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Se questo è un uomo

Il mio "safari" trai migranti di Foggia

Reportage dalle campagne pugliesi che sembrano africane
26 agosto 2007
Angelo Ferracuti
Fonte: Liberazione (http://www.liberazione.it)

Quello che ho visto stamattina non ha dell'umano, eppure è umanissimo. Certi parametri cambiano da luogo a luogo, sono le spugne sensibili dell'Epoca. Con Passpartout, reporter free lance che sa tutto di questi posti, e Issa, un ragazzo della Costa d'Avorio che vive nel foggiano da sette anni, siamo partiti stamattina in auto per un viaggio nelle campagne qui intorno.
Sembra incredibile come il paesaggio di questa parte di Puglia possa occultare certe vite. Improvvisamente da un'arteria di città, mentre stai transitando in una di queste superstrade semivuote con ai lati centri industriali dismessi, stradoni deserti sotto cieli pieni di nuvole prosperose, ti ritrovi in un pezzo di terra fantasmatico, che è tanto luogo, perché ci sono distese di campi immense tra due sagome lontane di monti, ma è anche una terra desolata, una terra di nessuno.
Raro infatti incontrare automobili, e quelle poche sono modelli in disuso, vecchie Mirafiori, Tipo dalla verniciatura variopinta fatte di pezzi e colori diversi, furgoni, Fiat uno scassate, però capita di vedere gente a piedi, ragazzi neri sempre slanciati di corpo, eleganti nonostante lo stato di cattività, che camminano contro il vento, e autotreni con i rimorchi stipati di casse di pomodori che corrono all'impazzata perché anche per loro il tempo è denaro.
Tutto è danaro e tempo qui: per gli agricoltori, per i cinici spietati caporali che organizzano le uscite, per i lavoratori stagionali che poi migreranno in Trentino a raccogliere mele e in tutte quelle geografie possibili dove serve manodopera assoggettata e veloce. Hai la percezione di stare da un'altra parte dell'Italia, un piccolo spazio di realtà che nessuno riesce a vedere, oppure fa finta di non accorgersi che esista, e dove loro malgrado questi schiavi nomadi cercano di ricostruire una comunità, una cittadella di lavoratori, di uomini e basta.
Costeggiando la stazione di Rignano sostano dietro un cancello braccianti africani stanchi, sembra un luogo sperduto dove non immagineresti che davvero un convoglio possa passare per davvero, con tanto di vagoni e passeggeri, per quanto l'atmosfera è assurda. Hai la sensazione di esserti perso, che ti stiano portando a spasso nell'Altrove, e provi quasi un senso di angoscia a ritrovarti senza la minima protezione e a orientarti.
Non c'è presenza umana da nessuna parte, le strade polverose sono piene di buche, è come se sentissi la Storia indietreggiare, farsi beffe dell'uomo che eri prima nell'alberghetto dignitoso e pulito del centro storico di Foggia, con aria condizionata, telefono, abatjour, libri a iosa che ti sei portato dietro, per combattere in qualche modo contro il tempo che passa. E il tuo tempo, quello che vivi, vuole solo consumarsi e consumarti. Merci che chiamano merci. T'immagini come può essere qui la vita d'inverno, quando piove e i fulmini corrono lungo il cielo aggrottato per colpire un bersaglio, cosa può diventare all'improvviso questa prateria, e come può vivere uno che è catapultato qua da un altro Mondo come un boomerang: la Costa d'Avorio, o il Mali, il Senegal, per ritrovarsi solo nel Nulla, in uno spazio senza tempo. Uno che a Foggia non ci va mai, che non conosce i negozi del centro e che ha un solo problema: lavorare.
Dobbiamo arrivare al Ghetto, così lo chiamano, un villaggio africano a tutti gli effetti. La strada polverosa sembra infinita, non si vede mai un orizzonte. Mancano solo i leoni e le zebre lungo questi tratti di campagna brulla dove vedi solo grandi ragnatele per terra di pomodori a grappoli, eppure le zebre potrebbero starci davvero, potresti vedere anche giaguari correre e antilopi scappare e cacciatori con le lance inseguirli. Siamo nel mondo selvaggio, animale. Sono fermi oggi, non c'è lavoro, ci sono troppi controlli, perché i neri sono visibili e extracomunitari, i caporali preferiscono i bianchi polacchi, i rumeni, i bulgari. Danno meno nell'occhio. Piovesse sarebbe diverso, allora sì che si aprirebbe per loro uno spiraglio.
Issa, che nel suo paese significa Gesù, è una specie di sindacalista e caporale buono insieme: rivendica diritti per i suoi connazionali del Ghana, dell'Uganda, del Mali, del Senegal, però organizza la vita dei nuovi arrivati, li sistema, li colloca. In queste vecchie masserie cadenti ci vivono in parecchi. Sono case fatiscenti, gli intonaci sgraziati dall'umidità, i vecchi materassi polverosi ammassati, le tende che separano i corpi. Vivono come le bestie, bevono acqua inquinata e si ammalano. Fortuna che il dottore di Medici senza frontiere viene qui periodicamente a curarli.
