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Una cappa di caldo sul pianeta

I paesi del sud divisi sul fronte del clima

18 marzo 2004
Agnés Sinaì*

Il fenomeno del riscaldamento del clima fa pesare sull'umanità una minaccia di proporzioni globali. Incaricati di agire per ridurre le emissioni di gas a effetto serra, dal Vertice della Terra di Rio nel '92, nel quadro di un partenariato mondiale, gli stati si dividono sulle soluzioni. Mentre i paesi industrializzati temono la messa in questione del loro modello di società e le nazioni emergenti rifiutano di essere ostacolati nei loro progetti di sviluppo economico, coloro che diventerebbero le principali vittime dei cambiamenti climatici chiedono soluzioni rapide. Quella dell'energia diventa dunque una questione vitale. Tuttavia, in Francia a differenza di quanto avviene in altri paesi europei vicini, non ci si interessa quasi alle energie rinnovabili.


La metà dei 150.000 micronesiani disseminati nella miriade di idilliaci arcipelaghi del Pacifico, vede periodicamente la propria casa danneggiata o distrutta da bufere di una frequenza e una violenza inusitate.
L'innalzamento del livello degli oceani, osservato nella regione già dalla seconda metà del XX secolo, combinato a maree di straordinaria ampiezza e all'alterazione del ciclo delle piogge, accentua l'intensità delle tempeste. Avanza l'erosione delle coste, mentre la salinità delle acque sotterranee distrugge le piantagioni e l'aumento delle temperature favorisce la comparsa di parassiti che infestano le colture di copra.
«Siamo i primi a essere colpiti dal cambiamento climatico», afferma turbato Joseph Komo, membro della delegazione ufficiale della Micronesia alla nona conferenza sui cambiamenti climatici svoltasi a Milano sotto l'egida delle Nazioni unite, nel dicembre 2003. È venuto a chiedere alla comunità internazionale lo sblocco dei fondi destinati ad aiutare i paesi più esposti a proteggersi dall'impatto del riscaldamento globale.
Come prima cosa, bisognerebbe proteggere le risorse alimentari, realizzare unità di dissalamento, costruire dighe e incrementare gli impianti a energia solare. È questa la rivendicazione presentata ai negoziati sul clima dall'Alleanza dei micro-stati insulari, conosciuta con l'acronimo inglese di Aosis (Alliance of small islands states). Creata nel 1994, questa attivissima lobby conta 43 micro-stati dislocati in tutti gli oceani e le regioni del mondo: Africa, Caraibi, Oceano indiano, Mediterraneo, Pacifico e Mare della Cina del sud. Tutti si considerano particolarmente danneggiati dalle conseguenze dei cambiamenti climatici. Nelle Maldive ci si prepara al peggio. Si sta costruendo un'isola artificiale. Situata a una ventina di minuti da Malé, la sovrappopolata capitale dell'arcipelago, Hulhumale viene costruita due metri al di sopra delle acque e potrà accogliere, una volta finita, circa 100.000 abitanti. Al largo, sulla scia delle correnti calde, i coralli diventano bianchi. Tutti i rapporti del Gruppo intergovernativo di esperti sull'evoluzione dei climi sottolineano la grande vulnerabilità delle scogliere coralline all'innalzamento del livello del mare, all'aumento della temperatura dell'acqua di superficie e alle tempeste sempre più violente.
Popolazioni che vivono agli antipodi avanzano le stesse rivendicazioni.
La Conferenza circumpolare degli Inuit rappresenta i circa 155.000 Inuit di Canada, Alaska, Groenlandia e Russia. La presidente, Sheila Watt-Cloutier, ha approfittato della tribuna di Milano per annunciare che la sua organizzazione farà ricorso presso la commissione dei diritti umani dell'Onu. La coalizione inuita ritiene infatti che i paesi che rifiutano di firmare il Protocollo di Kyoto (1) - Stati uniti, Russia e Australia - contravvengono ai diritti umani, in quanto mettono in pericolo i modi di vita ancestrali dei popoli autoctoni del polo nord.
«Oggi la terra cambia letteralmente sotto i nostri piedi», dichiara Sheila Watt-Cloutier. In Canada, i climatologi predicono l'impensabile: entro una cinquantina d'anni il famoso Passaggio a nord-ovest, che attraverso le isole del nord del paese collega l'Atlantico al Pacifico, nel periodo estivo sarà completamente sgombro dai ghiacci.
Gli abitanti della banchisa si ritrovano, per così dire, sulla stessa barca dei melanesiani del Pacifico. Che lo stesso grido d'allarme venga lanciato da popolazioni geograficamente lontane dimostra che i cambiamenti climatici hanno raggiunto dimensioni decisamente sistemiche.
«In conseguenza della crescita termica, una delle cause prime dell'innalzamento del mare nel corso del XXI secolo potrebbe essere lo sciogliersi dei ghiacciai e delle calotte polari», avvertono gli esperti (2).
