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Abbiamo perso un grande amico

E' morto il presidente dell'Arci Tom Benetollo

In coda riportiamo un suo articolo dello scorso anno sulla guerra in Iraq
20 giugno 2004
Riccardo Bonacina

Il presidente dell'Arci, Tom Benetollo e' morto questa mattina a Roma. Aveva 53 anni, e' deceduto intorno alle 5 al Policlinico Umberto I, a causa di un aneurisma dell'aorta. Aveva accusato il malore ieri mattina, nel corso di un dibattito a Roma sul dopo voto. Inizialmente, Benetollo e' stato ricoverato all'ospedale S. Giacomo, il piu' vicino alla sala in cui si teneva la riunione.

Solo in un secondo momento, vista la gravita' della situazione, e' stato trasferito al Policlinico romano. Il presidente dell'Arci e' stato sottoposto ad un lungo e complicato intervento che non e' riuscito a superare.

Tom, aveva contribuito sin dalla nascita alla nostra avventura editoriale. Con lui l'Arci entrò subito a far parte parte del Comitato editoriale di Vita, nel 2001 entrò anche a far parte della compagine azionaria insieme ad altre 20 associazioni italiane.

Per noi Tom è stato in questi anni un punto di riferimento libero, capace di dibattere e di confrontarsi senza gabbie ideologiche e sempre attento a cogliere i segni di novità e di fermento e ad indicarceli.
L'ultimo saluto a Tom sarà martedì a Roma.

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Altre informazioni su Tom Benetollo
http://www.rai.it/news/articolornews24/0,9219,4052843,00.html
http://www.adnkronos.com/Politica/2004/Settimana25da14-06a20-06/arci_200604.html