Allora ti chiedi se questo è un uomo. Uno che vive lontano dal proprio paese, senza affetti, uno che ha solo bisogno di lavorare e mangiare per 18 bastardi euro al giorno. Ti chiedi se è umano in questo paese vivere senza l'acqua per bere, senza quella per lavarsi, se un uomo per sopravvivere deve infilarsi dentro i vasconi che raccolgono l'acqua piovana da usare per irrigare i campi, e magari morirci annegato perché la melma schiumosa gli ingoia il corpo e non è più capace di risalire.
Ti chiedi se gli occhi che hai visto, d'una tristezza infinita, in questi volti nerissimi, non debbano interrogarti e farti vergognare. Sono ragazzi partiti dall'Africa con un sogno, e che hanno pagato un sacco di soldi per traghettare, frutto di collette tra i parenti, sacrifici di tutta la vita in paesi poverissimi. Quei soldi dovranno restituirli. E se li beccheranno senza documenti per loro sarà una sconfitta atroce anche economica.
Ti chiedi perché un uomo che con le sue mani raccoglie ortaggi e crea un pezzo di ricchezza di questo paese non è un uomo, non esiste, non ha una cittadinanza, e questa cosa t'indigna.
Stanno in una specie di androne, seduti a bere coca cola o acqua, niente alcol perché sono musulmani. Il ghetto è fatto di un agglomerato di case distanziate di poco una dall'altra. Dentro materassi posticci, tramezzi di cartone, e tante mosche che svolazzano e cercano carni da succhiare. C'è persino un bar gestito da un tipo che sembra mezzo scemo, Gigino, vecchia conoscenza di Passpartout. Lui sta lì perché il proprietario è in galera. Gli hanno messo le manette ai polsi, non vuole dirmi perché, forse per storie di droga e prostituzione. La notte scorsa hanno ballato, c'è stata una festa per un anniversario di matrimonio. Sugli scaffali organizzati c'è di tutto e sotto a ogni merce esposta, siano aranciate, cocacole o superalcolici, è scritto il prezzo come al supermercato. Le bibite fresche stanno dentro vecchi frigoriferi mantenuti dal gruppo elettrogeno alimentato a gasolio. Ci sono ancora i festoni in alto, sul soffitto, e un sistema audio che diffonde la musica, c'è persino un Grundig con un bello schermo e la stufa a legna al centro, i tavolini e le sedie per gli avventori che tornano dalle campagne strafatti di stanchezza. Dietro il bar c'è lo scopatoio, un loculo di un metro per uno dove la sera due prostitute colombiane, a prezzi modici, sfamano sessualmente per pochi euro un intero popolo di africani che fanno la fila. Questo box è squallidissimo, somiglia a quelli degli autolavaggi. Per terra c'è un tappeto di plastica dura e intorno bottiglie di plastica vuote e cartacce. Qualcosa che non si vorrebbe vedere e che pure esiste, umilia lo sguardo.
Appena arrivato in questa terra di nessuno scatto delle foto e un ragazzo nero giovanissimo subito s'inalbera, sento che parla con un altro connazionale pieno di rabbia nel corpo. Un altro africano occhialuto, tuta adidas taroccata, ciabatte ai piedi logore mi dice: "vuoi fotografare questa merda? Ma che ci stiamo portando per il culo?" Ha ragione, ho sbagliato. Gli chiedo subito scusa. Poi mi spiegheranno che ogni volta che un giornalista viene qui li individuano, così dopo qualche giorno arrivano i carabinieri a sgomberare. Molti sciacalli della carta stampata approdano in fretta e furia, li fotografano e poi se ne vanno dopo aver fatto lo scoop. Poco dopo saremo fianco a fianco a guardare gli scatti memorizzati dalla mia Pentax e sarò costretto a cancellare quelli che lui reputa giustamente compromettenti. Non vogliono farsi fotografare, a loro non importa esistere oggi. Questo ragazzo sta costruendo una baracca vicino alla casa, con le travi di legno, e si muove ardimentoso tra le zolle. Anche in lontananza, nelle case vicine, stanno tirando su nuovi abitazioni. Lavorano nella calura tirando su le baracche. Vecchie automobili vanno e vengono, tutti si salutano animosamente ogni volta che passano, sembra un villaggio dell'America del Sud, quelli delle piantagioni di tabacco lontani nel tempo, quando la Storia indietreggia è così. Nella casa di Issa ci sono dei ragazzi seduti su sedie bianche di plastica, sono nerissimi e bellissimi, un vestiario per niente dimesso, anzi quasi elegante. Ridono, la mitezza dei loro atteggiamenti è palpabile. Le mosche corrono lungo i piedi, si fanno beffe delle ciabatte di cuoio. Ma anche se vivono come bestie non perdono mai il controllo, li vedi sereni. La casa è piena di crepe. In cucina una donna africana giunonica, capelli nerissimi e faccia allegra sta davanti a due pentoloni dove bolle il riso. La rivendita delle bibite è gestita dalla compagna polacca di Issa, l'unica bianca, pallidissima e imbarazzata, stridente rispetto al contesto, i prezzi sono buoni e io e Passpartout ne approfittiamo per bere delle birre fresche. Siamo a Rignano, a pochi chilometri da Foggia, ma è davvero come se oggi fossimo partiti per un Safari.

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