendiamo cura dei mezzi, siamo destinati a raggiungere dei risultati prima o poi. Una volta che noi avremo compreso questo punto, la vittoria finale è fuori discussione” (15).
I mezzi e i fini vengono abitualmente separati in politica, ma essi devono essere riconciliati nel campo della risoluzione costruttiva di un conflitto. Secondo il metodo nonviolento mezzi e fini sono interscambiabili. Gli uomini hanno, infatti, il controllo solo sui mezzi, non sui fini, che appartengono a Dio. Ha scritto Richard Gregg: “I mezzi ci infondono una immensa speranza, perché i mezzi sono, qui e ora, soggetti alle nostre scelte e sottoposti al nostro potere e controllo. Il solo modo per migliorare il futuro è migliorare il presente usando un metodo corretto, e sforzandoci di applicarlo giorno per giorno. Se noi usiamo mezzi giusti e perseveriamo in ciò, potremo certamente conseguire un fine giusto” (16).

Ahimsa: Dio è la nostra forza

Secondo Gandhi il segreto del successo della grande mobilitazione degli immigrati indiani contro il Black Act risiedeva nella fede che li animava: “Quando in migliaia si unirono al movimento, io non avevo parlato loro, neanche li avevo visti. Né potevano leggere documenti. Il mio cuore stava lavorando all’unisono con loro. Una fede viva era tutto ciò che era necessario, [...] una fede vivente in Dio e nella nonviolenza. Questa fede è auto propulsiva, e illumina la vita degli uomini ogni giorno sempre di più” (17).
Chiunque si avvicini a Gandhi con spirito irreligioso o antireligioso, non si pone nella condizione di capirlo. Chi tenta di isolare l’aspetto più propriamente pragmatico e politico, da quello metafisico, naufraga miseramente e si condanna all’impotenza. In un articolo rivolto ai militanti di sinistra, scritto nel luglio 1947 tenendo presenti i problemi legati alla costruzione dell’India indipendente, Gandhi invita costoro a scoprire ed adottare il satyāgraha, un’arma che si potrebbe dimostrare potente ed efficace per realizzare il socialismo, e così avverte: “Verità e ahimsa devono essere accolti nel socialismo. Ciò può diventare possibile a condizione che si sviluppi una fede vivente in Dio. Una semplice, meccanica adesione alla verità e all’ahimsa è probabile che crolli al momento critico. Perciò ho detto che la Verità è Dio.
Dio è una Forza vivente. La nostra vita si nutre di tale Forza. Questa Forza risiede nei nostri corpi, ma non si identifica con essi. Colui che nega l’esistenza di questa grande Forza, nega a se stesso l’accesso al suo inesauribile potere e, quindi, rimane impotente. Egli è come una nave senza timone, sballottata di qua e di là, che naufraga prima di aver raggiunto la meta. Molti si trovano in questa condizione” (18).
Nel suggerire le caratteristiche che dovrebbero avere i volontari da selezionare per le Peace Brigade, progettate nell’anno 1938 con compiti di polizia nonviolenta nei casi di violenze e disordini locali, così Gandhi indica la prima e indispensabile qualità per l’arruolamento:
“Egli o Ella devono avere una fede vivente nella non-violenza. Questa è impossibile senza una fede vivente in Dio. Una persona nonviolenta non può fare nulla al di fuori del potere e della grazia di Dio. Senza questa non avrebbe il coraggio di morire senza rabbia, senza paura, e senza risentimento. Tale coraggio proviene dalla fede in Dio che alberga nei cuori di tutti, e non ci può essere paura in presenza di Dio. La conoscenza dell’onnipresenza di Dio significa anche rispettare le vite di coloro che vengono chiamati violenti o teppisti” (19).
E nel pensare alla formazione dei combattenti nonviolenti, facendo un parallelo con l’addestramento che viene propinato ai militari, Gandhi osserva: “Un militare cercherà la sua protezione nelle armi, e perciò si spenderanno molti milioni per gli armamenti. Invece il primo e unico scudo della persona nonviolenta sarà la sua fede incrollabile in Dio. Le mentalità dei due non potrebbero essere così diverse” (20). [...]
“Io ho la ferma convinzione che l’autentico fondamento del training [nonviolento] sia la fede in Dio. Se la fede è assente, tutti i training che uno può seguire falliranno miseramente alla prima occasione. Non lasciamo che qualcuno ironizzi sulla mia affermazione, dicendo che nel partito del Congresso ci sono molte persone che hanno vergogna di invocare il nome di Dio. Io sto cercando semplicemente di vedere la questione nei termini della scienza del satyāgraha, così come io l’ho conosciuta e sviluppata. La sola arma del satyāgrahi è Dio, con qualsiasi nome Lo si conosca. Senza di Lui il satyāgrahi è privo di forza davanti a un avversario dotato di armi mostruose. Ma colui che accetta Dio come suo protettore rimarrà tranquillo di fronte alla più grande potenza di questo mondo” (21).
Mettere da parte o addirittura negare la presenza di Dio negli affari correnti induce un senso di frustrazione. Facilmente ne consegue la perdita di fiducia in se stessi e nella solidarietà reciproca. Privati della speranza, si cede facilmente alle lusinghe della violenza.
Sebbene Dio sia il Creatore, il Legislatore e il Signore dell’Universo, e non un solo filo d’erba si muova senza la sua volontà, in realtà oggi, osserva Gandhi: “noi siamo diventati atei in tutti gli aspetti pratici. E perciò crediamo che alla lunga dobbiamo ricorrere alla forza fisica per la nostra protezione” (22).

