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Kritik_Capitale-Terra: Exit strategy

3 maggio 2019

Tramonto marziano

Il testo pubblicato su Kritik. Prontuario di sopravvivenza all’agonia del capitale (DeriveApprodi, 2019) fa parte un libro collettivo volutamente senza firme di autori

C'è un rapporto inversamente proporzionale tra massa terrestre e velocità di fuga del capitale: consistentemente, quest'ultima risponderà a una qualche forma di proporzionalità rispetto al quadrato della sua distanza dal centro di massa del nostro pianeta.

Fintantoché il monopolista NASA ha potuto gestire in regime di totale mancanza di concorrenza i flussi d'accesso allo spazio extra-atmosferico, il rapporto di cui sopra sembra essere stato stabilmente onorato. Ma a regime di totale o quasi totale saturazione dei mercati e dei territori del planisfero, l’istituzione che vinse la competizione per il collocamento del primo uomo sulla Luna sembra, almeno per quel che riguarda la schedulazione dei tempi, doversi fare da parte, o per meglio dire: iniziare a fare la propria parte.

Da tempo il rapporto tra gli statunitensi e il loro ente spaziale non è più idilliaco. L'agenzia spaziale è stata più volte accusata, non senza forme di retorica suprematista e razziale, di aver scientemente rallentato, quando non addirittura tradito, l'ascesa della prima, della più grande e della più potente nazione bianca, al suo ineluttabile futuro nello spazio.

Dall'allunaggio giungendo fino a noi la NASA ha funzionato a basso regime, a dire il vero, anche per via di budget abbastanza limitati. Ma tale limitazione è il risultato della mancanza di ciò che insistentemente nel nuovo mondo definiscono visione e che necessita di quella spregiudicatezza imprenditoriale che negli Stati Uniti riesce a far stare assieme spirito "anarco-libertario" della Frontiera e orgoglio patriottico armato dell'inno e della bandiera.

L'agenzia governativa spaziale almeno dal 1972 ha invece tirato i remi in barca concentrandosi dapprima sulle missioni automatiche entro il sistema solare sia interno che esterno, riducendo poi sempre più il proprio spazio d'azione entro i punti di galleggiamento lagrangiani con lo Space Shuttle e le stazioni spaziali orbitanti. In fondo la limitazione del budget non è mai stata troppo mal vista dalle direzioni NASA post Wernher von Braun le cui lamentazioni sono sempre apparse più come degli atti dovuti che come vere e proprie rivendicazioni d'attivismo o di protagonismo. La chiusura del rubinetto finanziario ha permesso all'ente di vivere in relativa quiete, senza troppe ansie (dopo quelle vissute durante la corsa allo spazio della fine degli anni Sessanta), al riparo sotto l'ombrello di piccole missioni spaziali con obiettivi scientifici sempre più astratti e di difficile comprensione per il contribuente medio. Si è brillantemente riusciti a far stare assieme il tutto attraverso il Technology Transfer Program, il programma di spinoff che converte molte delle innovazioni aerospaziali in tecnologie più o meno specialistiche per uso terrestre e quotidiano. Sul sito dell'ente spaziale esiste un apposito paragrafo dedicato al programma di spinoff e annualmente viene anche redatta una pubblicazione.

Lo statuto a bassa intensità bellica ha trovato per molti anni anche una sua giustificazione nei tratti internazionali per l'occupazione dello spazio extra-atmosferico. A quest'ultimi gli Stati Uniti hanno, impavidi, quasi sempre aderito, per nulla intimoriti, dall'alto della consapevolezza di non avere reali competitori. In campo spaziale infatti il programma sovietico rimarrà propositivo ancora per pochi anni dopo il 1969 disinnescando quello stato dall'allerta generale che aveva caratterizzato l'inizio dell'era spaziale.

