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Cannoni d'Italia, business in Cina

Come l'Italia partecipa al gran mercato mondiale. Prodi chiede la fine dell'embargo sulla vendita delle armi alla Cina. Dietro di lui, potenti interessi privati e di stato. Ma il business degli armamenti non conta solo sull'export: le spese militari in continua crescita ne sono il traino principale
23 settembre 2006
Giulio Marcon (Campagna Sbilanciamoci!)
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)

Le parole di Prodi che invitano a porre fine all'embargo europeo (ed italiano) sulla vendita di armi alla Cina non può che essere messo in relazione - oltre che con la finalità generale del miglioramento delle relazioni politiche ed economiche con la Repubblica popolare cinese - anche con l'obiettivo specifico del rilancio dell'industria militare italiana. Si tratta di un business in grande crescita. Gli ultimi dati disponibili (la relazione tecnica del 2006 sulla legge 185 che regola il commercio delle armi) parlano, per il 2005, di ben 1.361 milioni di euro relativi ad autorizzazioni concesse per la vendita di armi ad oltre 60 paesi. Si tratta di un calo di poco più del 9% rispetto all'anno precedente (quando si era sfiorata la cifra record di quasi 1.500 milioni), ma va ricordato che negli ultimi 5 anni l'esportazione di armi era vertiginosamente aumentata di oltre il 60% e che comunque nel 2005, nonostante il calo di autorizzazioni, le consegne effettive di armi (non sempre le autorizzazioni si concludono positivamente) sono praticamente raddoppiate: da 480 a 830 milioni di euro (http://www.disarmo.org).
Quel che l'Italia vende
Che cosa vendiamo? Non certo solo componenti o sistemi tecnologici, ma prodotti finiti di ogni genere come: elicotteri, cannoni navali, radar, blindati, proiettili per cannoni, mine marine, 40mila bombe da mortaio, 5 navi da pattugliamento, 200 siluri e via dicendo. Tra le aziende più attive: la Agusta (169 milioni di euro), la Galileo Avionica (166milioni), la Iveco (130), la Alenia Aeronautica (101), la Oerlikon Contraves (78), ecc.
Tra i protagonisti del business ci sono le aziende del settore pubblico della Finmeccanica (che Prodi conosce bene dai tempi dell'Iri), di cui è azionista di riferimento il ministro dell'economia; e nel campo dei finanziamenti (ben 164 milioni quelli autorizzati, al secondo posto dopo Capitalia) c'è la Banca San Paolo, la cui fusione con Banca Intesa è stata salutata con entusiasmo dal presidente del consiglio - che da alcuni è stato anche identificato come beneficiario (politico) dell'operazione. In realtà l'Italia ha già rotto l'embargo con la Cina; nel 2005 ha venduto armi a Pechino per 400mila euro, nel 2004 per 2 milioni e nel 2003 per ben 126 milioni. Inoltre nella scorsa legislatura era già stato approvato dalle Commissioni esteri il testo dell'accordo militare con la Cina che prevedeva scambi di equipaggiamenti, sistemi d'arma e tecnologia: fortunatamente l'accordo è rimasto in sospeso.
L'allora ministro degli esteri Frattini aveva dichiarato nell'occasione: «La Cina merita la dovuta attenzione per gli sforzi ed i successi evidenziati nell'ultimo decennio in favore della stabilità e della pace, anzitutto al suo interno...». In realtà la Commissione Diritti Umani dell'Onu, il Consiglio d'Europa ed Amnesty International non se ne sono accorti, viste le ripetute condanne alla Cina per la violazione dei diritti umani nel paese. Tra l'altro va ricordato che se noi vendiamo illegalmente armi alla Cina non è escluso che queste possano essere poi rivendute o girate da Pechino ai numerosi paesi in guerra e alle numerose dittature con cui la Cina ha un ricco export di sistemi d'arma (tra questi: Sudan e Myanmar).
In questa rottura dell'embargo - continuando a vendere le armi alla Cina - l'Italia non solo viene meno alla decisione europea, ma anche alla legge 185 che regola il commercio delle armi e che vieta di vendere armi a paesi in guerra e che violano i diritti umani. Violazione che in realtà riguarda altri paesi che in questi anni sono stati o sono ancora interessati da guerre, violenze interne e violazioni dei diritti umani. Giusto per citarne alcuni: l'Italia vende armi ad Algeria, Turchia, Arabia Saudita, Libia, Pakistan, Singapore (che recentemente ha impedito agli attivisti italiani di partecipare al contro-forum della Banca Mondiale). Tra l'altro si legge nella relazione sulla legge 185 che è stata concessa un'autorizzazione per la vendita (non si sa a chi) di 20mila cartucce/candelotti lacrimogeni che sono molto utili nella repressione delle manifestazioni: speriamo che non vadano in mano ad uno dei paesi che calpesta sistematicamente i diritti civili e politici.
