Influenza aviaria, allarmi inutili collassa la zootecnia
15.10.05
Strana gente gli umani: accettano tranquillamente il rischio di schiantarsi con la macchina, probabilità statisticamente tutt'altro che remota, ma fanno incetta di farmaci perché, in due anni, 65 persone sono morte in quattro popolosi paesi asiatici per un'influenza particolarmente virulenta. Del resto, pressati dagli enormi interessi economici in gioco, i cittadini europei non possono che cavalcare l'onda di panico alimentata dai media, che continuano ad alternare visioni apocalittiche e inviti alla calma.
Riepilogando. Siamo alle prese con l'ennesima crisi di un modello alimentare che, nell'arco di una decina d'anni, ci ha dato polli alla diossina, carne agli ormoni, mucche impazzite e nuovi virus. L'influenza avicola preoccupa particolarmente perché è nota (da vent'anni) la sua connessione con le influenze umane: i virus influenzali transitano per i cosiddetti "serbatoi" animali dove mutano e si rendono irriconoscibili agli anticorpi umani. Ogni tanto i polli vengono infettati da ceppi particolarmente cattivi - come quello che, negli anni Novanta, ha messo in ginocchio gli allevatori - che talvolta possono sfociare in epidemie influenzali umane particolarmente virulente - è successo nel ‘57 e di nuovo nel '68 - e che, prima o poi, potrebbero dare luogo alla temuta pandemia simile della Spagnola che decimò i nostri nonni.
Tuttavia, benché il pericolo sia consistente, tanto e vero che da anni gli esperti insistono sulla necessità di potenziare i sistemi sanitari nazionali, attualmente non c'è alcun elemento per sostenere che la grande pandemia è cominciata. Nel 2003 è stato isolato in Asia un virus dei polli particolarmente devastante, l'H5N1, che occasionalmente sembra infettare i lavoratori del settore, fra i quali si è registrata una mortalità pari quasi al 50 per cento (superiore alla comune influenza ma inferiore a molte altre malattie) ma non c'è ancora stato nemmeno un caso di trasmissione da uomo a uomo, che sarebbe poi il primo stadio di un'epidemia influenzale su larga scala. Se si dovesse manifestare il paziente zero, comunque, resterebbe ancora da accertare se il ceppo mutato è davvero così virulento. A quel punto bisognerebbe procedere con la sintesi di un vaccino mirato mentre, chi se la sente, potrà decidere di sperimentare su di sé il Tamiflu, antivirale sintetizzato anni fa per tenere a bada i sintomi delle comuni influenze. Il farmaco prodotto dalla Roche si è dimostrato efficace in provetta, ma non è detto che funzioni anche in vivo soprattutto se si sono già manifestati ceppi resistenti in Vietnam come denunciato ieri da alcuni ricercatori francesi e dalla rivista scientifica britannica Nature.
Un ottimo antidoto contro gli allarmismi è la consultazione del sito dell'Organizzazione mondiale della sanità che, come al solito, dedica l'apertura alle emergenze sanitarie della settimana: il terremoto in Pakistan, una campagna sulla sepsi negli ospedali e l'allarme polio in Indonesia. All'influenza aviaria è dedicato un link con l'aggiornamento, ovvero uno scarno comunicato in cui l'Oms dichiara che «il livello d'allerta pandemia resta alla fase 3: un virus nuovo per gli umani che causa infezioni ma che non sembra diffondersi facilmente da persona a persona». Abbassa i toni anche il Commissario europeo alla salute Markos Kyprianou che dichiarava ieri: «attualmente non c'è un vaccino per l'uomo perché non c'è un virus». Ma, se il virus non c'è, perché si annuncia la pandemia?
Entrano qui in gioco numerosi fattori, che vanno dall'uso spregiudicato dei media da parte dell'industria farmaceutica, costretta ogni anno a contare sulla paura - ricordate la Sars? - più che sulla voglia di vaccinarsi per mali di stagione pericolosi solo per i soggetti a rischio, a cui si aggiunge la paura del "pericolo giallo" - in senso commerciale, s'intende. L'allarme pandemia viene gonfiato dal confluire di molteplici interessi che vanno dalla paura dell'invasione degli alimenti asiatici agli interessi di un'azienda farmaceutica (la Roche) con un costosissimo farmaco (il Tamiflu) che stava per essere ritirato dal mercato prima che scoppiasse l'aviaria, e che ora va a ruba. Una grande fortuna, visto che l'antivirale non ha ancora completato tutte le sperimentazioni cliniche. Detto in parole povere, non è ancora provato che il Tamiflu sia efficace sugli esseri umani e contro una variante virale che deve ancora manifestarsi. A tutto ciò si aggiunge il fatto che, vuoi per ignoranza vuoi per convenienza, i giornalisti hanno abdicato al loro ruolo critico limitandosi a strillare allarmi senza alcun senso di responsabilità rispetto agli effetti che una tale campagna avrebbe potuto provocare. Bisogna ringraziare la scarsa fiducia della gente comune nella stampa se ancora non si registrano fenomeni di vero e proprio panico e se la vendita dei polli in Italia si è "soltanto" dimezzata.