Abhāya : uomini e donne senza paura

Alla fine dell’incontro di preghiera dell’11 marzo del 1946, a Bombay, così si espresse Gandhi:
“Lasciatemi dire in tutta umiltà che ahimsa appartiene al coraggioso. Pritam ha cantato: ‘La via del Signore è per il coraggioso, non per il codardo’. Per via del Signore qui si intende la via della verità e della nonviolenza. Io ho detto prima che non considero Dio altro che come verità e nonviolenza. [...] Ahimsa richiede forza e coraggio per soffrire senza rivalsa, per ricevere colpi senza restituirli. Ma ciò non esaurisce i suoi significati. Il silenzio diventa codardia, quando la situazione richiede di dire tutta la verità e agire di conseguenza. Noi dobbiamo coltivare questo coraggio...” (23).
Due giorni dopo, sempre a Bombay, durante la serale preghiera pubblica aggiunse la seguente riflessione: “La Verità è essa stessa Dio, e nonviolenza è propriamente un sinonimo di verità. Le persone devono prepararsi a sostenere verità e nonviolenza ad ogni costo, anche a prezzo della morte, proprio come si preparerebbero a sacrificare le loro vite a Dio...” (24).
Come i lettori della Gītā sanno, la “mancanza di paura” è in testa alla lista degli Attributi Divini elencati nel sedicesimo capitolo (25). Secondo Gandhi (26), ciò è dovuto non all’esigenza metrica del poema epico, ma a una precisa intenzione dell’autore di attribuire al “coraggio” il primo posto, in quanto esso è indispensabile allo sviluppo di tutte le altre nobili qualità. Infatti: “Come si può cercare la Verità e nutrire Amore, senza mancanza di paura? [...] Dio significa Verità, e intrepidi sono quelli che si armano di coraggio, non certo di spade, fucili e simili. A queste ricorrono solo coloro che sono posseduti dalla paura. L’essere privi di paura comporta la libertà da ogni timore esterno: la paura della malattia, delle ferite nel corpo, della morte, del venire spossessati dei propri beni materiali, della perdita di coloro che ci sono più vicini e più cari, della perdita della propria reputazione o della paura di offendere gli altri, e così via. [...] Il cercatore di Verità deve vincere tutte queste paure, pronto a sacrificare ogni cosa per questa ricerca, come fece Harishchandra (27). [...] Il perfetto coraggio può essere raggiunto solo da chi ha realizzato il Supremo, poiché implica libertà dalle illusioni. Uno può sempre progredire verso questo obiettivo con sforzo determinato e costante, e coltivando la fiducia in se stessi” (28).
Nagler fa notare come Gandhi in tutti i suoi discorsi pubblici esalti le qualità guerriere dei satyagrahi: il coraggio, lo spirito di sacrificio, la dedizione, la disciplina. Scrive Nagler: “Il satyagrahi viene continuamente paragonato a un ‘soldato’ e la lotta per fondare la società nonviolenta a una ‘guerra’. La grande utilità nel parlare in questo modo è di corregge la fondamentale incomprensione che la nonviolenza sia solo un no a qualcosa, mentre ogni energia è nelle mani del violento. Serve anche a ricordarci che la nonviolenza richiede, se possibile, molta più disciplina, addestramento ed esercitazione dei militari, e che dobbiamo essere pronti al sacrificio, anche se in modi differenti” (29).
