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Il capitalismo dal volto umano della Nobel per la pace

Wangari Maathai, fondatrice del Green Belt Movement, all'assemblea della Fao. La lotta per salvare le foreste aprendo ai privati. Il malumore degli ambientalisti radicali: più vicina all'Onu che ai movimenti
17 marzo 2005
Sabina Morandi

La fragorosa risata con la quale ha accolto il Nobel ha fatto il giro del mondo. E ieri, davanti al parlamentino multi-linguistico della Fao, Wangari Maathai ha impugnato il suo ampio sorriso per perorare la causa degli ecosistemi forestali del bacino del Congo davanti ai ministri - una cinquantina - riuniti per il summit sulle foreste e per la riunione biennale della Commissione foreste della Fao. La "nomina" ad ambasciatrice del premio Nobel per la pace risale al febbraio scorso quando a Brazzaville, in Congo, si è tenuto un vertice di altissimo livello: sette capi di Stato africani più il presidente francese Jaques Chirac hanno firmato un trattato per la salvaguardia della foresta che si estende su undici paesi dell'Africa centrale. A Brazzaville è stato anche istituito una organismo regionale - il Comifac - e lanciato un "Piano di convergenza" per rafforzare la collaborazione tra i paesi del bacino. Lo scopo è arrestare la distruzione di una foresta primaria che, con i suoi 241 milioni di ettari, è secondo polmone verde del pianeta dopo l'Amazzonia. Chi, meglio della fondatrice del Green Belt Movement - il Movimento della cintura verde votato alla conservazione dell'ambiente e allo sviluppo delle comunità rurali - poteva fare da ambasciatrice della nuova iniziativa?

Seduta fra il direttore generale della Fao Jacques Djouf e il primo ministro finlandese Matti Vanhanen, Maathai ha scandito il suo pensiero: «La foresta non ha bisogno di noi, siamo noi ad avere bisogno della foresta, e sappiamo bene perché: le foreste assorbono anidride carbonica, combattono la desertificazione, offrono una difesa contro l'erosione del suolo e gli allagamenti, sono una riserva di risorse genetiche e di conservazione dell'acqua e, non meno importante, sono la casa di migliaia di indigeni che dipendono dalle foreste per la loro sussistenza».

Tutti d'accordo sulla necessità di salvare quanti più alberi possibile. Il disaccordo emerge quando si tratta di stabilire come. I ministri riuniti alla Fao hanno riaffermato il loro impegno per una gestione forestale sostenibile e per un maggiore coordinamento delle politiche economiche, ambientali e sociali, che trasformino le foreste in una risorsa per raggiungere gli Obiettivi di sviluppo del Millennio. Il che, detto in parole povere, significa che l'agenzia delle Nazioni Unite deputata all'alimentazione continua a tenersi fedele al modello dello sfruttamento sostenibile, un modello aspramente criticato da buona parte del movimento, basti ricordare gli strali di Vandana Shiva contro gli effetti distruttivi della silvicoltura occidentale e la mobilitazione delle comunità indigene di ogni latitudine. Il capitalismo dal volto umano - sostengono gli ambientalisti più radicali - non è assolutamente in grado di arginare la distruzione progressiva delle foreste sia perché l'industria forestale è ormai fortemente interconnessa con il mondo del contrabbando sia perché il fronte caldo della deforestazione è quasi sempre situato in aree di crisi. Luoghi dove espressioni come «gestione razionale», «trasparenza» e «coinvolgimento delle comunità» sono praticamente prive di senso.

Wangari Maathai sembra invece avere sposato in pieno la tesi dello sfruttamento sostenibile. Il Piano di convergenza firmato a Brazzaville mira a rendere il taglio del legname più razionale, non a sospenderlo. Ci si propone di sostituire la semplice razzia che le corporation del legname stanno portando avanti nella foresta pluviale africana con il metodo nordeuropeo, una gestione basata su tagli selettivi, cicliche riforestazioni e sulla gestione scientifica e industriale del legname. Una politica economica che non ha mancato di dare i suoi frutti - a ricordarlo c'era appunto il primo ministro finlandese Matti Vanhanen - ma che ha raccolto anche dure contestazioni da parte di ambientalisti e comunità locali, come ha ricordato lui stesso. Basti citare l'ultima iniziativa di Greenpeace che, il 2 marzo scorso, ha deciso di istituire una postazione di controllo all'interno delle ultime foreste primarie della Lapponia finlandese, dove le comunità indigene Sami - allevatori tradizionali di renne - si oppongono al taglio degli alberi nel proprio territorio.

