Palestina

Se i bimbi giocano con le bombe al fosforo

24 gennaio 2009
Vittorio Arrigoni

Ho varcato la soglia di casa, dinnanzi al porto di Gaza City, dopo parecchi giorni. Tutto è rimasto come l'avevo lasciato, la bombola del gas continua a soffrire di anoressia, la corrente elettrica è ancora tagliata da una cesoia straniera. Laddove c'era la stazione dei pompieri, a venti metri dal mio uscio, c'è un enorme cratere in cui dei bimbi bighellono come per esorcizzare il terrore dei genitori.

Il richiamo alla preghiera del pomeriggio non ha più il conforto del salmodiare del muezzin a cui ero abituato. Chissà dove è finito, se è riuscito a sopravvivere nella sommità di uno dei pochi minareti rimasti in piedi. L'ultima volta che lo avevo ascoltato, questo muezzin anonimo era stato costretto a interrompere la liturgia del suo canto per una tosse catarrosa. Una tosse che conosco bene anche io, i gas delle bombe a Gaza non hanno risparmiato nessuno. Sotto una porta-finestre che dà su un piccolo balcone ho trovato un messaggio come fosse stato infilato da una mano amica. Di questi stessi volantini il giardino e la strada erano ricoperti. Lasciati cadere dagli aerei israeliani intimano la popolazione palestinese a rimanere allerta, a prendere coscienza dei muri che hanno occhi e orecchi. «Al minimo atto offensivo contro Israele torneremo a invadere la striscia di Gaza, quello che avete vissuto in questi giorni non è nulla a confronto di ciò che vi aspetta».

Per strada alcuni ragazzi avevano raccolto questi volantini e ripiegati per farne aeroplanini di carta, cercavano di rimandare il messaggio al mittente. Ahmed al telefono invece mi ha raccontato di un altro gioco degli adolescenti di Gaza, fino a qualche giorno fa si divertivano a riattizzare incendi calciando i frammenti delle bombe al fosforo bianco, di cui tutta la Striscia è stata disseminata. I residui di questi ordigni ad alto potenziale chimico pare abbiano facoltà incendiarie imperiture: raccolti dopo diversi giorni dalla loro detonazione e agitati, riescono ancora a infiammarsi. I paramedici dell'ospedale Al Quds raccontano come hanno rinunciato subito a cercare di spegnere gli incendi provocati da queste bombe proibite, le fiamme parevano alimentarsi al contatto con l'acqua. «Il frutto di tutta la merda che ci hanno tirato addosso in queste tre settimane, lo raccoglieremo nel prossimo futuro in tumori e neonati deformati», mi ha detto Munir, medico dell'ospedale Al Shifa.

A Sderot come ad Aschkelon, i cittadini israeliani hanno formalmente richiesto al loro governo delucidazioni circa le armi utilizzate per massacrare: è evidente che l'uranio impoverito e il fosforo bianco sparso in maniera criminale sul fazzoletto di terra di Gaza non farà distinzione nel causare malattie genetiche fra ebrei e musulmani. Dovremmo essere in piena tregua in corso, fatto sta che oggi nel mio letto mi ha destato dal sonno il boato sordo del cannoneggiare di navi da guerra, esattamente come qualche giorno fa. Alcuni pescatori palestinesi stavano provando a lasciare il porto muniti di reti su barchette minuscole. La marina israeliana li ha respinti indietro. Ormai l'unico pesce di cui ci si può cibare a Gaza sono le scatolette di tonno egiziano passate per i tunnel.

Sul tetto della casa di Naema il confine israele palestinese è mai stato così rimarcato. Da una parte le colline verdeggianti costantemente irrigate dei Kibbutz israeliani, dall'altra l'arsura di una terra saccheggiata di sorgenti e pascoli. Naema mi ha raccontato i suoi ultimi giorni, una testimianza olfattiva, tattile e uditiva del massacro, non oculare perché Naema è non vedente. I soldati hanno intimato l'evacuazione del suo villaggio solo una manciata di minuti prima dell'incursione. Gli uomini si sono coricati sulle spalle i bambini piccoli e con le donne sono fuggiti via. Noema a scelto di restare per non rallentare la loro fuga, si è rifugiata nella sua casa credendosi al sicuro, ed ha accolto con sè i suoi vicini di casa che non sapevano dove andare: tre donne, un'anziana, e un vecchio paralitico. Tank e bulldozer hanno sconfinato e iniziato a seminare morte, divorandosi ettaro per ettaro, sino ad arrestarsi dinnanzi all'abitazione di Noema: l'edificio in cui vive è il più alto del villaggio perché posto sopra una collinetta, i soldati di Tsahal ritenendolo strategicamente posizionato, sono entrati e lo hanno occupato per due settimane. «Durante tutto questo tempo solo due volte ci hanno portato da bere, e il cibo era rappresentato dall'avanzo del rancio dei soldati. Non ci hanno mai consentito di andare in bagno e abbiamo dovuto fare i bisogni in un angolo della stanza. Non ci consentivano di parlare, e venivano a malmenarci quando la notte in cerchio cercavamo di pregare».

Al termine dell'undicesimo giorno di prigionia la Croce rossa internaziale è finalmente riuscita ad arrivare sul luogo e a trarre in libertà i sei palestinesi dai loro carcerieri. «Non ci hanno permesso di raccogliere niente, a me neanche gli occhiali da sole», conclude il suo racconto Noema, aggiungendo che una volta tornati a riprendere possesso della loro abitazione, si sono resi conto del furto dei soldati: si sono portati via tutto il loro oro e i soldi nascosti, dopo avere distrutto i pochi beni, due televisori, una radio, un frigorifero, i pannelli solari sul tetto. Ho visto lacrimare gli occhi di quella donna nascosti sotto i suoi nuovi occhiali scuri e mi sono parsi i più vividi che abbia mai veduto. In realtà Noema ha visto coi suoi occhi spenti molte più cose che una giovane della sua età avrà mai l'occasione di vedere, se non ha la cattiva sorte di nascere in questa terra martoriata. Restiamo umani.

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