PAX CHRISTI NEWS – Speciale “Ricucire la Pace: viaggio di conoscenza in Israele e Palestina”
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"Mi chiedo se la forza del racconto non nasca nell'uomo da millenni di cammino, se il narrare (insieme al cantare) non nasca dall'andare. E se il nostro mondo abbia disimparato a raccontare semplicemente perché non viaggia più". (Paolo Rumiz, E' Oriente)
Siamo in viaggio per la Cisgiordania. In questi giorni gli occhi di tutti sono puntati sulla Striscia di Gaza, dove è in atto lo smantellamento degli insediamenti israeliani ed è altissima la tensione tra coloni e soldati. E' qui che i media di tutto il mondo stanno mandando i propri inviati. Noi, però, stiamo andando dalla parte opposta. Dove i coloni sono 250mila (contro gli 8.500 della Striscia di Gaza) e da dove il governo di Sharon assicura che non evacuerà gli insediamenti (ad eccezione di quattro siti nel Nord, dove abitano circa 700 persone) e anzi programma di fondarne di nuovi. Dove gli scontri tra esercito israeliano e popolazione palestinese sono stati violenti e continui da cinque anni a questa parte. Dove dal 2002 il governo di Tel Aviv sta costruendo un muro che separa i territori (palestinesi) sotto il proprio controllo da quelli sotto il controllo dell'Anp, per annettere allo Stato di Israele altra terra palestinese. Il muro, dichiarato illegale dalla Corte internazionale di giustizia dell'Aja nel 2004, taglia in due villaggi e famiglie, separa gli studenti dalle scuole, le abitazioni dai luoghi di approvvigionamento.
I giornali li leggete tutti, immaginiamo. Perciò non vi racconteremo non vogliamo raccontarvi - i fatti "notiziabili". Quelli li conoscete. Né abbiamo la presunzione (ci mancherebbe) di aggiungere alcunché al dibattito decennale sulla questione palestinese. O di dire la nostra sul conflitto. Preferiamo scoprire e raccontarvi le storie delle persone che determinano e subiscono quei fatti, perché "è la gente che fa la storia". Almeno così la vediamo noi. Andiamo a sentire cosa ci raccontano le donne, gli uomini e i bambini che abitano a Gerusalemme Est, nei campi profughi di Deisheh, nei villaggi attorno a Betlemme ed Hebron, a Qalqilya, Tulkarem e Nablus. Parleremo con le persone (palestinesi e israeliani) che lavorano per una soluzione politica e pacifica del conflitto: intellettuali, politici, giornalisti, avvocati, medici, religiosi, insegnanti. Andremo a Ramallah, sede dell'Autorità nazionale palestinese, incontreremo associazioni di donne, volontari di Ong per la difesa dei prigionieri e dei diritti umani.visiteremo il kibbuz di Fasutah, al confine con il Libano, dove vivono assieme ragazzi palestinesi e israeliani.
Senza pretese, senza spocchia, senza voyeurismo. Andiamo,guardiamo,ascoltiamo, raccontiamo. Con un proposito, quello che ci suggerisce Kapuscinsky, nelle pagine di
Lapidarium: “bisogna capire la dignità degli altri, accettarli e condividere le loro difficoltà. L'essenziale è il rispetto per le persone di cui si scrive”.