I conflitti sociali non sono sempre risolvibili con l’opera di mediazione e di arbitrato, con appelli alla buona volontà e inviti alla pace sociale. Essi comportano spesso un’azione diretta, che può svilupparsi in termini violenti o nonviolenti, comunque seguendo il corso di un confronto/scontro con duri rapporti di forza, determinando anche possibili atti di violazione della legge. Gandhi, a questo proposito, condanna l’immobilismo e l’impotenza del generico pacifismo, e dichiara senza esitazione di preferire la violenza all’inazione: “Mai è stato ottenuto qualcosa su questa terra senza azione diretta. Io rigettai l’espressione “resistenza passiva” a causa della sua insufficienza e del suo essere interpretata come un’arma del debole. Fu l’azione diretta in Sudafrica, continuamente manifestata con efficacia, che spinse il generale Smuts alla ragionevolezza” (30).
In questo senso Gandhi contrappone in modo netto la nonviolenza opportunistica del calcolatore Bania, il commerciante, e la nonviolenza attiva del coraggioso Kshatriya, il guerriero (31). Non ci sono dubbi che la nonviolenza proposta da Gandhi è quella del guerriero, e che non ammette debolezze, opportunismi, cedimenti. Se qualcuno non è in grado di seguire la via stretta della nonviolenza, viene invitato perentoriamente ad allontanarsi: “Io non posso sostenere in nessun caso la codardia. Nessuno dica, quando sarò partito, che ho insegnato alle persone ad essere codarde. Se pensate che la mia ahimsa equivale a ciò, dovreste rigettarla senza esitazione. Preferisco di gran lunga che voi moriate in combattimento, dando o ricevendo colpi, piuttosto che languire in una vile condizione di terrore. [...] Fuggire dalla battaglia – palayanam – è codardia, e non degno di un guerriero. [...] Un guerriero nonviolento sa di non poter abbandonare la battaglia. Egli affronta la violenza a viso aperto, senza mai ospitare, neppure una volta, un pensiero violento. Se questo tipo di ahimsa vi sembra impossibile, sarebbe più onesto con voi stessi confessarlo e lasciar perdere.
Per quanto mi riguarda non si tratta di deporre le armi. Io non posso farlo. Io cerco di essere un guerriero di tal fatta e, se Dio vuole, vorrei esserlo per tutta la mia vita. Un tale guerriero può combattere anche da solo” (32).
Sfugge alla cultura occidentale, abituata a ragionare solo in base al freddo calcolo utilitaristico, la comprensione di un tale “furore” combattente, di questa disposizione entusiasta al sacrificio, totalmente sprezzante della morte, non dissimile – e non sembri irriverente e inopportuno l’accostamento - dal coraggio di cui danno prova oggi, purtroppo col ricorso ad altri mezzi, i fondamentalisti islamici.

