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L’Italia sull’altalena del rischio nucleare

Il 4 giugno scorso, l’Europa intera è rimasta per qualche ora col fiato sospeso, alla notizia che la centrale di Krško (Slovenia) – in linea d’aria poco più di cento chilometri da Trieste – aveva subito una perdita di liquidi dall’impianto di raffreddamento. Nonostante l’allarme sia rientrato in serata, si è riproposto ancora più vicino e minaccioso l’incubo di Chernobyl.
6 luglio 2008
Simone Florio

Pericolo nucleare Il 4 giugno scorso, l’Europa intera è rimasta per qualche ora col fiato sospeso, alla notizia che la centrale di Krško (Slovenia) – in linea d’aria poco più di cento chilometri da Trieste – aveva subito una perdita di liquidi dall’impianto di raffreddamento.

Nonostante l’allarme sia rientrato in serata, si è riproposto ancora più vicino e minaccioso l’incubo di Chernobyl.

Un comunicato diffuso da Alessandro Vuan del Centro di Studi Sismologici di Udine aggiungeva dettagli poco confortanti sia sulla sicurezza della centrale in questione (rimodernata più volte e nonostante questo continuamente a rischio, anche per la presenza di faglie nel sottosuolo), sia sulla mancata applicazione da parte della Regione Friuli - Venezia Giulia delle direttive Euratom 96/29 e 89/618 - che prevedono l’obbligo dei piani d’emergenza e quello d’informazione preliminare in caso di rischio radiologico, anche quando questo si presenti al di fuori del territorio nazionale.

Direttive che d’altra parte sono state ugualmente e sistematicamente ignorate non solo per quanto riguarda le testate nucleari statunitensi alloggiate in Italia nelle basi di Ghedi ed Aviano – la conferma della cui presenza presso l’opinione pubblica è giunta con un recente studio del Natural Resources Defence Council e che oltretutto (secondo lo stesso Dipartimento della Difesa americano) sono alloggiate in siti considerati insicuri – ma anche per tutti i mezzi a propulsione nucleare che transitano nelle acque territoriali senza previa informazione della cittadinanza, come è il caso della portaerei Truman al largo del golfo di Napoli nel novembre 2007.

Sotto questa luce, le ripetute affermazioni del Ministro per lo Sviluppo Economico Claudio Scajola di tornare al nucleare civile dimostrano quanto insensibile sia il Governo – di qualunque maggioranza - sulla questione sicurezza e protezione della popolazione. Infatti l’Italia, per le sue inadempienze sulle direttive Euratom, è stata il 28 giugno 2006 deferita alla Corte di Giustizia Europea. Il Ministro, invece di scusarsi a nome dello Stato con il popolo italiano, versa benzina sul fuoco asserendo che l’Italia lavorerà per arrivare entro il 2020 ad una quota del 25% di energia atomica sul totale della produzione energetica nazionale (Repubblica, 29/06/2008).

Tutto ciò risulta paradossale – se non scandaloso – se è vero che l’Italia (riferisce un rapporto del Consiglio Regionale del Lazio) deve ancora disfarsi di 90.000 metri cubi di scorie derivanti dalla produzione di energia nucleare tra gli anni Sessanta e Ottanta (cioè prima del referendum abrogativo) e smantellare le centrali di vecchia generazione: costi che dal 1989 (e fino al 2021) vengono addebitati sulle bollette dell’Enel. In breve, gli italiani stanno ancora pagando per il nucleare civile di vecchia generazione eppure Scajola ritiene utile - se non necessario – investire, con costi da capogiro, nel nucleare civile di nuova generazione.

Il popolo italiano si è espresso in modo univoco sulla questione del nucleare come fonte energetica l’8 e 9 novembre del 1987, decretandone l’inapplicabilità sul territorio della Repubblica. I rischi per la popolazione e l’ambiente venivano considerati troppo elevati, anche a cambio di energia a basso costo. Ma questa forse è una storia troppo vecchia per il nostro Ministro. Allora è forse il caso di aggiungere altri particolari.