Ma la globalizzazione ha messo in discussione anche questa collocazione elitaria e nuovamente a farne le spese, tra i primi, è stata la NASA a cui è stato imposto di destarsi dal proprio torpore ministeriale per riallinearsi con il nuovo conflitto in corso. Anche sul fronte spaziale, infatti, la Cina sta dettando regole e tempistiche attraverso una strategia di silente espansione pressoché già sperimentata in alcune metropoli occidentali e sopratutto sul territorio africano. Può forse apparire paradossale che le missioni Chang'e per l'atterraggio di sonde automatiche sulla faccia nascosta della Luna, nonché per la creazione di serre lunari, e l'emporio cinese sotto casa possano condividere una medesima strategia d'occupazione di territori. Può forse sembrare azzardato affermare che colei o colui che ci riforniscono quotidianamente di prodotti casalinghi, tastierine giocattolo a basso costo, economiche lucine per la bicicletta, siano in realtà dei taikonauti (il nome dei cosmonauti cinesi). Eppure è proprio così. Tale approssimazione tattica trova, inoltre, un ulteriore connessione nell'attitudine tecnologica che entrambe le esperienze stanno imponendo: la messa in campo di tecnologie e componentistiche che partendo dallo status di medio e basso profilo si stanno oggi affermando come standard qualitativo in quasi tutti i settori delle applicazioni tecnologiche.

Nel 2015, diciannove anni dopo l'inizio della saga dei vari, teneri, Wall-e marziani, iniziata col rover Sojourner, la presidenza Obama stila il Commercial Space Launch Competitiveness Act con cui si compie un completo ribaltamento di prospettiva rispetto al precedente Outer Space Treaty (1967) sottoscritto da più di cento nazioni e che decretava un generalizzato approccio di tipo ideal-illuministico allo spazio. Pur rispettando l'originaria idea di non poter rivendicare diritti proprietari sui corpi celesti esplorati ed eventualmente sfruttati dal punto di vista minerario, l'atto del 2015 garantisce, in un'ottica di totale deregolamentazione, i diritti commerciali alle imprese statunitensi, sostenute da capitali statunitensi, che operano e opereranno nell'ambito dello spazio extra-atmosferico. Nell'atto inoltre trova posto lo Space Settlement Prize Act che prevede che la prima impresa privata a stabilire una base lunare potrà rivendicare fino a 100.000 chilometri quadrati della superficie per lo sfruttamento in esclusiva.

Questo atto governativo ha un duplice scopo: garantire ampi margini di libertà agli Stati Uniti di fronte alle politiche apparentemente deregolamentate della Cina; agevolare la corsa allo spazio delle emergenti startup statunitensi dedite a progetti di sfruttamento commerciale oltre la biosfera.
Ancora meglio ha fatto il mite ma interessatissimo Lussemburgo, che nel proporre un atto governativo per fini commerciali simile a quello statunitense ha ben congegnato di estendere il diritto a tutte quelle imprese sorrette da qualsivoglia valuta, a patto che esse abbiano sede nel piccolo paese europeo. Pare che in questo campo si stia dispiegando una battaglia per attirare e convogliare capitali e che la disciplina inizi a essere materia di complicate architetture giuridiche. Solo negli Stati Uniti nel 2017 centoventi società di venture capital hanno effettuato investimenti in imprese spaziali e gli investitori privati hanno versato 3,9 miliardi di dollari nelle casse delle società impegnate, a vario titolo, in progetti al di fuori della troposfera.

Questa corsa allo spazio nel nuovo continente prende il nome di NewSpace e comincia a delinearsi come nuovo ciclo, post-global come la definiscono alcuni dei suoi più importanti esponenti, del capitale che, occupata la superficie dell'intero pianeta, inizia ad avere oggi, dopo cinquant'anni di prove generali, il know out per guardare oltre l'atmosfera terrestre, in direzione dei "piccoli" corpi celesti near earth object (CNEOS). Nel frattempo l'arrembaggio ai sassi orbitanti era stato sperimentato da quelle missioni scientifiche come Rosetta (ESA) che già nel 2004 era riuscita a far atterrare una sonda automatica su un asteroide prelevando da questo carichi di pietre contenenti metalli delle terre rare: asteroid mining. A Rosetta sono seguite altre missioni e le procedure di asteroidaggio (atterraggio su asteroidi) sono state in seguigo perfezionate. Negli Stati Uniti è recentemente nata una startup specializzata nella prototipazione e sperimentazione di tecnologie per questo scopo precipuo: la Altius Space Machine.