Brahmāchāria: l’addestramento del forte

Scrive Gandhi nel suo ashram di Sevagram: “Una tale nonviolenza [la non violenza del forte], non può essere appresa stando a casa, ma ha bisogno di forgiarsi nella lotta. Allo scopo di provare noi stessi, noi dovremmo imparare ad affrontare il pericolo e la morte, a mortificare la carne ed acquisire la capacità di sopportare ogni tipo di privazioni” (33).
Il Brahmāchāria costituisce per Gandhi l’essenza stessa della formazione di un satyāgrahi.
È un termine sanscrito e significa “regola di condotta” (chārya) indirizzata alla ricerca della “Realtà Suprema” (Brahmā). Brahmāchāria, quindi, deriva dalla Verità e ha lo scopo di servirla.
Non si può restringerne il significato alla sola questione sessuale (34), alla raccomandazione di rifiutare il matrimonio e preferire il celibato, aspetto per altro comune a tutte le tradizioni religioso-monastiche, compresa quella cattolica.
Brahmāchāria per Gandhi significa, in senso lato, addestramento personale al dominio delle passioni e al controllo di tutti gli organi di senso. Si offre, quindi, come un percorso formativo esigente, un vero e proprio esercizio spirituale. Richiede una tensione etica costante che porti all’autodisciplina interiore e allo swadeshî (l’indipendenza dalle illusioni). La libertà va praticata come liberazione, non solo politica, ma innanzitutto spirituale. Nella visione indù comporta anche la liberazione finale dell’anima dalla servitù terrena.
Per conseguire questa liberazione, Gandhi raccomanda il silenzio, la preghiera, il digiuno, la meditazione, l’hata yoga, pratiche molto diverse dai tanti training nonviolenti in voga ai giorni nostri. Coma afferma Gandhi: “Non esiste un corso di training per chi vuole imparare la non-violenza. Ma è facile per ciascuno evolversi attraverso i principi che ho formulato” (35).
La nonviolenza è scelta seria e impegnativa, invita a intraprendere un processo di conversione non solo negli atti interni della propria coscienza, ma anche nei conseguenti atti esteriori. L’impegno al dominio di sé va esercitato contemporaneamente in tutte le direzioni e si estrinseca nell’assumere una serie di voti (36): il controllo del palato, il vegetarianesimo, il rifiuto degli alcolici, del fumo e di ogni forma di droga, la povertà e il non possesso, il non rubare, il non appoggiarsi sul lavoro altrui, la scelta del lavoro manuale, la filatura, il lavoro personale per il pane. I voti non sono un segno di debolezza, ma aiutano a formare il carattere, a potenziare l’ auto-purificazione e l’auto-realizzazione (37).
Infine, l’amore deve liberarsi dall’impurità del desiderio, dai propri attaccamenti egoistici, consacrando tutta la persona al servizio della Verità: “La Verità, esorta il Mahatma, deve manifestarsi nei nostri pensieri, nelle nostre parole, nelle nostre azioni” (38). “La ricerca della Verità è vera bhakti (devozione). È il cammino che porta a Dio. Non c’è posto per la codardia, non c’è posto per la frustrazione. È il talismano con cui la stessa morte diventa la porta per la vita eterna” (39).
In questa prospettiva Gandhi rassicura di essere contrario alla meccanica repressione degli istinti, un fatto che “snerva e rattrista” (40). La pratica del Brahmāchāria va intesa giustamente come progressivo self-control: capacità di elevazione e sublimazione delle energie vitali. Intraprendendo questo cammino, si ricavano conoscenza e gioia:
“Dove c’è Verità, c’è anche vera conoscenza. Dove non c’è Verità, non ci può essere vera conoscenza. È per questo motivo che si associa la parola Chit (conoscenza) al nome di Dio. Quando c’è una conoscenza vera, c’è sempre perfetta beatitudine (ananda). Non c’è posto per il dolore. E poiché la Verità è eterna, anche la gioia che ne deriva è eterna. Perciò noi conosciamo Dio come Sat-chit-ananda, colui che riunisce in Sé la verità, la conoscenza e la gioia. La devozione alla Verità è la sola giustificazione per la nostra esistenza. Tutte le nostre attività dovrebbero essere centrate sulla Verità. La Verità dovrebbe essere il respiro della nostra vita. Una volta che questo stadio del proprio progresso spirituale viene raggiunto, tutte le altre corrette regole di vita saranno praticate senza sforzo, e l’obbedienza ad esse sarà istintiva. Ma senza la Verità è impossibile osservare qualsiasi principio o regola nella vita” (41).
Nella visione di Gandhi non c’è, quindi, nessuna forzatura. Brahmāchāria è realizzare in sé, gradualmente, con naturalezza, la legge morale universale.
Brahmāchāria è libera scelta vocazionale, impegno di vita. Gandhi chiede di lasciare tutto, per donare la propria vita a servizio della Verità/Dio. Ma come per il giovane ricco della parabola evangelica, all’invito di Gandhi si gira le spalle e ci si allontana. Meglio pensare che il Brahmāchāria sia un residuo medievale di un “fachiro seminudo”.

