Karl Popper è stato lapidario. 'La società perfetta è la negazione della società aperta. Tutte le utopie sono società chiuse: chiuse a nuove informazioni, nuovi valori nuove visioni. In ogni utopista vive un totalitario, pronto a sacrificare i diritti della generazione presente per mondi di felicità che non verranno mai. L'utopista è un illuso nella teoria e un violento nella pratica'. Più prudente allora cercare un accordo sul Male, piuttosto che sul Bene - soprattutto dopo il 1989: tentare di ridurlo, invece che eliminarlo. In una specie, così, di teleologia negativa - minata però dal monito di Hannah Arendt: chi sceglie il male minore dimentica rapidamente di avere scelto comunque a favore di un male.
In realtà, tutto è cominciato con Agostino, il primo a non concepire il male come qualcosa di demoniaco, incompatibile opposto del bene, ma come uno stato relativo di assenza del bene: il cui perseguimento può dunque essere riformulato come una progressiva attenuazione del male. E così la logica economica può adesso insinuarsi e insediarsi nel discorso etico: se il male può essere giustificato e legittimato come una fase necessaria lungo la via verso il bene, le varie forme di sofferenza possono essere misurate, paragonate, ponderate - in un'etica utilitaristica, in cui si guarda non al male che in concreto si produce, ma a quello che in ipotesi si previene. Un'economia della violenza in cui ogni calcolo ricomincia da zero: scardinato dal suo contesto di accumulazioni precedenti e implicazioni future: con il risultato che il male si fa accettabile, tollerabile - si naturalizza, non più evento ma paesaggio.
Ma perché leggere un architetto intrufolato nella filosofia? Eyal Weizman è noto per la sua decostruzione critica dello spazio, che è oggi in Israele non più riflesso e immagine, ma strumento del potere - non semplice teatro di guerra, ma ulteriore arma per combatterla: la strategia, secondo Weizman, è la promozione di complessità ambientale e giuridica, fino a una 'geografia irresolvibile' che costringa i palestinesi a trasferirsi altrove. E è tutta qui allora la bellezza, e anche la speranza regalata da questo brevissimo libro: in un architetto che sconfina dalle planimetrie, che indaga il contesto - perché si avverte e teme ingranaggio di un'occupazione ormai civile, più che militare. E a cui ognuno contribuisce con il proprio ruolo, spesso nel rispetto della legalità: non solo e non tanto i soldati, ma i giudici che fortificano le ingiustizie nelle loro sentenze, gli ingegneri che violentano le colline saturandole di insediamenti, i medici che non vedono le ferite dei torturati, gli storici che custodiscono il presente all'ombra di mitici passati biblici. Perché la logica del male minore è la logica del migliorare le cose da dentro: ma limitandosi così ad agire nel discorso dell'oppressore - un sionismo che è ancora, ostinato, l'obiettivo del massimo della terra con il minimo degli arabi: e che strutturando la questione palestinese come scontro tra una affermazione e una negazione, diceva Edward Said, scalpella via ogni margine di coesistenza.
L'attuazione più feroce della logica del male minore è per Weizman il diritto di guerra - delicatamente ribattezzato, non a caso, diritto umanitario. Perché si dimentica che proibire qualcosa significa consentire altro, e che la più decisiva delle battaglie è oggi una battaglia sull'interpretazione, sul fronte impaludato del confine tra il lecito e l'illecito, a causa della natura stessa del diritto internazionale, largamente consuetudinario: è possibile compiere crimini, e però qualificarli non come una violazione ma una evoluzione del sentire e della prassi internazionale - e così autoassolversi retroattivamente. Ma soprattutto, davanti al male assoluto della guerra il diritto mira al male minore di una guerra limitata, combattuta nel rispetto delle regole, come un duello di cavalleria: una guerra che risparmi i civili. Ma lo ius in bello, il diritto relativo alle modalità di conduzione della guerra, è stato divelto dal suo necessario complementare, lo ius ad bellum, che invece disciplina la legittimità o illegittimità di un attacco: l'ultima aggressione contro Gaza è stata di per sé una violazione del diritto internazionale - un crimine contro la pace, prima ancora che un cumulo di crimini di guerra. La ricerca del male minore distrae da un contesto inedito, una sorta di 'collaterale pianificato' - una violenza volutamente sproporzionata e indistinta, sagomata alla lettera sulla definizione di terrorismo: perché l'obiettivo non è né la conquista né lo sterminio, ma semplicemente indurre la popolazione a emarginare Hamas e Hezbollah. E invece, concentrati sui dettagli, lasciamo tutto questo illeso: incapaci di realizzare che una guerra alla fine non è che una guerra, e come scriveva Cesare Pavese, sempre una guerra civile - perché ogni caduto somiglia a chi rimane, e gliene chiede ragione.
La distruzione degli ebrei europei è diventata il crimine rispetto a cui misurare tutto il resto, l'incomparabile che viene sempre comparato, accusa Weizman: qualsiasi cosa, per Israele, è un male minore a fronte del pericolo di un secondo Olocausto. Contro dunque una 'politica immanente' accucciata diligente nei parametri dell'ordine costituito, la proposta riecheggia Galtung - trasformare il conflitto. Occuparsi del contesto, agire sul discorso - tornare a discutere le premesse: il sionismo. Perché sfidarlo, oggi, non significa affatto antisemitismo. Bisogna avere la forza della critica totale, diceva Pierpaolo Pasolini, non è vero che nel tempo comunque si va avanti: chi accetta realistico una evoluzione che non è che regresso e degradazione, non ama davvero chi subisce tale regresso e degradazione, e cioè gli uomini che lo circondano: chi invece protesta con tutta la sua forza - ama. Sono gli Eyal Weizman i più fedeli cittadini di Israele.
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