Elezioni dei rappresentanti degli immigrati a Roma
Ieri, domenica 28 marzo 2004, a Roma, è avvenuto qualcosa che, da semplice curiosità o notizia di costume, potrebbe essere ricordato, negli anni a venire, come un momento fondamentale nel processo di integrazione delle minoranze etniche.
E’ passato nel quasi totale silenzio dei grandi organi di informazione, molto più attenti alle rivincite della sinistra nelle elezioni amministrative francesi o alle dichiarazioni di Berlusconi sul fatto che gli italiani, a suo dire, lavorano poco.
Eppure, si è trattato di un primo, importante, segnale di rinnovamento in un campo discriminante per una società che voglia dirsi, effettivamente e non solo a parole, democratica: il riconoscimento del diritto di voto a tutti coloro che vi risiedono, senza distinzioni di provenienza geografica, colore della pelle, credenze religiose,....
Sembrerebbe un concetto scontato, eppure non lo è. Il diritto di voto è sempre stato (ed è tuttora, intendiamoci) collegato al requisito della cittadinanza italiana o (in caso di elezioni europee o amministrative) di un paese facente parte dell’Unione ed è risaputo che le condizioni per ottenerla da parte di un cittadino extracomunitario sono terribilmente dure, a meno che non ci si faccia furbi, ricorrendo a ben note scorciatoie.
Ieri, a Roma, invece, abbiamo assistito a qualcosa di diverso: dopo essersi iscritti nei mesi scorsi alle liste elettorali, più di trentamila immigrati originari di tutto il mondo si sono recati alle urne per eleggere i propri rappresentanti nel Consiglio comunale della capitale. Certo, si trattava dell’esercizio di un diritto “monco”, in quanto gli eletti (4, uno per ciascuna delle aree di provenienza: America, Asia-Oceania, Africa ed Europa) potranno sì partecipare alle sedute consiliari e ai lavori delle Commissioni, ma solo con diritto di avanzare proposte, non anche di votare.
Tuttavia, questa volta, è preferibile guardare al bicchiere mezzo pieno perché siamo di fronte ad uno dei diritti in assoluto più importanti e, proprio per questo, più a lungo inseguiti, fino a non troppi decenni fa ancora un miraggio per l’intero universo femminile e le classi proletarie: il diritto, sacrosanto in democrazia, ad esprimere la propria opinione e concorrere, assieme alle opinioni altrui, alla formazione degli organi decisori.
Della concessione del diritto di voto agli immigrati, quantomeno per le elezioni amministrative, se ne era parlato mesi addietro, e la proposta era venuta, chissà perché, dall’area politica della destra. Oggi torniamo sull’argomento e, questa volta, non per commentare l’ennesima promessa a vuoto, ma per affermare che ciò che è avvenuto ieri a Roma, pur con i suoi limiti, può davvero, anche per il valore simbolico che ricopre, avviare una svolta decisiva.
Forse, infatti, l’(auspicabile) ingresso delle minoranze etniche nell’elettorato attivo e passivo porterà i partiti a doversi realmente confrontare con i problemi quotidiani di queste persone, fino ad oggi escluse da qualunque dibattito che non abbia ad oggetto sbarchi clandestini o episodi di criminalità. Infatti, è facile credere che, nelle condizioni attuali, le promesse e le prese di posizione degli attori politici a fianco degli immigrati siano più opinioni “di facciata”, tese a raccogliere simpatie presso l’elettorato più sensibile a queste tematiche,che non espressione di un reale interesse per le sorti di chi, alla resa dei conti, non porta voti (anzi, più spesso accade che ne faccia perdere).
Dall’eventuale introduzione di una legge nazionale che attribuisse l’elettorato attivo e passivo agli immigrati residenti in Italia, poi, non deriverebbero solo vantaggi per l’ipotetico nuovo corpo elettorale: aprire le urne agli immigrati sarebbe anche un forte segnale di accoglienza, un modo di fare capire che non siamo solo interessati alle loro braccia, che li consideriamo parte attiva della popolazione italiana non solo durante le ore lavorative.
Del resto, che vantaggi potrà mai ricavare una società dall’esclusione di una quota (in costante crescita) della sua popolazione residente dalla possibilità di essere rappresentata a livello politico?
Non è plausibile che l'attuale atteggiamento bifronte (“abbiamo bisogno di voi per lavorare nelle nostre fabbriche, ma non vogliamo che partecipiate alla vita pubblica della nostra comunità”) possa rappresentare un ostacolo alla tanto sventolata integrazione e, nei casi più gravi, creare nell’immigrato sentimenti di antipatia nei confronti della società in cui vive e lavora?
Chi è in regola con le leggi sul soggiorno soffre di tutti i doveri connessi all’essere un cittadino ma non gode di quello che è, probabilmente, il diritto più caratterizzante di questa qualifica.
Solo quando il diritto di voto sarà pienamente riconosciuto, potremo parlare correttamente di partecipazione alla vita pubblica da parte delle minoranze etniche; quando ne parliamo oggi, intendiamo, in realtà, un’inclusione subordinata, quando non, ormai nel terzo millennio e all’interno di una società che vuole essere e potersi dire avanzata, civile e democratica, forme di vero e proprio sfruttamento.
Alessandro Fiorini
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