Yaina: il sacrificio di sé

La prova finale della verità ci può essere data solo dalla stretta adesione all’ahimsa, basando l’azione sul rifiuto di nuocere, o meglio sulla forza dell'amore. Ma poiché nelle dinamiche sociali la personale volontà di non fare del male può scontrarsi con la decisa violenza dell’avversario, che può arrivare fino ad uccidere, la nonviolenza richiede di accogliere su di sé la sofferenza del conflitto, non per viltà, né per scelta comoda, ma con l’obiettivo di spezzare la catena della violenza. Perciò l’addestramento al satyāgraha deve preparare al coraggio, a non aver paura della morte. L’accettazione della sofferenza spinta fino al sacrificio della propria vita è, infatti, l’ultima verifica della sincerità della propria posizione: “Nell’applicazione del satyagraha ho scoperto fin dai primi momenti che la ricerca della verità non ammette l’uso della violenza contro l’avversario, ma che questo deve essere distolto dall'errore con la pazienza e la comprensione. Infatti ciò che sembra verità ad uno può sembrare un errore ad un altro. E pazienza significa disposizione a soffrire. Dunque il senso della dottrina è la difesa della verità attuata non infliggendo sofferenze all'avversario ma a se stessi” (42).
Come avverte Vinoba: “L’ahimsa non consiste nello starsene seduti vilmente a casa per evitare la battaglia. Si deve andare là dove la battaglia infuria e dichiarare: ‘Sono pronto ad essere ucciso, ma non ucciderò?” (43).
È ferma convinzione di Gandhi, una persuasione che nasce dalla sua fede in Dio, che la natura umana non sia immutabile e fissata una volta per tutte, e che ogni uomo possa trasformare le proprie abitudini consolidate e cambiare direzione alla propria vita. Ciò richiede sicuramente uno sforzo, ma su questo sforzo fa leva l’azione terapeutica della nonviolenza.
La rigorosa disciplina comporta sofferenza (tapasya) e sacrificio (yaina), impegni e parole verso cui l’Occidente dimostra repulsione e orrore.
L’etica del sacrificio personale si presenta come l’esatto opposto della filosofia moderna dell’utilitarismo: “Yajna significa atto diretto a promuovere il benessere degli altri, senza desiderare di averne in cambio un qualche ritorno personale, sia di natura materiale che spirituale. Per ‘atto’ qui si deve intendere, nel senso più ampio possibile, non solo le azioni, ma anche i pensieri e le parole. Negli altri bisogna comprendere non solo gli umani, ma tutti gli esseri viventi” (44).
La ricerca delle soddisfazioni egoistiche cessa ogni influenza sulla nostra vita per far posto alla rinuncia. Rinuncia, però, non va qui intesa come abbandono del mondo per ritirarsi in un bosco a fare gli eremiti. Piuttosto significa impostare tutta la propria vita al servizio degli altri. Come scrive Gandhi: “La Gita insegna, e l’esperienza conferma, che ogni azione che non possa entrare sotto la categoria di yaina promuove schiavitù. Il mondo in questo senso non può esistere un solo istante senza yaina. [...] Yajna è apparso con la creazione stessa. Il nostro corpo, dunque, ci è stato dato unicamente perché possiamo usarlo per servire tutta la creazione” (45).
