Conflitti

Saharawi: tempo e spazio senza valore: nasce così la guerra?

da un'esperienza di lavoro nei campi profughi Saharawi, nascono le mie paure e le mie speranze.
3 dicembre 2004
Paola Maccioni

È passata un’altra settimana. Ho conosciuto altri aspetti del deserto. E non solo del deserto geografico. Ho imparato a tornare in kaima, la sera, orientandomi con una stella che le sta proprio sopra; ora per andare in “bagno” non devo più essere accompagnata. Il “bagno” è il soddisfacimento dei bisogni corporali, è ovvio. Non esiste un bagno con il water e il lavandino, non parliamo poi del bidet o della doccia. Non esistono neanche quattro mura che consentano di appartarsi. Ho imparato a considerare naturale ciò che lo è sempre stato. Oramai alzo gli occhi alla luna o al sole, guardo dove cade l’ombra e mi dirigo sicura verso muretti abbandonati. Sembrerà strano, ma non ci sono odori sgradevoli nei campi. Come un gatto ricopro con la sabbia, per la mia igiene ho, preziosi quanto l’acqua, dei fazzoletti umidificati. Però le mie amiche saharawi non lo sanno, mi vergogno. Sogno una doccia, ma non l’acqua scrosciante; penso al lavarmi in modo nuovo, non m’interessa il bagnoschiuma tonificante o rilassante, mi basterebbe un pezzo di sapone da bucato e un pezzo di asciugamano di spugna per strigliarmi. Giusto perché mi sembra che la pelle non respiri più.
Le mie amiche hanno mille storie da raccontare: tutte diverse e tutte uguali: iniziano con la fuga, continuano con il viaggio a Cuba, finiscono a Dajla del deserto. Tutti hanno morti da piangere o vivi che non vedranno più: sono i parenti e gli amici che non sono fuggiti per mille motivi e che ora sono di là dal muro. Nei territori occupati.
Il muro. Penso ai tanti muri la cui caduta è stata osannata nella nostra Europa. Penso al muro che Israele costruisce. Penso a questi duemilaquattrocento metri di muro di sabbia, alto cinque metri, disseminato di milioni di mine antiuomo, in buona parte italiane.
Non c’è guerra, ormai. C’è attesa. È irrilevante, per il resto del mondo, tutto questo.
Luogo e non luogo. Questo è un non luogo per eccellenza. Non ci sono tradizioni, non c’è storia, se non nella memoria e nello sforzo che i giovani fanno per costruirla e mantenerla. I ragazzi del centro culturale non hanno avuto bisogno di grandi parole per descrivermi la loro vita quando mi hanno invitata ad andare a trovarli. Quattro mura bianche, assolutamente spoglie, un palco, in mattoni cotti al sole, per improbabili rappresentazioni, per terra i tappeti. Non c’è luce elettrica, le batterie si scaricano presto, è impossibile ascoltare musica. Si abbatte sul mio cuore e nella mia mente il significato di nulla. Nulla, uguale a niente, diverso da deserto. Mi siedo con loro e ascolto. Sono storie diverse da quelle delle donne. Le ritengono più fortunate perchè sono aiutate dalle organizzazioni internazionali, perché donne, perché madri. Ciò che dicono è vero, per la mentalità occidentale la donna è debole, l’uomo è forte. L’uomo lavora, deve lavorare, è scontato che lavori. Lasciano in sospeso la frase, parlano in tre quattro contemporaneamente, le loro parole sono oggettive. Mi sento sotto accusa, penso che ho portato alle mie amiche profumi, trucchi, bigiotteria e piccole cose per la casa e i bambini. Non ho portato niente per gli uomini.
Aba è un ragazzo di diciassette anni, forse il prossimo anno andrà in Libia o in Algeria a studiare. Non si è mai mosso da Dajla del deserto, prende la parola, invita gli altri al silenzio, in modo educato mi dice:
«Sai, ci piacerebbe avere un pallone per giocare. Da calcio, da basket, da volley, come viene bene.»
Mi guarda negli occhi mentre parla. Gli altri tacciono. Bene. Non sarà romantico come il rito del tè, ma mi siedo davanti a lui e gli chiedo di raccontarmi come passano la giornata. Le donne lavorano, voi che fate? È il mio pensiero occidentale che parla, per fortuna senza voce.
«Quello che dico per me, vale per tutti, qui. Vado a letto la notte, sperando che domani sia diverso da oggi. Non sogno e invece vorrei, almeno per vedere qualcosa di diverso. Mi sveglio e mi chiedo tutte le mattine che senso abbia alzarmi. Molte volte vorrei continuare a dormire. Il cielo è sempre uguale, la sabbia è sempre uguale. Sono uguali i cammelli, le capre e la gente. Ogni tanto mi rendo conto che uno dei miei fratellini è un po’ più alto. Ogni due o tre mesi arriva uno straniero a lavorare. Gli aerei volano così in alto che si vede solo la loro scia. Oggi è uguale a ieri, sarà uguale a domani. Per molti di noi sarà così fino alla fine.»
