Conflitti

Iraq: e adesso...che facciamo?

Sembra che per certe persone, (specialmente quelle che occupano posti di potere, ma anche quelle che quei posti cercano disperatamente di ottenerli) sia difficile arrivare a capire una semplice verità: gli Stati Uniti non dovrebbero avere niente a che fare con l'Iraq.
3 maggio 2004
Howard Zinn - trad. Patrizia Messinese

Non è il nostro paese. La nostra presenza causa morte, sofferenza, distruzione e settori sempre più ampi della popolazione stanno insorgendo contro di noi. Il nostro esercito reagisce con l'uso indiscriminato della forza, bombardando, sparando ed arrestando persone basandosi su semplici sospetti.

Amnesty International, un anno dopo l'invasione, dichiara: "L'uso eccessivo e
inutile della violenza ha provocato la morte di un gran numero di persone
disarmate durante le manifestazioni pubbliche, ai posti di blocco, durante
incursioni all'interno delle case. Migliaia di persone sono state arrestate e
detenute (le statistiche parlano di cifre che variano dagli 8.500 ai 15.000),
spesso in condizioni durissime e soggette a detenzione prolungata e spesso
all'insaputa delle autorità. Molti sono stati maltrattati o torturati, alcuni
sono morti in prigionia."

Amnesty International ha così commentato i recenti scontri di Falluja: "Si dice
che almeno la metà delle 600 persone rimaste uccise a Falluja negli ultimi
scontri tra le forze della Coalizione e gli insorti fossero civili, molti di
loro donne e bambini".

Alla luce di questo, qualsiasi discussione su "..e adesso..che facciamo?" deve
cominciare dal rendersi conto che l'attuale occupazione dell'esercito americano
è moralmente inaccettabile.

Il solo accenno ad un nostro ritiro dall'Iraq provoca le solite lamentele."Non
possiamo girare le spalle e tagliare la corda..dobbiamo tener duro...ne
andrebbe della nostra reputazione." Sono esattamente le stesse cose che abbiamo
ascoltato quando, all'inizio della escalation in Vietnam, alcuni di noi
chiedevano un ritiro immediato. Il risultato del tenere duro sono stati 58.000
americani e molti milioni di Vietnamiti morti.

"Non possiamo lasciare un vuoto di potere". Credo sia stato John Kerry a dirlo.
Che arroganza pensare che quando gli Stati Uniti lasciano un paese non rimanga
niente altro! E' lo stesso tipo di mentalità che ha dato vita all'espansione
del West americano, visto come un "territorio vuoto", che non aspettava altro
che di essere occupato da noi, mentre già ci vivevano da secoli centinaia di
migliaia di nativi.

La storia delle occupazioni militari nei paesi del terzo mondo ci dice che non
portano né democrazia né sicurezza. La lunga occupazione delle Filippine da
parte degli USA, seguita ad una guerra sanguinosa durante la quale le truppe
americane hanno infine sconfitto il movimento indipendentista filippino, non ha
portato alla democrazia, ma ad una successione di dittature, ultima delle
quali, quella di Ferdinando Marcos.

La lunga occupazione di Haiti (1915-1934) e della Repubblica Dominicana
(1916-1926) ha portato solo a governi militari e corruzione, in ambedue i
paesi.

Il solo argomento razionale che viene portato a giustificazione dell'attuale
strategia è che se ce ne andassimo le cose potrebbero peggiorare.
Ci sarebbe il caos, scoppierebbe la guerra civile, ci dicono. I sostenitori
della guerra del Vietnam ci assicurarono che quando l'esercito USA si fosse
ritirato, ci sarebbe stato un bagno di sangue. Niente di questo è successo.

Esiste una lunga casistica di predizioni disastrose in caso di nostro abbandono
dell'uso della forza.
Se non avessimo sganciato la bomba su Hiroshima, ci è stato detto, avremmo
dovuto invadere il Giappone e la conseguenza sarebbe stato un enorme numero di
vittime. Adesso sappiamo, ma lo sapevamo anche allora, che non era vero, ma
ammetterlo non rientrava nella lista degli impegni politici del governo. Gli
USA erano riusciti a decifrare i codici giapponesi ed avevano intercettato i
cablogrammi, inviati da Tokyo a Mosca, nei quali veniva comunicato che i
Giapponesi erano pronti ad arrendersi, fermo restando il fatto che l'Imperatore
non dovesse subirne conseguenze.
La verità è che nessuno può sapere quello che succederà in caso di ritiro degli
USA.
Ci troviamo di fronte ad una scelta tra il caos , se rimaniamo, e l'incertezza
di quello che potrebbe succedere, se ce ne andiamo.

Esiste una possibilità di ridurre quell'incertezza rimpiazzando la presenza
dell'esercito USA con una presenza internazionale non-militare. Sembrerebbe
cosa ragionevole che, dopo il ritiro degli USA, l'ONU potesse organizzare una
coalizione multinazionale, includendovi in modo preminente i paesi arabi, che
avesse lo scopo di mantenere la pace e portare avanti i negoziati. Una
coalizione del genere potrebbe trovare d'accordo sciiti, sunniti e curdi e
lavorare per trovare la giusta via all' autogoverno e assegnare una parte equa
di potere a ciascuno di questi gruppi.

