Latina

Razzismo e discriminazione sociale divenute politiche di stato

Perù: il governo autoritario di Dina Boluarte reprime

Gran parte dei massacri dei militari sono avvenuti nelle regioni quechua di Apurimac e Ayacucho
29 dicembre 2022
David Lifodi

Crisi politica in Perù

Si fa ogni giorno più incerta la situazione in Perù dove, all’autogolpe del 7 dicembre scorso da parte di Pedro Castillo, tramite la stessa strategia utilizzata da Alberto “el Chino” Fujimori nel 1993, è seguita la presa del potere di Dina Boluarte, già sua vice, che ha dato vita ad un governo dai chiari tratti autoritari.

Tuttavia, la crisi potrebbe ulteriormente peggiorare se saranno confermate le voci secondo le quali la donna abbandonerebbe il paese per lasciare il Congresso nelle mani del militare José Williams Zapata, già alla guida delle Forze Armate, esponente del partito di destra Avanza Pais (che nel 2021 aveva appoggiato la figlia di Alberto Fujimori, Keiko, contro Castillo) e responsabile, nell’aprile 1997, dell’operazione che portò si alla liberazione dei prigionieri sequestrati dal Movimiento Revolucionario Túpac Amaru, ma si rese responsabile anche delle esecuzioni extragiudiziali, del tutto gratuite e ingiustificate, del manipolo di tupamaros guidati dal comandante Nestor Cerpa Cartolini che avevano già dichiarato la loro resa.

In una bella intervista rilasciata a Pressenza, Raphael Hoetmer, analista politico e membro del Grupo de Trabajo sobre Alternativas al Desarrollo de América Latina y Caribe, ha sottolineato che “c’è un’estrema destra che sta tentando di cacciare Castillo dal potere da prima che iniziasse a governare, parlando di frode. Un’estrema destra molto conservatrice, razzista e autoritaria, che ha come leader López-Aliaga, il nuovo sindaco di Lima, e che sta cercando di prendere il potere…. E altri esponenti della destra impresariale che non hanno simpatia per Castillo, ma che sono guidati principalmente dai loro interessi economici”.

Al tempo stesso, non si può far a a meno di evidenziare che Castillo, promuovendo un autogolpe, non solo ha messo le destre nella miglior condizione possibile per eliminarlo dalla scena politica in maniera più o meno legale, ma, durante il suo breve mandato, ha fatto ben poco per tutelare i diritti degli indigeni e dei poveri, nonostante in molti lo avessero descritto, un po’ troppo frettolosamente, come guida di un governo dai tratti popolari. A ricordarlo, in una lunga intervista pubblicata su Rebelión Ricardo Napurí, ex deputato costituente e senatore peruviano.

«Que se vayan todos» continua ad essere lo slogan che risuona più spesso durante le proteste di piazza perché accomuna tutti i manifestanti di fronte alle decine di morti provocati dalla repressione scatenata da Dina Boularte, purtroppo non una novità in un paese ridotto allo stremo da sei presidenti succedutisi in pochissimi anni che non hanno mai messo in discussione né il liberismo selvaggio, né la corruzione delle istituzioni, ma hanno legittimato la violenza delle Forze Armate e adottato il razzismo e la discriminazione sociale come politiche di stato.

Se José Williams Zapata sostituirà Dina Boularte (la quale ha già rivendicato con orgoglio l’assenza alla cerimonia di insediamento di Lula prevista per il 1° gennaio), nel paese aumenterà la polarizzazione poiché si tratta di un militare già condannato per la violazione dei diritti umani. La convocazione delle elezioni soltanto per l’aprile 2024 rappresenta un’ulteriore provocazione nei confronti della popolazione. Quale legittimità possono avere Zapata o Boluarte, se non quella di mantenere lo status quo dell’oligarchia continuando a governare tramite la politica del terrore per evitare la crescita di una ribellione sociale che individua il problema principale nello stato?

È significativo, a questo proposito, l’appello di “Lucha Indígena”, che chiama alla mobilitazione sociale contro il potere economico e invita le organizzazioni popolari a resistere contro il neofascismo di Boluarte e Zapata all’insegna della digna rabia promuovendo assemblee permanenti in tutto il paese che non abbiano il fine di trovare l’ennesimo sostituito agli inaffidabili politici attuali, bensì un’auto organizzazione autonoma e indipendente.

Per le fasce sociali più povere del paese, che sono scese in strada dal 7 dicembre scorso, lo Stato non esiste, ma è percepito come un’istituzione votata solo a fare gli interessi dei los de abajo.

Lucha Indígena tratteggia un paragone, amaramente reale, con il Cile, dove una lunga mobilitazione popolare si è conclusa con un’Assemblea Costituente in cui, alla fine, hanno prevalso le logiche e gli interessi dell’oligarchia e anche l’attuale governo cileno non si è fatto scrupoli nell’inviare la polizia contro le proteste di piazza, ma, soprattutto, in territorio mapuche. In Perù, a pagare la repressione di Boluarte, sono stati, in particolare, gli indigeni. Gran parte dei massacri dei militari sono avvenuti nelle regioni quechua di Apurimac e Ayacucho.

A sostenere la narrazione repressiva hanno pensato il latifondo mediatico del gruppo El Comercio e la Confederación Nacional de Instituciones Empresariales Privadas, da sempre a tutela delle elites del paese e che si sono adoperate, inizialmente, per fare terra bruciata intorno a Pedro Castillo rafforzando la stessa propaganda razzista già utilizzata da personaggi come Bolsonaro in Brasile e Kast in Cile per poi sfruttare gli errori e le contraddizioni dell’ex maestro rurale allo scopo di sostenere un Congresso adesso ad ampia maggioranza fujmorista.


Per il Perù, purtroppo, la via d’uscita sembra essere, ameno al momento, un miraggio.

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