Sfruttati in Perù, TransFair Italia smentisce il Financial Times
«Le accuse che ci sono state rivolte dal Financial Times sono poco circostanziate». Questa è la risposta di Adriano Poleti, presidente del marchio equo e solidale Fairtrade TransFair Italia, all’articolo pubblicato il 9 settembre dal quotidiano britannico in cui si legge che, in una non specificata piantagione nel Perù, i criteri con cui viene lavorato il caffè con il marchio di certificazione equo e solidale Fairtrade non sono propriamente “equi”. I lavoratori stagionali sarebbero, secondo il giornale, pagati al di sotto del minimo salariale, producendo caffè che porta il celebre marchio internazionale ma che di questo non rispetta alcun criterio, per di più all’interno di aree pluviali sotto tutela ambientale. «In realtà non viene specificata la piantagione in cui lavorano i dipendenti sottopagati - specifica il presidente del marchio attivo da oltre 10 anni in Italia, con 90 prodotti e 1 milione di produttori nel sud del mondo - né viene citato il nome dell’Ong canadese che avrebbe tanti soldi da poter inviare un satellite per controllare che vengano rispettate le foreste amazzoniche».
Secondo il responsabile del gruppo italiano che aderisce a Fairtrade Labelling Organizations - coordinamento che raggruppa 20 organizzazioni di certificazione per più di 500 gruppi di produttori in Asia, Africa e America latina - le accuse del Financial sono in realtà «un attacco rivolto da alcune multinazionali che cominciano a preoccuparsi dei piccoli numeri del commercio equo e solidale. Sembra quasi che si voglia screditare un sistema proprio in un paese, l’Inghilterra, in ui questo funziona meglio e produce maggiori risultati». Subito dopo Poleti specifica però che «noi non condividiamo alcune scelte del partner britannico, come quella di certificare un cacao della Nestlè. Anche perché tra i nostri soci abbiamo l’Unicef, che ha screditato il marchio per quanto accaduto con il latte in polvere in Africa». «Per questo - continua - stiamo contattando le piccole e medie industrie di cioccolato e le stiamo convincendo a produrre secondo i criteri del commercio equo, che prevedono stipendi anche del 25% più alti del minimo salariale nel paese produttore, rispetto per l’ambiente e utilizzo dei sistemi dell’agricoltura biologica».
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