Allo stesso tempo, l'ONU dovrebbe organizzare spedizioni di cibo e medicinali,
dagli USA e da altri paesi, oltre a squadre di ingegneri per dare inizio alla
ricostruzione del paese.

Vedendo che la situazione sta volgendo al peggio, alcuni pensano che la
soluzione possa essere il rafforzamento della presenza militare. David Brooks,
editorialista (di destra) ha scritto verso la metà di Aprile: "Non avrei mai
pensato che le cose potessero andare così male", ma poi ha accolto con grande
gioia le parole del presidente Bush riguardo al "rendersi conto che c'è
bisogno
di un ulteriore invio di militari". Questo mi rimanda alla definizione di
"fanatismo": "Se ti accorgi di andare nella direzione sbagliata, accelera!!".
John Kerry, triste a dirsi, (per quelli di noi che avevano sperato in un deciso
cambiamento di rotta rispetto alla linea di Bush) fa da eco a quel fanatismo.
Se aveva mai imparato qualcosa dalla sua esperienza in Vietnam, deve averla
dimenticata. Anche laggiù i ripetuti fallimenti dei tentativi di conquistare il
sostegno del popolo vietnamita portarono all'invio di un sempre maggior numero
di militari nella "Valle della morte" di Tennyson.

In un articolo recente apparso sul Washington Post, Kerry parla di "successo" in
termini militari. "Se i nostri ufficiali chiedono l'invio di più soldati,
dovrebbero mandarli". Evidentemente pensa che "internazionalizzare" la nostra
disastrosa strategia serva a farla sembrare un po' meno disastrosa. "Dobbiamo
anche rinnovare i nostri sforzi per attirare più sostegno a livello
internazionale, sostegno in termini di numero di soldati, per creare un clima di
sicurezza in Iraq".

Sarebbe questo che creerebbe un clima di sicurezza? Un maggior numero di
soldati?

Kerry suggerisce: "Dovremmo insistere affinchè l'ONU organizzi una nuova
operazione per l'Iraq sotto il comando di ufficiali USA. Questo ci aiuterebbe
ad ottenere un maggior numero di truppe dai paesi più potenti". Più soldati,
più soldati. E gli USA dovrebbero starsene al comando (ancora quella vecchia
idea che il mondo debba fidarsi della nostra leadership) nonostante la lunga
lista di fallimenti.

Quelli che si preoccupano di quello che potrebbe succedere in Iraq se il nostro
esercito se ne andasse, dovrebbero pensare all'effetto che produce
l'occupazione di un esercito straniero: insicurezza totale, l'accrescimento
dell'odio nei confronti degli Stati Uniti in tutto il mondo musulmano, che
comprende più di un miliardo di persone, aumento dell'ostilità, ovunque.

Gli effetti della guerra produrranno esattamente l'opposto di quello che i
nostri leader politici, di ambedue gli schieramenti, si erano prefissati come
scopo: la sconfitta del terrorismo. Quando si provoca e si alimenta la rabbia
di un'intera popolazione, si allarga il terreno fertile per il terrorismo.
Che dire degli altri effetti che produce un'occupazione che si prolunga da
tempo? Penso al deterioramento della fibra morale dei nostri soldati, costretti
ad uccidere, seviziare, imprigionare gente innocente, diventati le pedine di
una potenza imperiale, dopo essere stati ingannati facendo loro credere di
stare combattendo per la libertà, per la democrazia, contro la tirannia.

Penso all'ironia del fatto che quelle stesse cose per le quali dicevamo che i
nostri soldati stavano combattendo e morendo (e perdendo i loro occhi.le loro
braccia, le loro gambe.) sono in pericolo proprio a casa nostra, per colpa di
questa guerra brutale: la nostra libertà di parola è stata limitata, il nostro
sistema elettorale è stato corrotto, il controllo parlamentare e giudiziario
sul potere esecutivo, praticamente inesistente.

Il costo della guerra, 400 miliardi di dollari (quota che Kerry,
incredibilmente, si rifiuta di voler ridimensionare) ricadrà inevitabilmente
sulla popolazione, rendendo necessari tagli ai fondi per l'assistenza
sanitaria, provocando l'impoverimento del sistema scolastico pubblico oltre ad
un maggiore inquinamento dell'acqua e dell'aria. Il potere delle multinazionali
è ormai fuori controllo.

Kerry sembra non rendersi conto che sta gettando alle ortiche la carta migliore
che aveva contro Bush: il crescente malcontento degli americani nei confronti
della guerra. Lui crede di essere furbo quando dice che combatterà questa
guerra meglio di Bush, ma dichiarando il suo costante appoggio
all'occupazione militare si sta imbarcando su una nave che affonda.

Non abbiamo bisogno di un altro presidente di guerra. Abbiamo bisogno di un
presidente di pace e quelli che in questo paese la pensano allo stesso modo
dovrebbero cercare di farlo presente nel modo più efficace ed evidente all'uomo
che potrebbe essere il prossimo inquilino della Casa Bianca.

Note: Howard Zinn, l'autore di "A people's history of the United States" è
editorialista del "The Progressive"


Traduzione di Patrizia Messinese a cura di Peacelink

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