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Invitava i giovani ad essere testimoni di pace e a non dimenticare

E' morta Elisa Springer, testimone di Auschwitz

Viveva a Manduria, in provincia di Taranto, dove aveva trascorso buona parte della sua vita dopo la liberazione. Ci ha lasciato la sua autobiografia, «Il silenzio dei vivi», un'opera di eccezionale valore umani e letterario. La ricordiamo - nella sezione di approfondimento qui in basso - con le sue parole e un'intervista.
20 settembre 2004
Redazione

MANDURIA (TARANTO) - E’ morta ieri sera in ospedale, a Matera, la scrittrice ebrea Elisa Springer, una delle ultime protagoniste della Shoah, sopravvissuta ad Auschwitz e altri lager nazisti come Berger Belsen e Therezin.
Elisa Springer aveva 86 anni e viveva a Manduria dove aveva trascorso buona parte della sua vita: dopo la liberazione, nel maggio ’45, dal campo di concentramento di Terezin, nella Repubblica Ceca, aveva infatti sposato un uomo di Manduria dal quale aveva avuto un figlio.
Dopo aver dovuto tenere nascosta per decenni la sua vicenda di ebrea perseguitata, scrisse, con l’aiuto del figlio medico, Silvio, la sua autobiografia, «Il silenzio dei vivi», pubblicato dall’editore Marsilio nel ’97.
«Il mio calvario - raccontava Elisa Springer - è iniziato nel 1938. Io sono nata a Vienna e sono austriaca, sono figlia unica e con l’annessione alla Germania è cominciata la mia storia. Mio padre è stato tra i primi ad essere arrestato già nel giugno del ’38 e deportato a Buchenwald, da dove non è mai più tornato. In seguito anche mia madre è stata deportata e di lei non so più nulla. Dopo tante peripezie, scappando attraverso mezza Europa, nel 1940, sono giunta in Italia e mi sono fermata a Milano, dove ho vissuto fino al ’44 non proprio nascosta, ma ho dovuto cercare di poter sopravvivere anche allora. (...) Poi nel ’44, dietro una spiata, sono stata arrestata anche io a Milano, e dopo poco più di un mese di carcere tra Milano, Como e di nuovo Milano, sono stata deportata ad Auschwitz».
E dopo Auschwit, Bergen Belsen e Terezin, tre dei luoghi più obbrobriosi per la memoria e la storia del genere umano nell’età contemporanea.
Elisa Springer aveva scoperto di essere ammalata da poco più di un anno: ne parlò anche in una delle sue ultime apparizioni pubbliche, quella nel Teatro Abeliano di Bari nel maggio scorso, nella serata organizzata in suo onore e dedicatale dalla Fondazione Popoli e Costituzioni.

20/9/2004

Note: Testimonianza di Elisa Springer


Elisa Springer è nata a Vienna - Austria nel 1918 , in una famiglia di commercianti di origine ungherese . E' sopravvissuta ai campi di sterminio , e dopo essere stata liberata, nel Maggio del 1945, nel 1946, si trasferisce in Italia. Da Manduria, in provincia di Taranto, dove vive attualmente , è venuta fino a Formigine per raccontarci la sua storia.
Il colloquio si è tenuto in una sala del comune dove ci siamo recati insieme ad altre due terze della scuola media "Fiori" e alle nostre insegnanti. La testimonianza terribile, ma pacata della signora Springer ci è servita per conoscere cio' che è successo veramente durante la seconda guerra mondiale...



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Buongiorno a tutti.......
...il mio calvario è iniziato nel 1938. Io sono nata a Vienna e sono austriaca, sono figlia unica e con l'annessione alla Germania è cominciata la mia storia. Mio padre è stato tra i primi ad essere arrestato già nel Giugno del '38 e deportato a Buchenwald, da dove non è mai più tornato. In seguito anche mia madre è stata deportata e di lei non so più nulla. Dopo tante peripezie, scappando attraverso mezza Europa, nel 1940, sono giunta in Italia e mi sono fermata a Milano, dove ho vissuto fino al '44 non proprio nascosta, ma ho dovuto cercare di poter sopravvivere anche allora. Nel '43 non potevo avere nessun impiego e , conoscendo qualche lingua, mi sono arrangiata facendo delle traduzioni in inglese e in tedesco dall' italiano. Poi nel '44, dietro una spiata, sono stata arrestata anche io a Milano, e dopo poco più di un mese di carcere tra Milano, Como e di nuovo Milano, sono stata deportata ad Auschwitz.
Non si può descrivere Auschwitz, non ci sono parole che possano bastare! Ad Auschwitz si viveva camminando in mezzo ai morti, tutti i giorni si moriva e non sapevi mai quando sarebbe toccato a te, perché ogni tanto veniva quel famigerato Dottor Mengele, faceva l'appello, bisognava uscire fuori dalla baracca completamente nude, ti guardava, ti faceva girare per vedere le spalle e bastava un foruncolo un po' più infiammato per essere subito portate alle camere a gas.