In tempi recenti il mondo accademico e scientifico – in passato spesso reticente o defilato - si è ampiamente mobilitato per dissuadere i nostri politici da una scelta così insana. Si veda innanzitutto il fondamentale documento - facilmente reperibile in rete - a cura del Prof.Baracca (Università di Firenze) che reca l’eloquente titolo ‘Cercando di decifrare il libro dei sogni (o degli incubi) dei faraonici programmi nucleari’. In esso si cerca di smontare il mito della bontà del nucleare civile, a partire dai tanto decantati reattori di quarta generazione che – ricorda il fisico - ancora non esistono (sarebbero pronti non prima del 2030) e la cui eccezionale sicurezza non potrebbe quindi essere verificata. Secondo lo scienziato investire in questa fonte di energia sarebbe insomma – senza mezzi termini - regalare un assegno in bianco alla lobby degli industriali.

Ma Baracca appunto non è solo. A marzo è stato infatti promosso dal Prof. Balzani (Università di Bologna) un appello contro la riproposta del nucleare civile. La raccolta firme ad esso collegata è stata sottoscritta in poco tempo da più di 5000 persone, tra cui oltre 1200 tra docenti e ricercatori – cosa che dovrebbe perlomeno far riflettere. Le motivazioni che inducono gli studiosi a scartare l’opzione nucleare per l’approvvigionamento energetico sono infatti molte: “la necessità di enormi finanziamenti pubblici, l’insicurezza intrinseca della filiera tecnologica, le difficoltà a reperire depositi per le scorie radioattive, la stretta connessione tra nucleare civile e militare, il possibile bersaglio per attacchi terroristici, l’aumento delle disuguaglianze tra paesi tecnologicamente avanzati e paesi poveri, la scarsità di combustibili nucleari”.

Su questo ultimo punto vale la pena riflettere. Secondo un articolo apparso su Le Temps e in Italia su l’Internazionale «dal 2001 al 2007 il prezzo dell’uranio si è moltiplicato per dieci» (da 7 a 75 dollari) e «dal 1991 non si estrae più abbastanza uranio per coprire il fabbisogno delle attuali 450 centrali nucleari civili sparse per il mondo». Stando così le cose – e considerate le tensioni che la corsa ad accaparrarsi risorse energetiche scatena con sempre maggior frequenza nel mondo, i rischi connessi alla crescita del terrorismo internazionale, la grossa ambiguità insita nella distinzione tra nucleare civile e militare, la difficoltà estrema dello smaltimento delle scorie - vale davvero la pena investire in questo settore e non – piuttosto – nella ricerca e nell’utilizzo di energie pulite, rinnovabili, gestite a livello locale? La conclusione degli autori è netta: oggi solo i politici non hanno ancora capito che il nucleare non ha futuro.

Forse su un problema spinoso come quello del nucleare Scajola dovrebbe avere l’umiltà – e l’onestà – di dichiarare il suo errore di valutazione e fare un passo indietro. O magari raccontare quali reali interessi ci sono dietro questa insistenza. Secondo Giuseppe Onufrio, direttore delle campagne di Greenpeace Italia, la questione infatti non starebbe nella convenienza dell’energia nucleare – che costituisce, quali che siano gli avanzamenti tecnologici, una minaccia costante per ambiente e popolazioni - quanto piuttosto nella possibilità di siglare accordi milionari con i costruttori stranieri, in primis statunitensi e francesi.

L’ostinazione del Ministro, ribadita in più di un’occasione, non può non apparire grottescamente mistificatoria. Per la prima produzione di energia nucleare ci sarebbe da aspettare non meno di dieci anni. Il sistema energetico nucleare italiano dovrebbe essere appunto reimpiantato da zero, con ingenti finanziamenti statali destinati alla ricerca, agli studi di fattibilità per la localizzazione delle centrali e dei depositi, all’acquisto di materia prima e tecnologie di ultima generazione, al controllo del processo di arricchimento, alle procedure di stoccaggio e smaltimento delle scorie radioattive. Ma quanti crederebbero che questo possa avvenire tutelando adeguatamente i cittadini, in un paese dove non si riesce a smaltire efficacemente neanche i rifiuti urbani?

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