Note: Finalmente, il No alla guerra in Iraq

di Tom Benetollo

del 3/1/2003 su http://www.unita.it

Fino a poco tempo fa appariva incerto. Ad alcuni, impossibile. Ma oggi è vero. Finalmente Ds e Margherita hanno preso, in modo esplicito e formale - anche se unicamente per bocca dei leaders, e non degli organismi - una decisione di grandissimo valore politico e ideale: il No alla guerra in Iraq. È un No - è stato ripetuto già troppe volte - a questa specifica guerra, per i contenuti che verrebbe ad assumere, per gli effetti devastanti che produrrebbe. È una posizione che vuole dimostrare di essere stretta ai fatti. Questo va benissimo, per oggi. E poiché le urgenze premono sul «fare», lasciamo a un altroquando le considerazioni sul tempo sprecato; su contraddizioni indimenticabili; su certe ambiguità legate a ipotetiche posizioni dell'Onu; sull'aria malmostosa con cui alcuni vogliono ribadire la distanza dai movimenti per la pace.
Molte cose hanno reso possibile questo nuovo posizionamento. Sono stati i grandi fatti del mondo, percepiti nella loro cruda realtà. Ingiustizia, guerra, fame, oppressioni, degrado ambientale: un crescente allarme dopo anni di dispotico agire di una mano, di diverse mani, sempre meno invisibili.
Sono state le spropositate risposte ai problemi planetari, come emergono dalla vertiginosa dottrina sulla sicurezza di Bush - per cui il mondo va sulla via della guerra di tutti contro tutti, calpestando trattati, diritti, stato di diritto.
Sono stati i movimenti e le forze che internazionalmente - Usa compresi - hanno aperto una strada nuova. L'hanno aperta non solo a se stessi, ai propri sacri egoismi, ma alle forze di matrice democratica e progressista che si posizionavano diversamente, anche in un recente passato. Le aree innovative dei partiti hanno potuto meglio operare per il cambiamento, conquistando posizioni.
Certo, la costruzione di una effettiva strategia di pace è ben altra cosa, rispetto a un convenire su una specifica questione. Ma se è vero che il tema della guerra all'Iraq assume un rilievo tale da toccare perfino lo spirito del tempo; se è vero che gli eventi dei prossimi mesi possono influenzare il ciclo che si apre per il mondo intero, allora questo comune No alla guerra può essere e deve diventare la grande promessa di una storia dalla quale sia cacciata la guerra. Insomma, la grande occasione di un cambiamento radicale, di orizzonte. Guardiamoci dunque dal banalizzare questo congiunturale No. Al contrario, rafforziamolo culturalmente, mettiamoci tutti i pilastri necessari, con nuovi e più forti argomenti. Facciamolo diventare una parte del programma di pace di un intero campo di forze. Agiamo per farlo crescere in una campagna unitaria, in tutto il paese. E socializziamolo a Porto Alegre, dove tra il 23 e il 30 gennaio si riunirà gran parte del popolo della pace del mondo intero, ad abbracciare Lula e le speranze che il Brasile porta a tutti noi. E parlando di programma nuovo per le forze del cambiamento: può tale programma prescindere dal No alla guerra, e dalle proposte che emergono, aprendo prospettive ancora da esplorare?
C'è una scadenza più nostra, europea. Al Forum sociale europeo di Firenze è stata lanciata la giornata continentale contro la guerra: il 15 febbraio, da Mosca a Lisbona, in venti capitali, si svolgeranno manifestazioni. In alcuni luoghi saranno probabilmente dimostrazioni - coraggiose - di testimonianza: penso a Skopje. In altri, il messaggio potrebbe essere fortemente politico: da Londra a Berlino, da Madrid ad Atene, passando per Parigi e Vienna.
E l'Italia? Ci sono tutte le condizioni per una manifestazione che veda convergere i movimenti che hanno segnato gli ultimi tempi: le aree dei Girotondi, dei Sindacati, del Forum sociale europeo. E tanti altri. Pensiamo ad esempio agli studenti. Come si muoveranno i partiti del centrosinistra e della sinistra? Possiamo puntare a una manifestazione per la pace che rimanga nella storia della Repubblica? Possiamo proporci davvero l'obiettivo di tenere l'Italia fuori della guerra - influenzando così anche l'atteggiamento di altri paesi europei, proprio ora che la Germania sembra tentennare? Possiamo anzi porre all'intera Unione Europea la questione-chiave di una scelta strategica di pace, come quella contenuta nell'articolo 11 della Costituzione italiana?
All'Arci, crediamo di sì. E vediamo nuove possibilità di incidere: nello stesso schieramento del centrodestra, sono ormai decine i parlamentari che cominciano a dimostrare un po' di libero pensiero, facendo emergere dubbi e contrarietà alla guerra. Finalmente.
È che la grande parte dell'opinione pubblica si mostra contraria a questa guerra. È che, stavolta, appare quanto mai difficile che anche la più orchestrata campagna di manipolazione della verità possa fare breccia in quella che è diventata una convinzione diffusa tra i cittadini - cioè che questa guerra non si deve fare, è sbagliata, porterà gravi danni.
Il movimento per la pace sta entrando in un campo, tutto politico, in cui può ottenere un risultato concreto, di portata storica: tenere fuori l'Italia dalla guerra, dando un contributo originale ed effettivo. Una guerra in cui peraltro l'Italia è fortemente spinta a partecipare, dalla forza d'attrazione delle relazioni internazionali, e dalla propensione del Governo, pronto con superficialità ad affidarsi a Bush, quanto privo di autonomia nella considerazione, perfino, degli interessi del Paese.
I pacifisti italiani che in questi giorni sono attivi in Palestina ed Israele sono là a ricordarci uno dei luoghi in cui potrebbe più duramente riversarsi la devastante ondata geopolitica della guerra contro l'Iraq. Anche là, urge una radicale alternativa. Una ragione in più per non sentire questa nostra lotta per la pace come un tirarsi fuori, con opportunismo o cinismo. Tanto impegno, dimostrato anche nelle condizioni più difficili, non nasce certo dalla visione che può avere uno struzzo. No, nasce da una ricerca. Vuole contribuire alla costruzione di nuove strategie di pace e di giustizia. Occorre un dibattito nuovo, che spezzi le diatribe interessate e generalgeneriche sull'uso o meno della forza, e si spinga su un terreno nuovo: di contenuto, di finalità, di scenario. E di istituzioni internazionali. Arrendersi al presente, è il modo peggiore di costruire il futuro. Ma ora, il lavoro passa attraverso una prova difficile: spezzare insieme, nella giornata del 15 febbraio, quella linea nera, tutt'altro che sottile, che ci imprigiona nella guerra.


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