La Vita ad Auschwitz

Ti svegliavi la mattina presto: cioè sentivi il fischietto, allora dovevi saltare giù' dalla tua cuccetta di legno.
Auschwitz era diviso in due parti: c'era Auschwitz 1, che era un ex campo militare, formato solo da caserme che poi sono state trasformate in lager e Auschwitz Birkenau, il vero e proprio campo di sterminio, a cui era annesso il campo femminile, dove sono stata io, dove c'erano soltanto baracche di legno con letti a castello uno sopra all'altro, a tre piani con dei tavolacci. Si dormiva su tavolacci senza niente sotto, quelle più' fortunate avevano un po' di paglia. In uno spazio di circa due metri per un metro e qualcosa di larghezza si dormiva in dodici, con due coperte militari, se una si girava si dovevano girare tutte le altre: non c'era spazio per dormire supini, si doveva per forza dormire su un lato.
Poi alla mattina presto ti portavano, in un bicchiere di smalto, un po' di surrogato di caffè senza zucchero. E siccome nel periodo in cui sono stata deportata io, nell'Agosto del '44, ad Auschwitz mancava l'acqua, io invece di bere quel surrogato mi ci lavavo e mi ci sciacquavo gli occhi e la bocca.
Poi c'era l'appello: dovevi metterti in fila per cinque fuori dalla baracca e venivano gli ufficiali per vedere e contare quanti eravamo, se eravamo ancora tutti quelli che erano arrivati all'inizio.
Dovevi stare dritta per delle ore, guardare sempre fisso davanti a te, non dovevi mai guardare in faccia i tedeschi: non lo permettevano, non eravamo degne di guardarli in faccia, dovevamo guardare oltre le loro teste, dovevamo stare con le mani lungo il corpo senza muoverci mai. L'appello durava secondo il tempo atmosferico: se la giornata era bella, magari tre ore potevano bastare, se il tempo era brutto, tante volte si stava anche dieci o dodici ore. Era chiamato appunto campo di sterminio: facevano di tutto per farci morire. E qualcuno non resisteva.
Un giorno, soltanto per aver sorretto una mia compagna, che era nella fila di fianco a me e che stava per svenire dopo tante ore di appello, l' ufficiale mi ha fatto un cenno: mi ha chiamato fuori, si è assentato un po' ed è tornato con un ferro rovente e, davanti a tutti, mi ha fatto una bruciatura con quel ferro sulla coscia destra, nella parte posteriore: ancora oggi ne porto la cicatrice. Questa era soltanto una delle punizioni, poi si usava anche strappare le unghie dei piedi con gli stivali, anche lì io tengo un'unghia del piede rovinata, e tante altre cose. Poi a mezzogiorno portavano il mangiare, che consisteva in una gavetta con un po' di minestra di rape di colore grigio ferro e dal sapore di pepe, anche se non ce n'era forse, ma bruciava terribilmente. Dopo la liberazione ho saputo il perché di questo bruciore, perché nella minestra ci erano somministrati bromuro per farci stare calme ed altri medicamenti per far cessare a noi donne il ciclo mestruale. Infatti durante tutta la deportazione nel campo, nessuna di noi aveva il suo ciclo.
Questi sono esperimenti che hanno fatto su di noi senza che lo sapessimo.
Poi il pomeriggio c'era di nuovo l'appello, lo stesso della mattina, dopodiché si rientrava nella baracca e la sera ti portavano un pezzettino di margarina e a volte un po' di marmellata di barbabietole e un pezzettino di carne in scatola. Questo era il mangiare, ad Auschwitz.
Ogni tanto, come ho detto prima, c'era questa selezione, ogni quindici giorni, tre settimane. Io ho avuto una grande fortuna ad Auschwitz: quando quell' ufficiale mi ha fatto la bruciatura sulla coscia, in quel periodo, per fortuna, non c'è stata nessuna selezione, altrimenti, vedendo la mia ferita , perché era una ferita abbastanza profonda, io sarei stata subito eliminata .Invece ho avuto la fortuna che , siccome questo mi è successo quasi all' inizio della mia deportazione, ero ancora abbastanza in forze , avevo ancora le mie risorse, la ferita è guarita presto, e quando Mengele è venuto a fare la selezione si era già cicatrizzata, altrimenti sarei andata a finire subito nella camera a gas.
Lì ad Auschwitz sono rimasta fino verso la fine di ottobre . Nella mia baracca nessuno ha mai lavorato , perché sembra che la mia baracca fosse una baracca di transito, cioè noi dovevamo essere destinate ad un altro campo , mentre nelle altre baracche si lavorava ,"si andava a scavare -dicevano loro -le cantine e rifugi antiaerei". Invece erano le famigerate fosse che servivano per i prigionieri stessi .
Io poi verso la fine di ottobre sono stata trasferita non si sapeva per dove , perché nessuno sapeva mai dove si sarebbe andati a finire, il mio convoglio doveva andare a Buchenwald, invece in Turingia il convoglio è stato diviso: una parte è andata a finire a Buchenwald, e tutti coloro che stavano in quella parte del convoglio furono immediatamente gassati, mentre il reparto dove stavo io è andato a finire a Bergen Belsen e lì sono stata un' altra volta fortunata.

