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In India i contadini non tengono il passo

Schiacciati dal progresso scelgono il suicidio

Per millenni il sistema aveva funzionato. Pochi sanno che l'India non ha conosciuto carestie fino al giorno in cui i britannici non vi hanno introdotto le imposte agrarie, e dunque la necessità per i contadini di avere denaro. Oggi, è l'ultimo passo della modernizzazione - e della valutazione monetaria del lavoro agricolo - che pretende le sue «vittime»
2 agosto 2004
Maurizio Blondet
Fonte: www.avvenire.it
3.06.04

Come succede ormai da anni in questa stagione, decine di contadini indiani si tolgono la vita. Giorni fa il neo-primo ministro Manmohan Singh visitava un villaggio dal nome improbabile, Somayjulapalle, dove 53 capifamiglia si erano uccisi perché oppressi da debiti impagabili. Il villaggio si trova nello Stato dell'Andra Pradesh, i cui cittadini vivono per il 70 per cento di agricoltura: qui si sono registrati tremila suicidi nell'arco degli ultimi sei anni. L'anno scorso, l'ondata di suicidi (centinaia) aveva colpito il vicino Karnataka: sempre in questa stagione, quando, se il monsone ritarda, i raccolti vanno a male e la speranza di pagare i debiti muore con essi.

Ma non è la siccità. È un'atroce modernizzazione la causa di questa tragedia collettiva, nuova piaga sociale fra le antiche dell'India. Per millenni, l'agricoltura era stata indirizzata dai bisogni umani di sussistenza, e governata sulla base dello scambio. Prima della colonizzazione britannica, nemmeno la terra aveva un prezzo: in quanto sacra (raffigurata nel corpo di Kali, la Madre della fertilità) non era di proprietà di alcuno. Le famiglie contadine se la spartivano anno per anno, in un'assemblea rurale, in base al numero dei figli, dunque delle braccia. Le caste contadine erano al centro della distribuzione alimentare: "pagavano" coi raccolti ogni altra casta, dalla famiglia del bramino (che era astrologo e consigliava i periodi di semina) al vasaio e al tessitore, fino alle famiglie dei fuoricasta che avevano il compito di spurgare gli scoli. Ognuno era compensato non in base alla propria produzione, ma al suo grado di casta.

Per millenni il sistema aveva funzionato. Pochi sanno che l'India non ha conosciuto carestie fino al giorno in cui i britannici non vi hanno introdotto le imposte agrarie, e dunque la necessità per i contadini di avere denaro. Oggi, è l'ultimo passo della modernizzazione - e della valutazione monetaria del lavoro agricolo - che pretende le sue «vittime». Proprio in Andra Pradesh le autorità hanno incoraggiato la conversione a culture "da reddito", vendibili. I contadini sono stati indotti, in nome dell'efficienza (e spesso su consulenza di esperti agricoli israeliani), a comprare fertilizzanti chimici anziché servirsi dei gratuiti concimi naturali animali; ad acquistare sementi ibride, su cui si paga il brevetto e che vanno ricomprate ogni anno, perché sono sterili; a fornirsi di trattori, e dunque a spendere per il carburante.

A credito, ovviamente. Per anni, lo Stato ha dato ai contadini prestiti a basso interesse; ma ora i sussidi sono stati tagliati, domina il "mercato". Come ha notato il premier dell'Andra Pradesh, "un ricco può comprare a rate una Mercedes al 4% ma un contadino, per il trattore, deve pagare interessi del 15%". Nessuna produttività agricola, per quanto moderna, può rendere il 15%: dunque gli interessi equivalgono a una spoliazione. Ma la realtà è ancora peggiore: per un contadino che si toglie la vita per debiti, ci sono centinaia di famiglie indebitate con gli usurai locali al 40, al 60%, che, per sopravvivere, vendono le figlie o i reni del marito e del figlio. Chiamiamola pure modernità: in India, essa rivela l'altra ben nota faccia di Kalì. La nera, macabra danzatrice inghirlandata di teschi.

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