Alfredo, Andrea, Diego, Francesca, Giovanna, Giulia, Giulia C., Laura, Lorenzo, Martina, Matteo, Nandino, Paolo
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Giovedì 18 agosto 2005 - La via della differenza
La strada che unisce Tel Aviv e Gerusalemme è lunga appena 65 chilometri. E' una strada moderna, scorrevole, veloce, che si percorre in meno di un'ora. Ma solo se si è a bordo di un mezzo con la targa gialla, come il pullmann su cui viaggiamo. Se per caso la tua auto ha, mettiamo, una targa bianca con i numeri verdi, non puoi neppure imboccarla. La 44 è chiusa ai palestinesi sebbene sia stata costruita tagliando in due il loro territorio, distruggendo molte coltivazioni di ulivi, la principale fonte di reddito per migliaia di famiglie palestinesi. Il lungo serpentone di asfalto ha inghiottito uliveti e case, separando gli abitanti dalle loro attività economiche. Lungo la strada la nostra guida, F.J. (un monaco greco-cattolico dal passato anarchico) ci mostra gli insediamenti israeliani sorti in territorio palestinese e ci insegna a distinguerli dai villaggi arabi, con le loro case fatiscenti. Molti dei mezzi che percorrono la 44 assieme a noi sventolano striscioline di stoffa color arancione, per esprimere solidarietà ai coloni della Striscia di Gaza che l'esercito israeliano ha cominciato a evacuare lunedì scorso. Televisioni e giornali riportano notizie e immagini del dramma dei coloni, costretti a lasciare le loro case e le loro attività economiche. "La messa in scena di questi giorni è disgustosa – ci dice J.M., rabbino impegnato sul fronte dei diritti umani – “Si fa tanto parlare della sofferenza di 8.500 coloni, ma nessuno pensa al milione e mezzo di palestinesi che vive nella Striscia di Gaza, o ai quasi quattro milioni di rifugiati palestinesi che non possono tornare nella propria terra. Israele non dimostra di aver messo in discussione la politica che ha perseguito fino ad oggi, che può essere descritta con una parola che ha a che fare più con la storia europea che con quella del popolo ebraico: colonialismo". Questo dramma assomiglia a una "rappresentazione teatrale ben preparata" anche secondo Zvi Schuldiner, sociologo e giornalista che incontriamo a Gerusalemme: "Nessuno accenna al fatto che questi insediamenti sono illegali. Che dalle finestre delle loro villette si vedono i ruderi delle abitazioni di 30mila palestinesi abbattute da Israele dopo il 1967". E questa rappresentazione, dice Schuldiner, risponde a una precisa strategia politica: "Il governo israeliano vuole dimostrare che il disimpegno da Gaza è stato un grande sacrificio per la sua popolazione e quindi sarà difficile d'ora in poi fare altre concessioni ai palestinesi" La Cisgiordania, insomma, con i suoi 250mila coloni e i suoi 64 check- point, può attendere.
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Giovedì 18 agosto 2005 - E noi pianteremo ancora ulivi
‘…talora ci si aspetta di scoprire uno sbaglio di Natura, il punto morto del mondo, l'anello che non tiene, il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verita'.
E. Montale, I limoni
Il muro ti compare davanti in tutta la sua imponenza arrivando dalla strada principale, interrotta bruscamente da quei blocchi di cemento che dividono il villaggio di Bethania (in arabo El-Azariya) da Gerusalemme e che più a sud tagliano in due il villaggio di Abu-dis. Siamo alla periferia orientale della citta' santa, dove il tracciato del muro che Israele sta costruendo segue un complicato percorso a zig-zag, per annettere gli insediamenti israeliani sorti lungo la periferia escludendo i villaggi arabi. Il più grande di questi insediamenti e' Ma'ale Adummim, con i suoi 40mila coloni, le sue fontane, le aiuole e le villette eleganti, contro cui il Consiglio di sicurezza dell'Onu ha emanato un'apposita risoluzione. "E' impossibile e assurdo pensare di dividere un terrritorio dove i due popoli vivono assieme da tanto tempo - dice M., della Ong B'Tselem, commentando la mappa del muro attorno a Gerusalemme - se l'obiettivo e' la difesa di Israele, questa barriera non serve. Inoltre crea disagi e sofferenza alla popolazione palestinese, che impiega ore per raggiungere luoghi distanti tra loro pochi chilometri".
Contro la costruzione del muro si sono espresse le Nazioni Unite e diverse associazioni o istituzioni per la difesa dei diritti umani, come B'Tselem. Ma tutto quello che hanno ottenuto è stato di modificare il tracciato in alcuni punti, non di evitarne la realizzazione, che anzi negli ultimi mesi e' andata avanti più rapidamente. All'ostinazione del governo israeliano, i palestinesi rispondono con altrettanta ostinazione. Anche tra queste lastre di cemento c'e' un "anello che non tiene", un buco tra le lamiere...appena sopra quel dosso, dove inizia il muro.un varco attraverso cui uomini, donne, bambini e anziani passano per raggiungere la citta', esprimendo la loro opposizione non violenta, il loro non arrendersi a una politica di esclusione e discriminazione. Si ha l'impressione che se un domani gli israeliani scoprissero e chiudessero quel varco, i palestinesi troverebbero un'altra via per passare. La stessa resistenza creativa (come la chiamano qui) che ritroviamo nelle parole di Nafez Assary, cofondatore del Movimento non violento palestinese. Nafez ci racconta di un paese arabo vicino a Ramallah dove l'esercito aveva sradicato gli ulivi per costruire le proprie strade. Gli abitanti risposero piantando nuovi e più numerosi ulivi, spiazzando i soldati. La cosa si ripete per mesi e mesi: ogni volta, i palestinesi opposero alla distruzione degli alberi, fondamentali per l' economia locale, la loro risposta non violenta, forte e tenace come gli ulivi.
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