La vita a Bergen Belsen

A Bergen Belsen la vita suppergiù era la stessa di Auschwitz, solo Belsen era più piccolo di Auschwitz; perché dovete sapere che Auschwitz era un campo di 45 km quadrati di estensione, quindi era enorme, mentre Bergen Belsen era più piccolo. A noi, appena arrivati da un luogo come Auschwitz, sembrava che fosse molto migliore, ma dopo un po' di tempo il comandante di Auschwitz, Joseph Kramer, è stato trasferito a Belsen e anche lì allora cominciarono le selezioni, le gassazioni, anche se a Bergen Belsen non c' erano camere a gas: i prigionieri venivano gassati altrove e poi bruciati nelle fosse.
Nella terza baracca, perché io ho cambiato a Belsen tre volte baracca, sono stata insieme ad Anna Frank e a sua sorella Margot. Anna Frank era una ragazzina di quindici -sedici anni , molto magrolina, già malridotta, era già quasi uno scheletro. Una ragazzina che piangeva tutto il giorno perché voleva carta e penna per poter continuare a scrivere il suo diario. Io non sapevo allora che si chiamasse Anna Frank, perché ci chiamavamo soltanto per numero, avevamo ognuno il nostro numero di matricola; sono risalita a lei dopo la liberazione e ho capito che lei era Anna Frank . Non ho potuto scriverlo nel mio libro, perché per scrivere un libro , bisogna poter documentare tutto e io allora non avevo documenti in mano, oggi invece sono in possesso di questi documenti e so che era veramente Anna Frank e avevo ragione.
Da Bergen Belsen sono stata trasferita a Raghun, in una fabbrica di aeroplani a 50 chilometri da Lipsia e da lì, dopo un po' di tempo, sono stata trasferita nel mio ultimo campo: a Terezin, nell'odierna Repubblica Ceca. Di Terezin posso dire poco, perché dopo pochissimo tempo mi sono ammalata di tifo petecchiale e sono rimasta in coma quasi per un mese, senza mangiare, senza bere e senza medicine. Mi sono svegliata da sola: ecco perchè io dico sempre "Dio ha voluto che io vivessi" io sono viva solo per la mano di Dio.
Quando mi sono svegliata ho visto che stavo su un pagliericcio con una coperta, mi sono meravigliata e ho chiesto alla mia compagna cosa stesse succedendo, perché dalla finestra dietro di me ho visto volare tante carte e ho sentito un forte odore di bruciato e la mia compagna mi ha risposto: "Sì Elisa, tu non sai niente perché sei stata in coma per tanto tempo, ma noi siamo già liberi- ed era il 9 Maggio del 1945- Noi siamo già in mano russa perché Terezin è stato liberato dalle truppe russe e quelle carte che tu vedi volare sono i documenti che i tedeschi prima di scappare hanno cercato di bruciare e siccome c'è molto vento queste carte volano. Qui c'è anche un pacco per te dalla Croce Rossa, noi il nostro l'abbiamo già mangiato, ma questo è il tuo pacco di viveri". E io ho voluto che si aprisse il pacco, l'ho chiesto a una mia compagna perché io non avevo la forza di farlo.
Lei lo ha aperto, sopra c'era una grande tavoletta di cioccolato: volevo assaggiarla, ma non avevo la forza né di aprirla, né di poterla mangiare: mi mancava la forza di ingoiare.
Sono poi stata portata in quarantena in un lazzaretto dove sono stata assistita molto bene, non mi hanno fatto più' nemmeno il vaccino, la dottoressa che mi ha visitato ha scosso la testa e ha detto: "Ma questa è una cosa incredibile! Questa ragazza ha superato da sola il tifo petecchiale senza cure, senza mangiare, quindi non c'è più nemmeno bisogno del vaccino perché è già fuori pericolo!" E li' poi per quaranta giorni sono rimasta, mi hanno "tirato su" come si suol dire.