Tuttavia il primo vero test di questa forma di capitalismo multiplanetario consisterà nella creazione di basi installate sulla superficie della Luna e nel suo campo gravitazionale al fine di perseguire vari scopi: estrazione mineraria, estrazione dell'acqua, creazione di un avamposto a bassa gravità per future missioni verso lo spazio profondo. Tutti gli Stati oggi coinvolti in progetti spaziali hanno un piano per un insediamento sul satellite terrestre naturale e tra queste spiccano nazioni, come ad esempio gli Emirati Arabi Uniti, l'Australia e il Giappone, fino a pochi anni fa non interessati, o interessati molto poco, a svettare per un posto al sole in questo complesso settore commerciale.
La conquista dello spazio extra-atmosferico ha molto a che fare, ovviamente, col rapporto costi-rischi/benefici e questo a sua volta dipende da condizioni più oggettive e numeralizzabili, come ad esempio il mutamento del costo d'estrazione dei minerali sulla Terra e il tasso d'innovazione tecnologica misurato in termini di qualità e durabilità dei neo-artefatti.

La via del tutto originale degli Stati Uniti a questa nuova corsa allo spazio passa per le startup tecnologiche dirette discendenti della economia delle piattaforme e delle reti. Alcune tra le più promettenti aziende NewSpace appartengono a imprenditori che rientrano oggi nel manipolo degli uomini più ricchi del pianeta grazie alle imprese della new economy. Attraverso i profitti provenienti da questa forma d'economia, gli astropreneurs alimentano il prossimo passo espansionistico del capitale nella direzione dell'esosfera e oltre.

La NASA in tutto ciò si è ritagliata il ruolo di coordinamento nel settore della costruzione della infrastruttura generale, cioè dei lanciatori progettati e sperimentati dalle startup che rimangono, di questi vettori, i proprietari. Inoltre la NASA amministra e gestisce la pioggia di denaro che la presidenza Trump ha destinato allo sviluppo delle attività imprenditoriali spaziali tra cui il 6th branch of the Armed Forces to advance US dominance in space, il braccio armato a sentinella del nuovo territorio da cui estrarre plusvalore.
I primi obbiettivi perseguiti nel campo delle infrastrutture sono già stati raggiunti. Con successo sono stati sperimentati lanciatori a basso costo in quanto completamente o in buona parte riutilizzabili (reusable launch vehicle) capaci di decollo e atterraggio verticali (VTVL) .
Sempre in questo settore SpaceX di Elon Musk (Pay Pal e Tesla Motors) e Blue Origin di Jeff Bezos (Amazon) hanno sviluppato tecnologie assolutamente innovative motivando e infondendo fiducia alla crescita di una rete di startup minori, produttrici di apparati collaterali o fornitrici di servizi, che con le aziende più grandi condividono rischi ma sopratutto la visione.

In questo suo modo di svilupparsi la new economy spaziale assomiglia a quella delle reti e ne condivide, oltre ai capitali, anche le tappe e le progressioni: fatte, ovviamente, le debite proporzioni. Si tratta di una precisazione importante perché la new economy spaziale presenta caratteristiche del tutto innovative rispetto a quelle che l'hanno preceduta. Tanto per iniziare i tempi di sedimentazione delle tecnologie in questo settore sono più lunghi rispetto, ad esempio, a quelli necessari in campo telematico. Essi potrebbero essere paragonati, visto l'impatto che avranno sulla società, ai tempi di affermazione delle nuove macchine che emersero antecedentemente alla prima rivoluzione industriale.

