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Lanciata, nella totale assenza di dibattito, una nuova tecnologia, talmente nuova che a malapena si riesce a comprenderla. Con la ricerca concentrata in poche, potenti mani: quelle di multinazionali, aziende biotech ed eserciti.

Nanobiotecnologie, la scienza al servizio dei militari

7 marzo 2004
Sabina Morandi


Lanciata, nella totale assenza di dibattito, una nuova tecnologia, talmente nuova che a malapena si riesce a comprenderla. Con la ricerca concentrata in poche, potenti mani: quelle di multinazionali, aziende biotech ed eserciti
Per chi ha vissuto dall'inizio l'avvento del biotech sembra di assistere a un remake dello stesso film: difficoltà di reperire notizie che non siano informazioni aziendali, ricercatori che si prestano a confezionare iperboli fantascientifiche e grandi spostamenti di capitali. Paradossalmente l'unica voce prudente proviene da uno dei pionieri della nanotecnologia: Eric Drexler, il ricercatore che negli anni '80 preferì frenare per «non scoperchiare il vaso di Pandora di una tecnologia potenzialmente rischiosissima», come dichiarò allora.

«Perché costruire automobili quando puoi semplicemente farle crescere?» Comincia così l'editoriale di NanoTechnology Magazine, la rivista on-line dedicata al nuovo settore di ricerca. Di cosa parlano è presto detto: praticamente di tutto. Sì perché nanotecnologia molecolare significa intervenire direttamente sugli atomi per "assemblare" - così sostengono i suoi fautori - direttamente le materie prime, per costruire microscopici robot in grado di autoreplicarsi o bio-robot grandi come cellule capaci di entrare nel corpo dei pazienti per riparare i danni organici. Fantascienza? Può darsi. Nel frattempo il Dipartimento della Difesa statunitense nel 2002 ci ha investito 8,75 milioni di dollari del suo budget totale. Ma sono bruscolini. I veri soldi li trovi nel giro delle start up, come si chiamano le aziende emergenti specializzate nell'alta tecnologia, o in quello delle finanziarie che lavorano con i capitali speculativi, già protagoniste del boom biotech.

Qualche piccolo problema
«La storia si sta ripetendo: nella totale assenza di dibattito viene lanciata una nuova tecnologia, talmente nuova che a malapena si riesce a comprenderla. E nel nanotech, come agli albori del biotech, vige la concentrazione della ricerca in poche, potenti mani. Che, tra parentesi, sono sempre le stesse». A parlare è Pat Moony, fondatore e presidente dell'Etc, l'organizzazione canadese diventata famosa per la sua lotta contro la Monsanto e che ora lancia l'allarme sui pericoli della nuova tecnologia: «Le possibilità offerte dalla nanotecnologia sono notevoli: si potrebbero produrre materiali meno inquinanti, fare riciclaggio su larga scala o rendere economico l'impiego di energie rinnovabili. Ma credo che sia ormai chiaro a tutti che nel valutare una nuova tecnologia bisogna porsi una semplice domanda: chi la controlla? Se non c'è alcuna possibilità di un controllo sociale che imponga un utilizzo prudente e razionale, e soprattutto vantaggioso per la collettività nel suo insieme, è davvero difficile che una nuova tecnologia porti qualcosa di buono».

Chi la controlla è presto detto: Xerox, Exxon, Boeing, Ibm e Toshiba, più le solite note dell'industria biotech che si sono lanciate nel nuovo mercato. E, a proposito della prudenza, sorgono spontanee alcune domande: cosa succederebbe se le nanomolecole disperse nell'ambiente si rivelassero dannose? Ci sono modi per controllarle? Nessuno risponde: gli esperti tacciono e gli altri non ne sanno abbastanza.

Al servizio del controllo
Le nanobiotecnologie, ovvero il matrimonio fra nanotecnologia e ingegneria genetica, sono la punta di diamante di un progetto di ricerca francese contro il bioterrorismo, ovvero il rischio di subire un attacco con armi batteriologiche. Il Commissariato per l'energia atomica francese (Cea), creato nel 1945 per "fare la bomba", sponsorizza dagli anni Novanta il progetto NanoBio che ha come obiettivo la creazione di "biopulci" o "chip" al Dna. Si tratta di combinare frammenti di Dna e miniaturizzazione informatica su scala nanotecnologica per ottenere dei rilevatori di materiali organici particolari, come quelli che potrebbero utilizzare i bioterroristi. Per farlo si è creato un altro ibrido: quello fra aziende biotech e militari.

Il Cea ha infatti lanciato questo "programma altamente confidenziale" insieme a una start-up, Apibio, affiliata del gruppo BioMérieux, multinazionale francese che a Grenoble impiega 5.400 persone nei suoi laboratori. Ora che la Apibio è pronta a lanciare sul mercato il suo prodotto si passa dalla segretezza allo spot pubblicitario. Fra breve, assicurano, le biopulci potranno analizzare in tempo reale la presenza di alcuni marker tumorali, la resistenza ai farmaci e, soprattutto, smascherare i microscopici agenti di un attacco bioterroristico. A questo si deve l'interessamento dei militari francesi accusati - fonte Cia - di possedere stock di vaiolo non dichiarati. Il perché è presto detto: per i programmi di "difesa" bisogna disporre di armi batteriologiche, per lo stesso motivo che rende necessari i veleni per produrre gli antidoti. Una logica inossidabile che ha fatto sì che nel laboratorio P4 del gruppo BioMérieux sia stato accumulato un arsenale di nuove armi da guerra - compreso, si dice, il temibile Ebola - cosa che non fa certo piacere agli abitanti della cittadina francese.

Alla fine, malgrado sia evidente che gli unici a possedere armi batteriologiche sono proprio gli Stati - le lettere all'antrace non venivano infatti proprio da un laboratorio militare statunitense? - si continua a fantasticare di armi terribili e poi si finisce col costruirle. Come propone di fare la Defence Advanced Research Projects Agency che vuole disperdere per l'ambiente organismi modificati con i geni dei virus letali per rilevare possibili attacchi. Sembra proprio che i militari di ambo le sponde dell'Atlantico stiano alacremente lavorando per creare i mostri da cui vorrebbero difenderci.

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