Il 29 dicembre 1996 furono siglati gli accordi di pace tra Stato e guerriglia

Guatemala: la pace resta sulla carta

Da allora è cambiato poco o nulla: gli indigeni continuano ad essere invisibili, l’impunità avanza e le voci di golpe denunciate negli ultimi mesi dal presidente socialdemocratico Bernardo Arévalo fanno capire che a comandare è ancora l’oligarchia
29 dicembre 2025
David Lifodi

Guatemala: la pace resta sulla carta

A due mesi esatti dal ventinovesimo anniversario degli accordi di pace che, il 29 dicembre 1996, sancirono la fine di un conflitto armato protrattosi per oltre trent’anni e che aveva insanguinato il Guatemala, l’attuale presidente Bernardo Arévalo ha attaccato apertamente il giudice Fredy Orellana e il magistrato Consuelo Porres definendoli “nemici del popolo” con l’accusa di voler creare le condizioni favorevoli ad un colpo di stato nel paese.

Del resto, erano stati proprio Orellana e Porres ad adoperarsi per eliminare del tutto dalla scena politica il Movimiento Semilla, il partito di Arévalo di orientamento progressista che, già durante la campagna per le presidenziali del 2023, era stato preso di mira allo scopo di impedire la sua partecipazione alle elezioni. Arévalo era divenuto presidente il 20 agosto 2023 e si era insediato il 14 gennaio 2024.

In questo contesto non si può far a meno di chiedersi quale sia stato, quel 29 dicembre 1996, il senso della firma degli accordi pace tra lo stato presieduto allora dal conservatore Alvaro Arzú (vincitore nelle presidenziali di dieci mesi prima, per soli 35.000 voti di scarto, su Alfonso Portillo, esponente dell’estrema destra e delfino del sanguinario dittatore Rios Montt) e dalla guerriglia guatemalteca a seguito del conflitto armato interno caratterizzato, soprattutto negli anni Ottanta del secolo scorso, dal genocidio degli indigeni maya, quando più di 400 villaggi furono rasi al suolo e fatti sparire dalle carte geografiche.

In nome della Dottrina della Sicurezza Nazionale Usa, all’insegna dell’anticomunismo, prima vi fu il colpo di stato del 1954, che rovesciò il governo democraticamente eletto di Jacobo Arbenz e, successivamente, a partire in particolare dal 1966, fu scatenata una vera e propria caccia agli indigeni maya, espulsi dalle loro terre e poi uccisi senza pietà con l’accusa di fiancheggiare le organizzazioni guerrigliere in lotta per un paese dove, un giorno, tutti avrebbero potuto vivere senza disuguaglianze sociali e distinzioni di razza. In trent’anni furono assassinate circa 200.000 persone e almeno 50.000 i desaparecidos.

Dagli accordi di pace, purtroppo, è cambiato poco. In seno alla società guatemalteca continuano a prevalere la povertà, la corruzione, ma soprattutto l’esclusione sociale degli indigeni, nonostante rappresentino la maggioranza del paese, spesso esposti alle violenze delle squadracce a cui ricorrono le multinazionali per saccheggiare il loro territorio. Non è un caso che il Guatemala sia uno dei paesi del Centroamerica da cui maggiore è il numero di migranti in cerca di fortuna verso gli Stati Uniti.

All’interno del paese le relazioni etniche e di genere continuano ad essere marcatamente verticali, frutto di un conflitto armato imposto da Washington per impedire che il Guatemala seguisse le orme della Cuba rivoluzionaria e del Nicaragua sandinista e divenisse, al tempo stesso, un laboratorio di contrainsurgencia. La militarizzazione dell’intera società guatemalteca rese normali atrocità quali la violenza sessuale su gran parte delle donne maya, la tortura, il furto e l’uccisione di bambini all’insegna della cosiddetta “pedagogia del terrore” utilizzata per mantenere il paese sottomesso.

L’utilizzo delle Patrullas de Autodefensas Civil, promosso dagli Usa per delegare ai loro sudditi in loco il lavoro sporco, fedeli al motto “Si la guerrilla se mueve como pez en el agua en el campesinado, hay que quitarle el agua al pez”, ha finito, di fatto, per condizionare gli accordi di pace tra il governo e l’Unidad Revolucionaria Nacional Guatemalteca, rimasti in gran parte lettera morta perché non sono riusciti ad eliminare le cause strutturali della violenza. Formalmente il Guatemala vive in una fragile democrazia (soprattutto adesso sotto la presidenza di Bernardo Arévalo (figlio di Juan José Arévalo, alla guida del paese tra il 1945 e il 1951 e protagonista della rivoluzione del 1944, di ispirazione socialdemocratica, da cui trasse spunto lo stesso Arbenz), ma la società guatemalteca, di fatto, non vive in pace.

Ciò che manca, al giorno d’oggi, è una vera riconciliazione che cambi la realtà socioeconomica di un paese dove le ingiustizie e le disuguaglianze sono ben lontane dall’essere risolte. Da un lato vi sono poche centinaia di famiglie ricchissime, dall’altra quasi un intero paese che ha visto familiari coinvolti nel conflitto armato. Oltre la metà della popolazione raggiunge, con difficoltà, il salario minimo, le rivendicazioni degli indigeni maya continuano ad essere ignorate, il campesinado rimane escluso dalla vita politica, come dimostra l’esclusione, sempre per le presidenziali 2023, di Thelma Cabrera e del suo Movimiento de Liberación de los Pueblos, ed una cultura di pace è ben lontana dall’affermarsi. A testimoniarlo, prima dell’arrivo di Arévalo alla presidenza del paese, la guerra scatenata dal cosiddetto Pacto de Corruptos, ancora assai potente e influente contro la Comisión Internacional contra la Impunidad en Guatemala.

Gli accordi di pace avrebbero dovuto garantire la la pace come strumento fondamentale per metter fine al saccheggio delle risorse naturali del paese, fare piazza pulita dei Cuerpos Ilegales y Aparatos Clandestinos de Seguridad, riciclatisi invece nelle forze di polizia, nella criminalità organizzata e nel narcotraffico, impedire un nuovo processo di militarizzazione della società che avesse come protagonisti le transnazionali e l’oligarchia locale, ed evitare il processo di involuzione democratica nel quale sta finendo per essere inghiottito il paese.

Il 24 aprile 1998 fu presentato il rapporto Nunca Más, frutto in particolare del lavoro della Chiesa Cattolica e del vescovo guatemalteco Juan Gerardi in cui si denunciavano il massacro degli indigeni maya, i crimini della dittatura e le responsabilità dello stato. Due giorni dopo Gerardi fu assassinato: un segnale inequivocabile dell’oligarchia per far capire chi era a comandare ancora nel paese, con buona pace della ratifica dei negoziati e della transizione democratica.

Oggi, a 29 anni da quegli accordi, i tentativi golpisti ai danni di un presidente regolarmente eletto fanno capire che non è cambiato nulla.

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