Tutta la legge del satyagraha si basa sull’assunto che la bontà innata del nostro più brutale avversario può essere risvegliata dalla pura sofferenza di un uomo portatore di verità. Scrive il Mahatma in una lettera del 23 marzo 1919: “Satyagraha, come mi sono sforzato di spiegare in diversi incontri, è essenzialmente un movimento religioso. È un processo di purificazione e di penitenza. Si cerca di promuovere le riforme e indirizzare le rivendicazioni attraverso l’auto-sofferenza” (46).
La forza della verità si afferma solo attraverso il fuoco del sacrificio, introducendo nel conflitto l’elemento nuovo della propria sofferenza. Uomini e donne nell’intraprendere la via del satyagraha sono consapevoli di mettere a rischio le loro vite e le loro fortune. Ma offrendosi al carcere, alla perdita economica, le catene dell’oppressione saranno spezzate (47).
Alla vigilia del suo “digiuno fino alla morte” del dicembre 1932, così Gandhi scrive: “Le persone che si propongono di operare cambiamenti radicali nella condizione umana e sociale non possono fare a meno di suscitare un sommovimento nella società. Non è possibile ottenere qualcosa senza scuotere la società. Ci sono solo due metodi per fare ciò, uno violento e l’altro nonviolento. La pressione violenta agisce sugli esseri fisici e degrada sia chi la usa, sia la vittima, mentre la pressione nonviolenta esercitata attraverso l’auto-sofferenza, come il digiuno, agisce in un modo completamente differente. Non tocca i corpi fisici, ma fortifica la condizione morale di coloro verso cui è diretta” (48).
Nel tenere sempre alta l’iniziativa morale, incalzando continuamente l’avversario, la nonviolenza non mira all’umiliazione o alla distruzione del coraggio dell’altro, ma semplicemente mira a trasformare il suo paradigma etico, costruendo nuove modalità di comprensione, di dialogo, di comune sentire.
Per questo scopo, sceglie di concentrare la sua forza in un punto decisivo: il cuore dell’avversario è il punto di fusione, la sofferenza il fattore di conversione e di empatia. Non certo la sofferenza procurata all’avversario, ma l’auto-sofferenza diviene generatrice di potere, creatrice di forza umana e sociale che rigenera la moralità dell’avversario, la sua percezione etica e psicologica del conflitto.
La pratica sociale dal basso porta Gandhi a essere più che un mediatore, un autentico suscitatore di conflitti, simile a un profeta dell’antico testamento, prospettando non di “trascendere” (49), ma di rivoluzionare culture (modi di pensare) e società (organizzazioni economiche e politiche).
I grandi rivolgimenti della storia non sono mai avvenuti a causa di decisioni prese nei palazzi, nei centri del “potere”, ma nascono dal basso, nelle periferie, e progrediscono attraverso la partecipazione degli ultimi e dei reietti. Nascono e si affermano come rivoluzioni religiose, perché cambiano “le culture profonde” su cui si basano i rapporti economici e politici di una società. È questa la lezione che ci viene dalla storia dell’11 settembre di Gandhi.
In questo momento drammatico per il futuro della civiltà umana, col rischio crescente di un collasso ecologico e di una guerra atomica, bisognerebbe essere pronti, come fecero i primi cristiani, come ha fatto Gandhi, a tornare nelle catacombe, a dare se stessi in sacrificio, se necessario a offrirsi in pasto ai leoni: “Il puro devoto della nonviolenza deve consacrarsi senza alcun limite al servizio dell’umanità” (50).