Poi sono ritornata con un convoglio che ha attraversato l'Austria, mi sono fermata un po' da una mia zia e poi sono rientrata in Italia nell'Agosto del '45. Mi sono di nuovo fermata a Milano e naturalmente non era facile la vita perché all'inizio siamo stati visitati, ci hanno passato un po' di soldi, ci hanno dato un pacco con un pezzo di stoffa per farci un vestito e ci hanno consegnato dei buoni per poter mangiare in certe trattorie e per un po' di tempo è andato tutto bene, solo che si ricominciava a vivere automaticamente: avevi paura, vivevi sempre con la paura, io camminavo velocemente per le strade perché avevo sempre l'impressione di avere ancora alle calcagna i nazi fascisti e questa sensazione è durata per molto tempo.
Nel Maggio del '46, ho conosciuto mio marito che era pugliese, ecco perché io oggi vivo in Puglia; lui mi ha sposato e mi ha portato a Napoli. Sapete in meridione non è come nell'alta Italia: per me era molto difficile inserirmi nella vita, prima di tutto dopo la mia esperienza vivevo con una paura continua, non riuscivo a parlare e poi ho incontrato una grande indifferenza perché la guerra non era passata nel meridione, non era stata vissuta come nell'alta Italia, li' non si sapeva nulla della Resistenza e, specialmente in Puglia, ci sono stati pochi bombardamenti e quindi non volevano saperne niente: c'era una grande indifferenza. Qualche volta ho cercato di aprirmi, di parlare, ma nessuno mi voleva ascoltare e allora mi sono chiusa sempre di più' in me stessa, finche dopo molti anni avevo il bisogno di aprirmi e di parlare e allora mi sono aperta un po' con mio figlio, che voleva sapere, che voleva conoscere le sue radici.
Arrivata ad una certa età, ho capito che dovevo parlare anche per voi giovani, perché il futuro è nelle vostre mani, ma non esiste un futuro senza passato e perché queste cose non avvengano più, io mi sono auto-violentata e, per amore di mio figlio che voleva sapere e per amore anche verso voi giovani, ho scritto questo mio libro che spero possa in qualche modo contribuire a rendere un po' migliore il mondo perché, sapete ragazzi, come ho già detto prima, siamo tutti figli di un unico Dio e siamo tutti della stessa razza, non esistono razze diverse, ci sono solo due categorie di uomini: quelli buoni e quelli cattivi. Quello che conta non è il colore della pelle, conta quello che si ha qui dentro e un giorno tutti quanti dovremo fare lo stesso tragitto, che per me è già' abbastanza vicino perché fra un paio di mesi compio 81 anni, ma voi siete ancora giovani e avete tutta la vita davanti a voi; io vi auguro una lunga vita, ma un giorno dovremo fare lo stesso tragitto e mi piacerebbe tanto se potessimo farlo tenendoci tutti per mano. Grazie e auguri.



INTERVISTA

D- Perché ha scritto il suo libro così tardi, aveva paura della reazione degli altri ?
R- Non avevo paura della reazione delle altre persone, ma avevo paura dell'indifferenza. Perché pochi anni fa c'era molta indifferenza, non c'era l'interesse che c'è oggi, nessuno voleva sapere. Ho cercato di parlare qualche volta, ma mi si voltavano le spalle e mi si diceva anche, qualcuno, "non può essere vero, non ti credo", e allora mi sono chiusa in me stessa e non ho più parlato. Non sono stata incoraggiata come oggi . Oggi siete voi giovani che mi incoraggiate. Io parlo da quasi 4 anni e vedo che c'è molto interesse e molta voglia di sapere e allora sono riuscita fuori, sono tornata ad Auschwitz .