Ma se la partnership pubblico-privato può incontrare qualche problema nella ricca e democratica Finlandia, come possono paesi deboli e sull'orlo del collasso, come quelli che si affacciano sul bacino del Congo, garantire che la gestione delle risorse forestali sia davvero sostenibile anche per le comunità che ci abitano? Abbiamo girato la domanda alla premio Nobel keniana: «Non sono d'accordo con quella parte della società civile che non vuole trattare con i privati» ha subito risposto. «Non bisogna avere paura di dialogare con gli imprenditori, soprattutto in Africa, dove senza l'apporto del privato non si va da nessuna parte». E Wangari Maathai torna a citare - come nell'intervento ufficiale - il contestato Nepad, quel programma di investimenti pubblici-privati che è stato lanciato poco prima del vertice di Johannesburg: «La società civile è importantissima ma non può fare tutto da sola: deve lavorare con i governi e con il settore privato che, da parte sua, deve diventare più responsabile nell'utilizzare le risorse naturali».

Dunque le critiche sono tutte infondate? Ovviamente la signora Maathai non è così drastica ma si mostra più vicina alle agenzie delle Nazioni Unite e al nuovo governo del Kenya - che dopo l'allontanamento del padre-padrone Daniel Arap Moi manifesta forti segnali di apertura verso la società civile - che non al movimento dei movimenti. Alla richiesta di commentare la decisione di tenere il prossimo Forum Sociale Mondiale in Africa appare in imbarazzo, e decisamente poco informata. L'unica nota dissonante nel clima idilliaco del "capitalismo sostenibile" è la richiesta, rivolta ufficialmente dal premio Nobel per conto del Summit di Brazzaville, di cancellare il debito per «liberare le risorse necessarie a finanziare i progetti di conservazione» che, insieme ai fondi delle Nazioni Unite, devono arrivare a quel miliardo e trecento milioni di euro necessario per mettere in pratica il Piano di convergenza.

La posizione di Wangari Maathai coincide con quella di molti governi africani - primo fra tutti il Sudafrica - che propongono una gestione imprenditoriale delle risorse naturali per arginare lo sfruttamento selvaggio. Resta da vedere se le potenti corporation del legname, abituate a dettare condizioni ai deboli e poveri governi locali, si lasceranno imbrigliare dalle esigenze della sostenibilità ambientale e sociale. Da questo punto di vista è decisivo il ruolo che agenzie internazionali come la Fao possono svolgere sia per monitorare la messa a punto di simili progetti che per affrontare le emergenze. Una volta salutata la testimonial d'eccezione -diretta a perorare la causa degli alberi africani davanti al parlamento italiano- i ministri e i circa 400 rappresentanti dei paesi membri, fra organizzazioni non governative e settore privato, sono infatti tornati a parlare d'emergenza: dallo Stato delle foreste del Mondo 2005, pubblicazione appositamente preparata per il summit ministeriale, vengono fuori cifre da brivido. Ogni anno vengono distrutti nel mondo oltre 9 milioni di ettari di foreste, il che non è soltanto un danno ambientale ma anche economico, sociale e culturale per le comunità che ci abitano. E la colpa non è solo dell'industria del legname ma anche degli incendi, altra emergenza gravissima visto che, ogni anno, nel mondo vengono in media distrutti dal fuoco da 400 a 500 milioni di ettari. Ultimamente la cooperazione bilaterale e multilaterale è aumentata ma, fino a questo momento, ci si è concentrati più sullo spegnimento degli incendi che sulla loro prevenzione.

I ministri hanno discusso, tra l'altro, del ruolo delle foreste nella riabilitazione delle comunità asiatiche colpite dallo tsunami. E' stata sollecitata una valutazione globale dei danni forestali e del legname necessario per una ricostruzione che, secondo la Fao, va affrontata con la massima cautela. Una ricostruzione speculativa, oltre a danneggiare sull'immediato le popolazioni sopravvissute, potrebbe ipotecare le importanti risorse naturali dell'area per gli anni a venire.

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