E qui veniamo al nocciolo della questione, non la pandemia quanto l'ennesima catastrofe di un modello di allevamento malato, crudele e alla lunga sostanzialmente antieconomico, una catastrofe per la quale siamo tutti chiamati in causa, dai cittadini che vogliono mangiare sempre più carne ai produttori votati al profitto a breve termine più che alla qualità, anche perché pressati dalla concorrenza internazionale imposta da quei geni del libero commercio a tutti i costi - leggi Wto. Ora, per avere carne a basso costo, gli animali non si possono allevare: bisogna fabbricarli. Il che significa che vengono trattati come veri e propri prodotti da catena di montaggio: vengono resi omogenei allevando un'unica progenie, vengono ammucchiati in spazi ridotti oltre ogni immaginazione e vengono trattati con ogni sorta di diavoleria tecnica e farmacologia per farli crescere in fretta e per tenere lontane le malattie che, in queste condizioni, si moltiplicano.
Negli allevamenti trasformati in lager si riesce davvero a produrre carne a costi competitivi ma al prezzo di esternalizzare le perdite sulla collettività. Gli allevamenti inquinano da decenni (ricordate le mucillagini?) e la carne non è salubre (piena di antibiotici, di ormoni e chi più ne ha più ne metta), ma sono costi che ricadono sul produttore solo quando le microcrisi si sommano e si arriva al grande disastro, come nel caso appunto dell'influenza aviaria. A questo punto il panico dei consumatori dilaga e i costi esternalizzati presentano un conto salatissimo: gli allevatori falliscono e migliaia di posti di lavoro se ne vanno in fumo.
Siamo insomma in presenza di una crisi di sistema che non è certo ovviabile con mere misure di contenimento né con l'ennesima passata farmacologica sui poveri animali. Per ora non si può fare altro che cercare di arginare l'epidemia dei polli perché non dilaghi dalla Turchia e dalla Romania negli allevamenti nostrani, ma non si può certo pensare di risolvere la questione a colpi di vaccino. Non è la prima crisi e non sarà certo l'ultima, finché non verrà ridiscusso integralmente il modello della filiera zootecnica, dalle leggi sulla concorrenza internazionale ai vizi dei consumatori, abituati alla fettina quotidiana a prezzi stracciati. La dimostrazione è che, ancora una volta, la difficile scelta degli allevatori biologici di puntare sulla qualità e quindi sui profitti sul lungo periodo, viene premiata.
Sarebbe quindi più saggio preoccuparsi seriamente per il "normale" funzionamento di un sistema impazzito piuttosto che per una pandemia di là da venire. Da questo punto di vista ha molto più senso il piano straordinario di ristrutturazione presentato dal ministro delle Politiche agricole Gianni Alemanno al Consiglio dei ministri, che si basa sul rafforzamento del made in Italy e sul controllo della filiera agroalimentare - un piano che dovrebbe muovere 500 milioni di euro - piuttosto che i 50 milioni stanziati da Storace per gli antiretrovirali di dubbia efficacia. Del resto se si volesse davvero fare qualcosa per prevenire un rischio che la stessa agenzia sanitaria delle Nazioni Unite giudica «molto basso», bisognerebbe ridurre ogni possibilità di contatto fra umani e uccelli migratori bloccando la caccia. Il fatto che tale misura sia stata bocciata la dice lunga su quanto questo governo prenda sul serio i suoi stessi allarmi. Invece di buttarci a fare scorte del farmaco "preventivo" cominciamo invece a riflettere sui veleni che quotidianamente ci mettiamo in corpo, e sulla sensatezza economica del modello produttivo che di questi veleni non può fare a meno, salvo poi disintegrarsi alle crisi ricorrenti da esso stesso causate.
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