Inoltre la creazione di una specifica forza lavoro è oggi solo all'inizio e prevede il totale dirottamento dei percorsi di studio e delle attese dei lavoratori in settori tradizionalmente ritenuti ostici che negli Stati Uniti prendono il nome di percorsi STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics).
Sempre riguardo la forza lavoro occorrerà un ulteriore salto tecnologico per garantire le condizioni di salute dei lavoratori nello spazio a bassa o nulla gravità ed esposto alle radiazioni dei raggi cosmici e solari. Su tutto ciò esistono già test ed esperimenti di lungo corso condotti su astronauti e cosmonauti e, di conseguenza, un'ampia letteratura in materia. Tuttavia le soluzioni sperimentate devono essere ancora messe a pieno regime e testate su ambienti lavorativi che non siano esclusivamente quelli delle stazioni orbitanti.

L'ultimo aspetto, il più importante circa le peculiarità di questo ciclo economico, lo tratteremo tra poco più approfonditamente e riguarda la possibilità di una rivoluzione di tipo strutturale del modo di produzione. Esso per la prima volta si emanciperebbe dai propri limiti gravitazionali risolvendo per molto tempo, anche se per successivi passi d'approssimazione - roadmap, la questione della sua necessità vocazionale all'espansione. L'espansione capitalistica è, già da molti anni, non più prioritariamente una questione di luoghi fisici ma sopratutto interiori e psichici. Questi hanno costituito dei veri e propri sbocchi rispetto alla finitezza del globo terrestre ampliando lo spazio d'azione del bisogno verso sempre nuove merci. Il capitalismo multiplanetario rimetterebbe radicalmente in questione quest'ordine di priorità consegnando, al modo di produzione, territori fisici pressoché illimitati la cui occupazione dipenderebbe, in condizioni ipotetiche e ideali, dalla sola innovazione del capitale fisso ormai altamente specializzato.

Ma facciamo un passo indietro: torniamo alle imprese del NewSpace e al loro modus operandi nel presente.
La visione di queste aziende commerciali non può certo limitarsi alla Luna e ai near earth object rischiando così d'evocare lo shock generazionale che l'America ricevette col progressivo ridimensionamento del programma spaziale. Per produrre una nuova spinta propulsiva, motivazionale, questa volta il sogno e la visione devono puntare oltre, devono parlare idealisticamente al cuore di una nazione "ferita" riuscendo a rigenerare la speranza, o se si preferisce a reiterare lo stimolo, che il mito della Frontiera ha ancora su quel tipo di cultura.
Su ciò vale la pena essere anche meno cinici sostenendo che il sogno di una civiltà spaziale, o in maniera meno altisonante l'idea dell'esplorazione di spazi non ancora mappati, appartiene probabilmente al "DNA" della specie umana e che il richiamo ragionevole a questo tipo di avventura, una volta chiariti gli obiettivi, appassiona una buona percentuale di terrestri a prescindere dal proprio fanatismo patriottico.
Questa spinta rivolta prima verso la propria nazione e poi verso il resto del mondo ha come obiettivo finale, attorno a cui organizzare tutte le fasi intermedie, l'occupazione e la terraformazione del pianeta Marte. Tutti i CEO delle più importanti imprese del NewSpace convergono su questo idealtipico finalismo, anche se la sua auspicabilità e realizzabilità, con i mezzi oggi disponibili, è ancora materia teorica di dibattito.