Un mormorio accompagna le sue ultime parole. Abbasso la testa. Faccio finta di non capire, non voglio capire. Ho paura di questo dolore, di questa solitudine, di questa voglia vivere. Ho paura del giorno in cui diventerà consapevolezza del diritto di vivere. Mi passa come un fulmine, nella mente, l’immagine di altre forme di guerra…
Guardo fisso negli occhi Apa. Cerco di capire se è ancora un ragazzo che spera, che crede alle parole di persone come Maima. Il suo sguardo non è cambiato, non mi sfida. Non sfida, ancora, il mondo. Sorrido agli altri ragazzi, devo farmi vedere serena e fiduciosa nel futuro. Omar interviene nel discorso, mi dice che leggono i pochi libri in arabo che sono nel campo. Che guardano le partite di calcio alla televisione della stazione radio che ha un gruppo elettrogeno e prende i canali algerini. Altri intervengono, ci tengono che io abbia di loro un buon concetto, non vogliono che io creda che vogliono solo giocare a pallone. Chi mi dice che sarebbe bello avere gli scacchi, chi vorrebbe qualche strumento musicale e qualcuno, magari dei volontari, che insegni a suonarlo. Altri chiedono tempere, acquarelli. Una voce dietro di me domanda:
«Com’è il mare?»
«Il mare è grande come il deserto. Ha tutti colori del cielo dell’Hammada. Qualche volta è verde come le verdure dell’orto spagnolo. Quando è arrabbiato si solleva in grandi onde spumeggianti che corrono come la sabbia delle dune.» Smetto di parlare quando mi rendo conto che sto parlando come faccio a scuola, con i bambini, per insegnare i colori. Non voglio insegnare niente a nessuno, ma intorno a me c’è silenzio e attenzione. Ne approfitto per parlare della vita nel deserto delle nostre città. Sono ragazzi in gamba. Sono sicura che capiranno. Mi lancio in similitudini e metafore di vita. Sono assolutamente convinta di ciò che dico: “Anche da noi ti alzi, un giorno dopo l’altro, e tutto è sempre uguale. Il lavoro, la casa, lo studio. Il tempo che non basta. Gli amici che non riesci a vedere. Anche noi ci sentiamo soli, incompresi, inadeguati. Sogniamo, desideriamo, speriamo” … nel mio bisogno occidentale di ricerca di valori perduti sono convinta di essere compresa e convincente. Mi lascio trascinare dalle parole, sono le stesse che uso con i miei amici europei. Appunto. Apa mi guarda trionfante:
«Vedi, lo dici tu stessa! Ma noi cosa possiamo sognare, desiderare, sperare se non conosciamo niente? Tu dici che sogni il mare, ma l’hai visto, lo conosci, sai che ci potrai andare un giorno o l’altro. Tu puoi decidere che un sabato sera andrai al cinema o con gli amici. Noi non abbiamo nessuna possibilità di scelta. Non abbiamo un giorno di festa diverso da un giorno normale. Abbiamo solo la sabbia, il vento, il cielo, le capre. La paura che qualcuno stia male e che non arrivi in tempo il medico.»
Posso solo tacere. Il silenzio è opprimente, dentro e fuori. Mi guardano partecipi della mia tristezza. Sanno che ho capito e che non posso fare niente per aiutarli. Niente. Perché quando tornerò a casa, ci sarà l’Iraq con i suoi fuochi d’artificio che fanno audience in TV, ci sarà Israele, ci saranno facce di politici, crisi economiche, imbrogli. Ci sarà la spesa da fare, la famiglia, gli studi da terminare. La mia voce non si sentirà.
Mi dico che mi sto comportando da novellina; che devo ricordarmi che è importante non sentirsi colpevoli in prima persona per i mali e le ingiustizie del mondo. Propongo che scrivano un progetto, dopo aver analizzato e studiato le loro necessità. Torna il sorriso. Sono riuscita a creare un lavoro, un impegno, una speranza. Non posso assicurare che andrà a buon fine, ma m’impegno a presentarlo ai miei amici.
Questo è il mio modo di combattere la guerra, quella che c’è e quella che cova sotto la cenere. Non posso fare nient’altro che testimoniare la mia ferma convinzione che esiste una speranza, che esiste un futuro, che anche nel deserto non si è del tutto soli e che la guerra non è la cenere da cui far rinascere l’araba fenice della pace e della giustizia.

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