Se è vero che le aziende principali italiane del settore armiero fanno in qualche modo riferimento al settore pubblico e se una parte delle armi viene venduto a paesi in guerra, retti da dittature e che violano i diritti umani, si può dedurre che lo Stato italiano realizza degli utili in modo illegale, violando una propria legge e sulla pelle delle persone che sotto quelle armi cadono o vengono incarcerate e perseguitate.
Il business delle armi non è legato solo alle esportazioni, ma anche alle spese per la difesa, che in Italia non mancano (poco meno di 20 miliardi di euro, esclusi i finanziamenti extra bilancio) e che dal 2000 ad oggi sono aumentate di oltre il 20 per cento. Si odono tante lamentele di militari e di politici amici di militari sulla tendenza al ribasso delle spese. Si sparano cifre e percentuali al ribasso, per poter chiedere più soldi. In realtà l'Italia si posiziona stabilmente nel G7 delle spese militari (cioè nel club dei 7 paesi che nel mondo spendono più per le Forze Armate) e la spesa procapite per le armi è superiore a quella della Germania: da noi si spendono 468 dollari all'anno per persona e in Germania 401 (www.sipri.org). Secondo la Nato (che conteggia non solo i soldi spesi dal ministero della difesa, ma anche le spese extra bilancio: ad esempio le spese per le missioni militari all'estero che vengono finanziate con fondi ad hoc) la percentuale della spesa militare sul Pil è oggi vicina al 2%, percentuale non molto lontana da quella di altri paesi europei di media grandezza (www.sbilanciamoci.org).
Tralasciando l'aspetto politico (pur non di poco conto) della funzione delle Forze Armate (per esempio quella svolta in Iraq e in Afghanistan), quello che va registrato è il sovradimensionamento dell'organico (190mila persone - come prevede la riforma - sono un numero troppo alto rispetto alle esigenze reali); l'inefficienza operativa e gestionale, più volte denunciata dalla Corte dei Conti; e la sproporzione tra ufficiali e soldati semplici (l'Italia ha in proporzione più generali degli Stati niti, per cui alla fine l'alto organico serve solo a legittimare il «posto» di ufficiali e sottufficiali). Per dare un esempio: il ministero della difesa prevede che a riforma completata le 190mila unità saranno così ripartite: 103.803 soldati semplici (i cosiddetti «volontari», in ferma breve o permanente) e 86.197 tra ufficiali (più di 22mila) e sottufficiali. Più o meno un comandante per ogni comandato.
Non solo l' italiano dei valori Sergio De Gregorio - Presidente della Commissione difesa al senato - ma anche il sottosegretario Ds alla difesa, Giovanni Forcieri, hanno lamentato le scarse risorse per le Forze Armate e hanno rimproverato alla Casa della Libertà di avere ridotto (sic) in questi anni le spese militari.
Aumentiamo le spese
Ma va ricordato che - pur nell'ambito di un contesto di integrazione europea degli apparati della difesa e anche se in modo contraddittorio con quanto affermato in altri passaggi - il programma dell'Unione con il quale Prodi ha vinto le elezioni recita: «L'Unione si impegna, nell'ambito della cooperazione europea, a sostenere una politica che consenta la riduzione delle spese per armamenti». E però si rischia di fare esattamente l'opposto e diversi parlamentari in chiave bipartisan, in queste ore di definizione della legge finanziaria, si battono per una politica che aumenti le spese per gli armamenti nel bilancio della difesa.
La campagna «Sbilanciamoci!» ha fatto in questi anni proposte che vanno nella direzione opposta: in primo luogo la progressiva riduzione - bloccando concorsi ed assunzioni - delle Forze Armate da 190 a 120mila unità (tra l'altro era una vecchia proposta del Cespi, poi finita in qualche cassetto) che permetterebbe di assolvere - in un quadro di operatività e di reale efficienza - ai compiti costituzionali di difesa del paese e agli impegni internazionali delle missioni di pace, ma quelle vere sotto la guida e il mandato delle Nazioni unite. Si risparmierebbero diversi miliardi di euro: l'unico contraccolpo sarebbe quello di dover prepensionare un po' di generali e colonnelli, ma è un piccolo lusso che ancora ci possiamo permettere. Soprattutto se a beneficiarne è la prospettiva di una politica di pace, di un nuovo multilateralismo democratico, della solidarietà internazionale.

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