L'idea di un nuovo ciclo economico non prevede necessariamente una trasformazione strutturale dei suoi processi d'estrazione di plusvalore anche se esso, per definizione, inaugura una riorganizzazione del capitale fisso e di quello variabile. Nel caso del capitale multiplanetario le cose sembrano però essere più articolate grazie alla fine di quel limite naturale, di contenimento superficiale che, fino a questo momento, ha reso la Terra uno scoglio da cui poter solo osservare altri lontani scogli. Questo limite e la possibilità d'affrancamento da esso sono sempre apparsi come un'evenienza cruciale concernente la conformazione della specie e le forme che essa ha impresso ai propri rapporti sociali.
Il capitalismo multiplanetario si propone quindi non solo come nuovo ciclo, ma anche come exit strategy dal pantano in cui da anni fasi di crisi e di sviluppo sempre più ravvicinate caratterizzando l'economia in condizioni di cattività monoplanetaria. Anche se la frequenza ravvicinata con cui le fasi si alternano può essere considerato come l'epifenomeno di un segnale di cattiva tenuta del sistema nel suo complesso, tale movimento tellurico continua a esorcizzare e tenere lontana l'idea luxemburghiana della crisi finale; a meno che non la si voglia interpretare come crisi del modello centripeto e inizio di quello centrifugo. Cosa per cui noi propendiamo.

Se si possa immaginare uno sviluppo alternativo del sistema di produzione è difficile dirlo. La parola inevitabilmente passa alla fantascienza che in questo contesto, proprio come sono state le sue predizioni negli anni Ottanta rispetto alla contemporaneità, si struttura sempre più come forma aumentata dell'immaginazione tecno-scientifica e sempre meno come produttrice di mondi possibili.
Coloro che da studiosi del cosmopolitismo e della giurisprudenza si occupano preventivamente di comprendere l'assetto delle regole in un regime multiplanetario insistono sull'idea che le rivendicazioni indipendentistiche tra pianeti daranno luogo ad un nuova generazione umana in tempi che, però al momento, sembrano fuori portata per una qualsiasi ispirazione politica contingente.
L'ipotesi tuttavia emersa in campo liberale circa la preventiva istituzione di una sorta di ONU pan-umana che estenda la propria giurisdizione su tutto il sistema solare è di un certo interesse. La sua portata, anche se da deturnare in chiave critica, evidenzia alcuni dei passaggi che già da oggi sarebbe auspicabile intraprendere nella riflessione e nelle pratiche che s'impegnano a delineare alternative ai rapporti sociali sostenuti dal capitale. L'idea è quella che lavorando prefigurativamente alle condizioni in cui vorremo veder sviluppata una civiltà multiplanetaria già lavoriamo alla trasformazione dello stato di cose presente, sorpassando l'impasse resistenziale, con l'individuazione di nuovi obiettivi generali e di nuove narrazioni non distopiche di cui evidentemente tanto necessitiamo.

Un tentativo in questa direzione fu compiuto negli anni Novanta, ad esempio, dai collettivi d'ispirazione UFO antagonista (l'Ufologia Radicale oggi UfoCiclismo) attraverso le cosiddette eso-pratiche, ovvero quelle prassi rivolte a un agire politico prefigurativo, capaci di essere già propositivamente pluriplanetarie.
Facciamo un passo avanti rispetto agli anni Novanta.
All'oggi la fase di rodaggio del capitale multiplanetario lavora sul principio dell'espulsione: 1) espulsione centrifuga generale, con l'accelerazione dei processi di neoliberismo di cui il NewSpace fa parte e 2) espulsione locale, con le pratiche di respingimenti e di architetture ostili che annullano l'ovvietà dell'approdo e la percezione della città come luogo d'incontro e scambio. Qui l'alienazione assume la forma etimologica più stringente del percorso preparatorio, del G-Force One sociale, in vista dei nuovi territori su cui dispiegare la flessibilità del capitale variabile.
Di nuovo un saggio di fantascienza ci illumina sulle traiettorie del futuro qualora non avessimo la forza d'imporre un modello, sì certo spaziale ma anche d'alternativa sociale.

Silvia Bohlen, che non riesce a tirare avanti senza il suo fenobarbital, riflettendo in totale alienazione sulla sua vita su Marte, rimugina: "La meschinità a cui ci siamo ridotti è una forma di barbarie. Che senso hanno le liti e le tensioni per ogni goccia d'acqua, questa terribile preoccupazione, che domina la nostra vita? Dovrebbe esserci qualcosa di più... Ci avevano promesso tante cose, all'inizio" P. K. Dick, Noi marziani (1964).

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