Conflitti

Morire a Qana

“Se devo morire, morirò qui. Non voglio che mi succeda la stessa cosa che è successa a milioni di palestinesi, che se ne sono andati e hanno perso la loro terra”
Ángeles Espinosa
Fonte: El Pais
- 03 agosto 2006

“Se devo morire, morirò qui. Non voglio che mi succeda la stessa cosa che è successa a milioni di palestinesi, che se ne sono andati e hanno perso la loro terra”. Habbas Hachem resiste, nonostante i suoi occhi arrossati tradiscano una notte di lacrime. È il proprietario dell'edificio di Qana dove quel giorno morirono 57 persone, fra cui la maggior parte della sua famiglia. Lui non ha neanche un graffio. “Avevo lasciato lo scantinato per rifugiarmi nella casa accanto”, spiega ai giornalisti che accorrono in un morboso pellegrinaggio verso questo nuovo monumento dell'orrore. Il rumore dei generatori non riesce a coprire il frastuono dell'artiglieria israeliana, ad alcuni chilometri a sud. Poco prima, l'aviazione aveva bombardato nonostante la sua promessa di sospendere gli attacchi per 48 ore.

“Meno male che gli altri erano andati via. Eravamo 110 nello scantinato”, ricorda Hachem con lo sguardo perso. Quando imperversò il bombardamento, un paio di famiglie decisero di cercare un altro rifugio. Rimasero solo gli Hachem e i loro vicini, i Shalhub. Vivono tutti nel quartiere e pensarono che sarebbero stati più sicuri in questo edificio perchè c'era uno scantinato. Le case della zona sono di un solo piano, ma Hachem, di 29 anni, aveva costruito una casa grande con due piani, piano terra e scantinato, forse in vista del suo prossimo matrimonio. Si era appena dichiarato.

Ora ha smesso di pensarci. Ha tre fratelli in ospedale ancora inconsapevoli della morte delle loro mogli e dei loro figli. Ha perso i suoi genitori, un cugino e molti nipoti. C'erano 29 bambini quando l'edificio crollò poco dopo l'una di notte della domenica, a conseguenza dell'intenso bombardamento con cui l'aviazione israeliana ha messo a soqquadro il quartiere. Finestre divelte, tetti pieni di buchi, pali elettrici ricurvi e le macerie che invadono le strade testimoniano l'orgia di fuoco che ha invaso Qana per due ore. Non solo qui ma anche all'ingresso della città e nel centro.

Ma proprio in questo fatidico scantinato si consumò una nuova tragedia per Qana, 10 anni dopo che un attacco israeliano facesse diventare martiri 105 suoi abitanti che si erano rifugiati in un quartiere generale dell'Onu durante l'operazione Uvas de la ira. L'ispezione visiva della zona non scopre nessun elemento che permetta di sospettare la presenza di uomini armati o di materiale militare.

“Abbiamo tirato fuori 57 cadaveri dall'edificio”, conferma un caporale della gendarmeria del luogo. Otto feriti sono stati trasportati all'ospedale governativo di Tiro. Il poliziotto spiega che c'erano 29 bambini. Basam Mokdad, uno dei volontari della Croce Rossa Libanese che partecipò al recupero dei corpi, scarta l'ipotesi che 15 di essi fossero disabili, come aveva annunciato il giorno prima la deputata Bahia Hamriri e come ieri sosteneva la stampa locale. “C'erano tre disabili, un adulto e due bambini”, afferma da Bint Yebel, dove si è trasferita.

“Abbiamo recuperato 22 cadaveri di bambini; degli altri 7 solo frammenti”, aggiunge il gendarme, che non dà le proprie generalità perchè non è autorizzato a parlare con la stampa. Ma tuttavia, nell'ospedale governativo di Tiro, nel cui deposito ieri trasportarono i cadaveri, dissero che avevano ricevuto solo 27 corpi di minori di 12 anni. L'interlocutore rifiutò di precisare quanti adulti. Mokdad contò “19 bambini e 8 adulti: 6 donne e 2 uomini. Ma le cifre non hanno più importanza. “A Mayadin, a Srifa, a Kafarun e a Yater, i cani e i gatti continuano a mangiare i cadaveri e non possiamo fare niente”, assicura il caporale con crescente indignazione. “È questa la democrazia degli Stati Uniti? In Libano sì che siamo democratici, perchè siamo tutti uniti, musulmani e cristiani. Abbiamo solo bisogno di essere lasciati liberi”, aggiunge.

La sua collera trova riscontro fra migliaia di libanesi che ieri si avviarono verso il nord, dopo aver sentito che Israele avrebbe sospeso le operazioni aeree per 48 ore. “Sono dei bugiardi”, grida una donna la cui macchina, uguale a cento altre, è rimasta bloccata davanti a un cratere appena provocato da un missile israeliano all'altezza di Qasmiye, nell'unica strada che da Tiro giunge a Baghdad. Due automobili si trovano ancora sprofondate nello squarcio. La stretta striscia di terra che serviva da alternativa all'autostrada e la vecchia strada rimarranno inutilizzate per gli attacchi; non permette il passaggio di due veicoli allo stesso tempo. Appena tre chilometri per raggiungere la strada rendono più lunga di 90 minuti una fuga che è iniziata molte ore prima a Raech, a Yarun o a Dhaira.

Stretti in vecchie Mercedes o in rimorchi di piccoli camion destinati al trasporto di prodotti agricoli, famiglie intere fuggono verso il nord e osservano con incredulità i giornalisti e i collaboratori che si dirigono verso il sud. Dalle antenne delle automobili e dai finestrini pendono pezzi di lenzuola o camicie come segno di bandiera bianca in cerca di una protezione più illusoria che reale. “Meno male che non hanno intenzione di bombardare oggi. Abbiamo ricevuto 17 feriti”, afferma il dottor Ahmed Morwe, direttore e comproprietario dell'ospedale Yebel al Amel, che è il più grande di Tiro. “Dall'attacco di Qasmiye hanno trasportato 11 civili e tre soldati feriti. Inoltre, tre persone che cercavano di fuggire da Rhameich a Aita sono stati ricoverati nel reparto ustionati”, spiega questo medico formatosi a Santiago de Compostela e Madrid. Un soldato ucciso nel primo incidente è stato trasportato al deposito dell'ospedale governativo “perchè le sue celle frigorifero sono più grandi”.

Morwe conferma le denunce dei pochi abitanti che si trovano ancora nelle strade di Tiro. “È una guerra contro i civili. Qui non abbiamo ricevuto nessun miliziano di Hezbolà”, assicura. Come lo sa? “Circa il 19% dei 415 feriti a cui abbiamo prestato assistenza dal giorno 12 sono bambini, il 32% donne; il resto, uomini di tutte le età”, specifica. Dove portano allora i feriti di Hezbolà? “Chi va a lottare sa che non ci sono ambulanza, né medici né ospedali. O muoiono o tornano sulle loro gambe”, afferma.

Al momento, il suo ospedale non si trova in una situazione disperata. “Eravamo preparati. La stessa notte che iniziò l'attacco abbiamo chiesto assistenza per un mese, ma ogni volta è più difficile portare materiale da Beirut, e se il conflitto si prolunga, presto inizieremo ad avere carenze”, ammette. Oltre a diventare improvvisamente un ospedale di guerra, il suo centro accolse inizialmente due centinaia di rifugiati. “Pian piano iniziano ad andare via, ma sono in tanti coloro che non hanno mezzi per uscire da qui”, conclude.

Note: traduzione per Megachip di Laura Nangano
http://www.megachip.info

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