Rocco Altieri
(Docente di "Teoria e Prassi della Nonviolenza" all'Università degli Studi di Pisa).

www.uomoplanetario.org

Note: (1) Poeta gujarati. Il versetto qui riprodotto veniva da Gandhi cantato abitualmente durante le preghiere, cfr. The Collected Works of Mahatma Gandhi (CWMG), Ahmedabad, Navajivan Trust, 1966-1981, vol. LXXXIII, p. 252.
(2) Cfr. M. K. Gandhi, Saty_graha in South Africa, Ahmedabad, Navajivan Trust, 1950, tr. it. Una guerra senza violenza, Firenze, Lef, 2005.
(3) CWMG, vol. X, p. 512-4. La lettera è datata 7 settembre 1910. Tolstoj muore ad Astapovo il 7 novembre 1910.
(4) CWMG, p. 513.
(5) CWMG, vol. VIII, pp.131-2.
(6) M.K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Torino, Einaudi, 1973, p.18.
(7) M. K.Gandhi , Una guerra senza violenza, op. cit, p. 103.
(8) M. K.Gandhi, cit. in A. Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Milano, 2a ed., Linea d'ombra, 1989, pp.16-7.
(9) CWMG, vol. XVII, p.152.
(10) CWMG, vol. XVII, p.153.
(11) Viene chiamato saty_grahi l’attivista nonviolento.
(12) CWMG, vol. XVII, p.153.
(13) CWMG, vol. XVII, p.153. (14) Ahimsa viene tradotto con la parola nonviolenza.
(15) M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., p. 7.
(16) R. Gregg, The Power of Nonviolence, London, James Clarke, 1960, p. 176.
(17) CWMG, vol. LXIX, p. 313.
(18) CWMG, “‘Socialism”, New Delhi 13 luglio 1947, in vol. LXXXVIII, p. 324.
(19) CWMG, “Qualification of a Peace Brigade”, ‘Harijan’, 18 giugno 1938, in vol. LXVII, p. 126.
(20) CWMG, Physical Training and Ahimsa, Simla 29 settembre 1940, ‘Harijan’ 13-10-1940, in vol. LXXIII, p. 67.
(21) CWMG, vol. LXXIII, p. 69.
(22) M.K. Gandhi, cit. in G. Dhawan, The Political Philosophy of Mahatma Gandhi, Ahmedabad, Navajivan Trust,1946, p. 45.
(23) CWMG, op. cit., vol. LXXXIII, p. 242.
(24) CWMG, op. cit., vol. LXXXIII, p. 252.
(25) Il Canto del Beato (Bhagavadg_t_), a cura di R. Gnoli, Torino, Utet, 1976, p. 235.
(26) M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir, (traduzione inglese dall’originale in gujarati a cura di V. G. Desai,), Ahmedabad, Navajivan Trust, 1932, p. 17.
(27) La storia è riportata nel Mahabharata. Harishchandra, imperatore di Bhârata, affronta ogni tipo di privazioni e avversità, anche le più estreme, pur di non venir meno al dovere morale di dire sempre la verità. Tra le figure mitologiche più amate in India, la leggenda di Harishchandra colpì Gandhi fin dall’adolescenza, in quanto esempio intrepido di perseveranza nella verità (cfr. M. K. Gandhi, An Autobiography or the Story of My experiments with Truth, Ahmedabad, Navajivan Trust, 1927, p. 4). (28) M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., pp. 17-18.
(29) M. Nagler, “Nonviolence”, in World Encyclopedia of Peace, Oxford, Pergamon, 1986, vol. II, p. 76. (30) CWMG, op. cit. vol. XVII, p. 407.
(31) Cfr. CWMG, op. cit., vol. LXIX, p. 312. Bania indica la casta dei commercianti , Kshatriya quella dei guerrieri.
(32) Ibid.. Cfr. CWMG, op. cit., vol. LXIX, p. 312.
(33) CWMG, vol. LXXII, p. 416.
(34) Cfr. M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., p.10.
(35) CWMG, vol. LXXII, p. 416.
(36) Cfr. M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit.
(37) M.K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., p. 30.
(38) M.K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., p.10.
(39) M.K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., p. 4.
(40) M.K. Gandhi, Bapu’s Letters to Mira, Ahmedabad, Navajivan Trust, 1949, p. 170.
(41) M.K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., p.1.
(42) M. K.Gandhi , Teoria e pratica della nonviolenza, op. cit., p.15.
(43) Vinoba Bhave, Gandhi. La via del Maestro, Alba, San Paolo, p. 94.
(44) M.K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., p. 31.
(45) M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., p. 31-2.
(46) Cfr. CWMG, op. cit., vol. XV, p. 145.
(47) M. K. Gandhi, “Tyller, Hampden and Bunyan”, in “Indian Opinion”, 20-10-1906, ora in CWMG, vol. V, p. 477.
(48) M. K. Gandhi, “Statement on Fast to Anti-Untouchability Committee”, 4 dicembre 1932, ora in CWMG, vol. LII, p.114.
(49) Trascendere un conflitto, alla Galtung, può determinare anche effetti di acquietamento delle rivendicazioni, di mitigazione della violenza solo nel breve periodo, perché si agisce alla superficie, non nel profondo delle ragioni del conflitto. Il modello sociale preferito ultimamente da Galtung nella soluzione dei conflitti è quello tecnocratico, adottato dalla Svizzera o dal Giappone. Cfr. J. Galtung, Transcend & Transform, London, Pluto Press, 2004.
(50) M. K. Gandhi, From Yeravda Mandir, op. cit., p. 35.

Per ulteriori informazioni sul Mahatma Gandhi e la nonviolenza: www.uomoplanetario.org

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