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Perchè ci sembrano tutti criminali?

L'approccio televisivo all'immigrazione
20 febbraio 2004
Alessandro Fiorini

Nella società occidentale moderna, la televisione svolge un ruolo
fondamentale, in quanto non si limita ad attirare l'attenzione del pubblico
su certi argomenti piuttosto che su altri, ma ne costruisce una
rappresentazione che rischia, spesso, di essere confusa con la realtà.
Ciò è tanto più vero nei confronti di quelle persone che non hanno
conoscenze personali o esperienze dirette da confrontare (ed eventualmente
contrapporre) con quanto affermato dalla televisione e che, dunque, hanno a
propria disposizione unicamente quella verità, una verità, per così dire,
mediata.

Un "insieme" di individui che, forse più di altri, soffre delle
caratteristiche della televisione, è quello degli "immigrati". Infatti,
proprio per questo loro essere costantemente considerati una categoria
separata dal resto della popolazione di un paese, essi hanno la sfortuna di
accedere alla cronaca in quanto "gruppo unico".
Nessuno si sognerebbe mai di pensare che tutti gli "italiani" sono ladri o
assassini per il fatto criminale commesso dal singolo appartenente al
gruppo etnico maggioritario: le conoscenze che abbiamo e gli stereotipi che
ci tramandiamo da secoli (più una robusta dose di autocompiacimento) ci
portano, al massimo, a banalizzazioni quali "popolo di musicisti" o di
"navigatori", attributi tutto sommato simpatici e innocui.
Infrangere le regole è diverso, non è la caratteristica di un intero
popolo, chi lo fa rappresenta sempre l'eccezione; colui che si pone al di
fuori della norma (giuridica o sociale) è, a seconda delle convinzioni
personali di ognuno e dell'ideologia al potere, la pecora smarrita da
riportare nel gregge ovvero la mela marcia da estirpare.

Di chi "viene da fuori", invece, non sappiamo nulla; così, poichè,
generalmente, sono scarse le opportunità di conoscere usanze, tradizioni e
storia di popoli ritenuti lontani (anche perchè raramente i mass media se
ne occupano), i momenti in cui si sente parlare di immigrati sono,
perlopiù, collegati a situazioni di contrasto con le "nostre" norme.
Dunque,il momento dell'infrazione che, nella rappresentazione degli
italiani, è l'eccezione alla regola, per gli "stranieri" costituisce,
invece, la normalità.

La televisione, che contribuisce notevolmente alla riproduzione dei
pregiudizi intorno ai migranti, facendo accedere le minoranze al suo spazio
soltanto in occasioni di rottura con la "società di accoglienza", potrebbe
svolgere, invece, un ruolo utilissimo se, anzichè strizzare l'occhio ai
preconcetti dell'uomo comune, vi si opponesse.
Se i notiziari televisivi non contribuissero quotidianamente alla
diffusione della "paura dell'uomo nero" (si ricordi quanto documentato, con
spietatezza ed ironia, da Michael Moore nel suo film-documentario "Bowling
a Columbine") o, quantomeno, si sentissero in dovere di presentare altri
aspetti delle minoranze da contrapporre alla cronaca (nel rispetto di una
sensata par condicio), evitando la sistematica demonizzazone dello
straniero, ecco che allora si potrebbe cercare di innescare un circolo
virtuoso che, partendo da un'informazione meno allarmistica, giungesse ad
un minor panico nei confronti dell'immigrazione e, quindi, ad una minor
richiesta di provvedimenti restrittivi.

Tutti, a partire dai giornalisti, dovrebbero sentirsi in dovere, sulla base
di una corretta educazione/formazione professionale ricevuta, di spingere
verso un ribaltamento dell'approccio all'immigrazione, che permetta di
assorbire senza eccessivi "isterismi" anche sbarchi di migliaia di uomini e
donne in cerca di un lavoro all'interno di un paese che, a dispetto di un
tasso di disoccupazione preoccupante in alcune sue zone, offre anche grandi
opportunità lavorative a chi non sia immediatamente etichettato come
"clandestino", e per il quale il convento passa le sole possibilità del
lavoro nero o del crimine.

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