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E' uscito il terzo numero dell'"Ecologist italiano"

La nostra spesa: un paradiso artificiale in un deserto alimentare?

12 settembre 2005
Fonte: http://www.ecologist.it/spesa.html
settembre 2005

copertina ecologist italiano In Tempi Moderni, uno dei capolavori di Charlie Chaplin, una scena memorabile è quella del sogno di opulenza dei due vagabondi. Seduti affamati sul bordo di una strada sognano una casa in cui i frutti esotici (l'uva) si trovano a portata di mano fuori dalla finestra e la mucca viene a servire il latte sulla porta di casa senza bisogno di essere munta; insomma un vero paradiso. La scena risulta comica in quanto lo spettatore sa che la realtà è ben diversa e conosce come la frutta arriva alla tavola o come si mungono le mucche. Oggi però stiamo assistendo a qualcosa di simile al sogno rappresentato da Chaplin che ci coinvolge a livello collettivo. Il legame tra i nostri acquisti (non solo quelli alimentari) e la realtà è fortemente mediato se non del tutto sostituito da sovrastrutture pubblicitarie, commerciali e distributive che stanno cambiando il vissuto culturale e percezione di ciò che sta dietro i nostri acquisti. Di fatto aumenta continuamente la distanza culturale tra la vita quotidiana delle persone e l'origine dei prodotti naturali Alcune indagini svolte negli Usa ed in Italia hanno mostrato come sia diffusa una conoscenza molto approssimativa dell'origine del cibo quotidiano al punto che alcuni bambini abitanti nelle grandi città non sono in grado di disegnare un pollo vivo (lo disegnano spennato) o non abbiano chiaro da dove viene la bibita chiamata latte che bevono tutte le mattine. Ma forse ancora più preoccupante è il fatto che donne e uomini anche sopra i 50 anni, e quindi con una certa esperienza, si trovino a far la spesa e spendere più che nel passato semplicemente comprando più o meno quello che si trova sempre al supermercato sotto casa: zucchine, pomodori, insalate, carciofi. Il Paradiso artificiale del supermercato ci fa dimenticare il fatto banale che esistono le stagioni, per cui nella nostra regione o anche nel nostro paese frutta e verdura crescono naturalmente solo in alcuni periodi dell'anno. Se li troviamo fuori stagione possiamo essere sicuri di alcuni fatti:

1. provengono da molto lontano o sono stati coltivati in modo non naturale (serre riscaldate, chimica, ogm)

2. racchiudono un notevole costo energetico

3. ovviamente costano di più al nostro portafoglio!!

Se questo accade per i prodotti freschi, ovviamente la situazione diventa sempre più complessa per i prodotti trasformati o conservati. Nel Paese del pomodoro uno studio della Coldiretti a metà 2004 mostrava che l'importazione dalla Cina di pomodori preparati o conservati è risultata pari a oltre 71.000 tonnellate per un valore di 31 milioni di Euro nel primo trimestre dell'anno (2004): ciò corrisponde ad un aumento, in quantità, del 17% sull'anno precedente raggiungendo un livello quantitativo mai fatto segnare prima e conferendo alla Cina il ruolo di primo Paese fornitore dell'Italia di trasformati di pomodoro. Analizzando i dati che si trovano sull'annuario statistico Istat 2004 (dati 2003) e sull'annuario 2003 dell'Istituto per il Commercio Estero (dati 2002), in effetti si possono mostrare alcune cose interessanti. L'Italia rimane un paese con una elevata produzione agricola, ma negli ultimi anni la tendenza è stata quella di importare più derrate alimentari di quante ne esporta: riprendendo l'esempio dei pomodori (per i quali il saldo è ancora positivo) tra il 2002 ed il 2003 le importazioni sono cresciute da 58 ad 85 migliaia di tonnellate e le esportazioni sono calate da 127 a 104 migliaia di tonnellate. Su molti altri prodotti tipici dei nostri campi invece il saldo è negativo: patate, cipolle, agli; per i peperoni ne importiamo ben 59.000 tonnellate mentre ne esportiamo solo 9000.

Addirittura importiamo dall'Olanda il doppio della frutta e verdura che esportiamo in quel Paese: pur essendo quantità minime rispetto alla produzione nazionale, questo è un chiaro indicatore di un effetto distorsivo del mercato rispetto al buon senso che ci suggerisce la natura. Infine, per tutta una serie di beni alimentari la produzione nazionale (in percentuale sul totale nell'elenco successivo) non è in grado di soddisfare i consumi interni: legumi secchi (26%), frumento tenero e duro (41%), olii vegetali (52%). Viene da pensare che oltre al fatto che alcuni bambini non sappiano disegnare un pollo, la società si organizzi tra due poli: il paradiso artificiale in cui si trova tutto sempre e il deserto alimentare che circonderebbe le nostre città. Un deserto che rischia di essere tale non tanto per la capacità produttiva (che non manca), ma per la percezione culturale di un territorio che non sappiamo cosa può produrre, che rischia di divenire monocolturale, che addirittura rischia di essere abbandonato in quanto anche aziende agricole italiane iniziano a delocalizzare la produzione in paesi in cui terreni e manodopera costano meno. Un fenomeno, quest'ultimo, che sta interessando sempre più anche il biologico italiano che, nato dalla riscoperta della campagna e della sua cultura, rischia di venir risucchiato dalla competizione e dalle logiche di mercato nel vortice che porta ad accrescere le distanze tra i prodotti ed i consumatori. Il trend che allontana il campo dalla bocca, oltre che dai dati sopra esposti, è evidenziato anche dalla crescita regolare della distanza media percorsa da frutta e verdura per arrivare ai punti vendita che nel 2003 (ns. elaborazione) è stata di oltre 343 km! Uno dei fattori che favorisce questo meccanismo è sicuramente il modello distributivo che per le economie di scala si sta orientando sempre più verso la grande distribuzione (al ritmo del 4% annuo dei volumi di vendita) e in cui la strategia di vendita impone la necessità di creare il paradiso artificiale: in esso non mancano mai le varietà, ma non si accettano diversità. Anche l'Italia, pur con un sistema in cui ancora prevale la piccola vendita al dettaglio, rischia di avvicinarsi a grandi passi al del modello distributivo inglese in cui la vendita del cibo avviene ormai all'80% nella grande distribuzione (Reynolds, The Ecologist, UK, Aprile 2005, pag. 60) con conseguente scomparsa dei piccoli negozi di prodotti locali che svolgono anche un importante funzione di presidio e socializzazione sul territorio. Il buon senso ci fa intuire che ci deve essere qualcosa che non va in un sistema che porta all'abbandono delle campagne (e analogamente alla scomparsa del lavoro artigianale e manifatturiero) e se ragioniamo una po' sul perché si determina una situazione del genere ci si rende conto facilmente che una parte delle responsabilità è sicuramente nelle mani dei cittadini, dei consumatori, delle persone e del loro modo di fare la spesa. Tra i tanti cosiddetti diritti del consumatore dovremmo riappropriarci del diritto di scegliere, di non comprare ciò che non ha senso, di riportare nell'atto dell'acquisto il piacere della relazione umana e del rispetto della natura. Si può fare, si comincia a fare in Italia anche riscoprendo vecchi sani modi di fare la spesa...

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