D- Quali erano le regole del lager ?
R- Prima di tutto obbedienza e non ribellarsi, perché ribellarsi significava già morire, essere eliminate immediatamente. Poi io ho avuto fortuna perché, essendo austriaca, capivo la loro lingua, perché loro parlavano unicamente il tedesco. Davano l'ordine e tu dovevi obbedirgli immediatamente anche per questo sono stata fortunata perché io capivo subito quello che dicevano e obbedivo e anche questo mi ha salvato, in parte.

D- In quale dei campi ha sofferto di più?
R- E' facilissimo dirlo: ad Auschwitz. Peggio di Auschwitz non ci poteva essere niente.

D- Lei non si è mai ribellata ai comandi?
R- Se io mi fossi ribellata, oggi figlio mio non sarei qui; perché ribellarsi significava morire subito. Non potevo ribellarmi, infatti alcuni sono stati uccisi proprio per questa ragione. La sopravvivenza era molto questione di carattere, perché se ti ribellavi eri spacciata. Non potevi ribellarti!

D- Ha mai visto morire qualche amico o la famiglia davanti ai suoi occhi?
R- No. Veramente sì, nella mia baracca ci sono stati morti, ma eravamo tutte compagne, non eravamo tutte amiche perché eravamo in troppe in una baracca. Potevamo essere da trecento a seicento, secondo il periodo, quindi non potevi essere amica di tutti. Io avevo un'amica del cuore, con cui ho diviso tutto, fino all'ultimo giorno e siamo tornate tutte due.
Ci siamo divise appunto anche la gavetta. La mattina ci domandavamo: "Tu oggi hai molta fame?" se io dicevo sì, lei mi dava metà della sua razione, se diceva sì lei, le davo metà della mia razione, così riuscivamo a sopravvivere tutte due. Lei oggi potrebbe essere ancora viva, non lo so, io fra meno di due mesi faccio 81 anni, lei era di sedici anni più grande di me, e io non so se è ancora viva. Ci siamo riviste dopo la Liberazione, a Milano, lei partiva con il marito e il figlio per l'Australia e da allora non ho più sentito nulla di lei.

D- Ha mai visto o parlato con un ufficiale tedesco?
R- No, non si poteva mica parlare con loro e poi non ho più visto nessuno di loro.

D- Che sensazione ha provato quando sono arrivati gli Alleati?
R- Ma vedi, io il momento della Liberazione non l'ho vissuto perché stavo ancora in coma. Io la Liberazione l'ho vissuta quando sono rinvenuta dalla mia incoscienza. Non ho potuto vivere quel momento di gioia. Certamente, dopo, sono stata felice.

D- Le donne venivano violentate nel campo?
R- Essere violentate nel campo no. All' arrivo di ogni trasporto gli ufficiali si sceglievano già le donne che loro volevano, questo l'ho saputo dopo e, grazie a Dio, io non sono stata scelta; naturalmente se tu eri scelta, non ti potevi ribellare, però facevi una vita certamente migliore di quella che abbiamo fatto noi. Quindi loro si sceglievano già dall' inizio chi volevano, una volta entrati nel campo non correvi più quel pericolo, questo è tutto .

D- Quali erano le condizioni igieniche ?
R- Non esistevano condizioni igieniche, vi ripeto, vicino alla mia baracca, perché io parlo sempre della mia esperienza, c'era un' altra baracca chiamata latrina. Era una baracca di legno in mezzo alla quale c'era un banco, un lungo banco di legno per quanto era lunga la stanza, e ogni tanto c'era sopra un buco attorno al quale c'era un po' di creta, queste erano le latrine e là si andava uno vicino all' altro.


D- Quali erano gli argomenti di conversazione nelle baracche ?
R- Beh, la conversazione era sempre la stessa, cioè io posso parlare delle conversazioni che ho avuto con l' unica mia vera amica, con la quale ho diviso tutto; noi parlavamo sempre del nostro passato, delle nostre famiglie, lei di suo marito, di suo figlio; io dei miei genitori e la speranza di rivedere mia madre, di sopravvivere, di quello si parlava, dicevamo sempre: "Dobbiamo sopravvivere, dobbiamo cercare di sopravvivere, dobbiamo aiutarci a sopravvivere". Delle discussioni degli altri non lo so perché noi due eravamo sempre insieme.

Fonte: http://www3.comune.modena.it/cde/scuole/fiori/PAGINA3.htm

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