Latina

Crisi climatica e il rischio di difendere i beni comuni

Rapporto di Global Witness evidenzia drammatico aumento degli attacchi mortali
19 settembre 2021
Giorgio Trucchi

Coperta del rapporto 2020 di Global Witness

"Ultima linea di difesa", il rapporto di Global Witness recentemente pubblicato, lancia un grido d’allarme: lo sfruttamento irresponsabile e l'avidità che aggravano la crisi climatica, stanno incrementando anche la violenza contro le persone che difendono la terra e i beni comuni. 

Secondo la relazione (scarica qui la versione in spagnolo o in inglese), l'anno 2020 è stato il più letale per coloro che tutelano le loro case, la terra, i mezzi di sussistenza e gli ecosistemi. 

Sono 227 gli attivisti, uomini e donne, assassinati nel mondo (nel 2019 furono 212), tre su quattro (165) in America Latina, che si conferma il continente più pericoloso per chi difende i beni comuni. Ciò significa in media oltre 4 persone ammazzate alla settimana.

Il rapporto segnala che gli attivisti ed attiviste hanno anche subito una serie di attacchi non mortali, tra cui: detenzioni, campagne di diffamazione, minacce, pedinamenti, vessazioni, violenza sessuale, procedimenti legali e incarcerazioni. 

America Latina, la più pericolosa 

Colombia (65), Messico (30) e Filippine (29) sono i paesi con più persone attive a tutela della terra e dei beni comuni assassinate, rappresentando complessivamente oltre la metà del totale registrato. 

In Colombia un terzo di questi attacchi sono stati perpetrati contro indigeni e afrodiscendenti, e quasi la metà contro persone dedite all'agricoltura su piccola scala. Questi dati s’inquadrano in un contesto di aggressioni sistematiche a leader sociali ed ex-combattenti firmatari dell'accordo di pace. 

Secondo l'Istituto di studi per lo sviluppo e la pace (Indepaz), dalla firma dell'accordo (2016) sono stati ammazzati 1231 leader (116 nel 2021) e 285 ex-combattenti delle FARC-EP (36 nel 2021).

Il Messico risulta uno dei paesi che ha registrato il maggior aumento di attivisti assassinati rispetto al 2019. Lo sfruttamento forestale è legato a quasi un terzo di questi attacchi, e la metà di tutti gli attacchi ha avuto per bersaglio le comunità indigene. Il 95% dei casi resta nell'impunità. 

Brasile (20), Honduras (17), Repubblica del Congo (15) e Guatemala (13) sono i paesi con la maggiore quantità assoluta di attivisti e attiviste assassinate dopo Colombia, Messico e Filippine. Tuttavia, se calcoliamo il numero di omicidi pro capite, Nicaragua (12), Honduras, Colombia e Guatemala sono in testa alla lista. 

Oltre un terzo delle aggressioni mortali ha a che fare con lo sfruttamento delle risorse (forestali, minerarie e agroindustriali su vasta scala), progetti idroelettrici e altre infrastrutture. Lo sfruttamento forestale è il settore col maggior numero di assassinii (23), seguito dai settori agroindustriale e minerario (17).  Questi ultimi sono collegati a oltre il 30% di tutti gli omicidi che l'organizzazione britannica ha documentato a partire dal 2015. 

Un altro dato molto preoccupante è che, ancora una volta, i popoli indigeni sono le vittime principali. Malgrado rappresentino appena il 5% della popolazione mondiale, più di un terzo degli attacchi mortali sono stati nei loro confronti, specialmente in Messico, America Centrale, Sud America e Filippine. 

Dei 227 assassinii di attivisti registrati da Global Witness, 226 sono avvenuti nel Sud Globale. Nel periodo trascorso da quando la suddetta organizzazione cominciò a raccogliere i dati, meno dell’1% di tutti gli attacchi mortali documentati si riferiscono al Nord Globale. 

La vera dimensione del problema 

Global Witness segnala nel suo resoconto che tutti questi dati non riflettono la vera dimensione del problema, poiché in alcuni paesi gli attacchi sono difficili da valutare quantitativamente. 

In questo senso, le restrizioni alla libertà di stampa, come l'assenza di registri indipendenti relativi alle aggressioni contro le persone difensore, conducono a una sottostima. Tutto ciò - assicura Global Witness - fa sì che le cifre pubblicate nel resoconto riflettano in realtà una sottovalutazione e che la vera dimensione del problema sia molto più ampia. 

Imprese responsabili 

“Molte imprese sono coinvolte in un modello economico estrattivista la cui schiacciante priorità sono i profitti, a discapito dei diritti umani e dell'ambiente. Questo potere corporativo irresponsabile non solo è tra i principali responsabili della crisi climatica, ma ha anche reso sistematico l'assassinio di coloro che difendono l’ambiente e i beni comuni”, segnala la relazione. 

“In molti paesi ricchi di risorse naturali e biodiversità cruciale per il clima, le imprese operano nella quasi totale impunità. In un contesto in cui l'equilibrio di potere è sbilanciato a favore delle corporazioni, è raro che qualcuno venga arrestato o portato davanti alla giustizia per aver ammazzato degli attivisti o attiviste”, aggiunge. 

E quando ciò accade, sono di solito gli autori materiali del crimine a finire sul banco degli imputati, non i mandanti e autori intellettuali che, nella stragrande maggioranza dei casi, restano impuniti. 

“Finché si continuerà ad accaparrare più terre e a tagliare più boschi, dando priorità ai profitti a breve termine, si aggraveranno sia la crisi climatica sia gli attacchi contro chi difende l’ambiente e i beni comuni. 

I governi possono invertire la rotta della crisi climatica e preservare i diritti umani proteggendo la società civile e approvando leggi, affinché le corporazioni rendano conto delle loro azioni e guadagni”, conclude Global Witness. 

 

Fonte:  LINyM  (spagnolo)

Note: Traduzione Adelina Bottero

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