Dai poli alle Maldive, tutti i livelli della biosfera sono collegati tra loro e quindi con gli esseri viventi che li abitano. Ma le regioni più vulnerabili ai cambiamenti climatici si trovano alla periferia del mondo industrializzato. Un'ingiustizia tanto più grande in quanto la loro responsabilità nel riscaldamento dell'atmosfera è minima, mentre è massiccia quella dei paesi industrializzati dell'emisfero nord.
Secondo una logica matematica, ogni individuo dovrebbe poter godere di un'identica porzione di spazio ecologico. Poiché la biosfera può riciclare in modo naturale tre gigatonnellate (miliardi di tonnellate) di carbonio ogni anno, la media sostenibile è stimata in circa mezza tonnellata annua di gas a effetto serra per abitante del pianeta: il cittadino del Burkina potrebbe passare dagli attuali 100 kg a 500 kg di gas a effetto serra, mentre l'abitante degli Stati uniti, che ne emette mediamente 5.000 kg ogni anno, dovrebbe teoricamente dividere per dieci le sue emissioni (3).
Con ogni evidenza, i paesi produttori di emissioni hanno già prodotto troppo per riuscire a raggiungere l'obiettivo di equità per capita, a maggior ragione se la suddetta equità tiene conto delle emissioni passate. Si intravede invece un altro, più probabile, scenario: un aumento dell'inquinamento atmosferico da parte dei più grandi paesi in via di sviluppo quali India, Cina, Brasile, Arabia Saudita le cui emissioni, entro il 2050, saranno pari a quelle dei paesi industrializzati.
La realizzazione dell'equità non avrebbe più alcun rapporto con obiettivi ecologici. Servirebbe da alibi al disastro climatico, eventualità peraltro non esclusa dalle previsioni più allarmiste formulate dai ricercatori del Gruppo intergovernativo di esperti sull'evoluzione dei climi (Giec).
Per ora, i grandi paesi in via di sviluppo, come la Cina e l'India, non vogliono sentir parlare di riduzione delle emissioni, finché i paesi industrializzati non avranno realizzato la loro. Nel corso di una precedente conferenza sul clima, tenuta a Delhi nel 2002, il ministro indiano dell'ambiente, T. R. Balu, aveva provocato una levata di scudi rifiutando anche il più vago accenno ad obiettivi di riduzione che potessero coinvolgere paesi in via di sviluppo come il suo. I piccoli stati insulari si sono sentiti traditi.
La diseguaglianza tra nord e sud fa il paio con i contrasti tra i paesi del sud. Il gruppo dei 77 (4) rappresenta interessi assai diversi, come quelli dei grandi distruttori di foreste quali Cina e Brasile, delle nazioni dell'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec) - che rivendicano compensazioni finanziarie per un'ipotetica diminuzione dei propri redditi petroliferi nel caso di un minor ricorso alle energie fossili - , dei paesi più vulnerabili, come il Mozambico vittima di inondazioni nel 2000, e dei micro-stati del Pacifico la cui forza politica sta nell'aver saputo ergersi a simbolo.
In un quadro complessivo di difficoltà del multilateralismo, dovuta all'isolazionismo degli Stati uniti, la lotta contro i cambiamenti climatici si può assimilare ad una fiction politica internazionale.
Il Protocollo di Kyoto, lascito della Convenzione sul clima del 1992, ha dato luogo, fin dalla sua creazione in Giappone nel 1997, ad una ermeneutica collettiva, un'interminabile analisi del testo le cui finalità fondamentali - garantire la stabilità del clima nell'interesse delle future generazioni - si perdono tra i sofismi degli esperti, per lo più occidentali. Si obietterà che queste solenni celebrazioni, riservate a virtuosismi lessicali da iniziati, contribuiscono alla sopravvivenza del processo. Meglio una finzione che niente. Il cuore del protocollo consiste nei suoi meccanismi, escogitati per dare un prezzo alla tonnellata di carbonio: l'atmosfera cessa di essere gratuita. Diventa merce di scambio sul mercato internazionale. Resta da provare che il prezzo rifletta la scarsità e la fragilità di questo bene comune.
Il Meccanismo di sviluppo pulito (Msp) è l'unico strumento di cooperazione nord/sud previsto dal Protocollo di Kyoto. Dà la possibilità ai paesi industrializzati, alle loro imprese o collettività locali di aiutare a finanziare e a realizzare, nei paesi del sud, progetti di riduzione di emissioni a partire da tecnologie in linea di principio attente al clima: energia solare, dighe idrauliche, centrali di co-generazione, combustibili puliti. In cambio, ai paesi industrializzati vengono attribuiti diritti di emissione supplementari corrispondenti alle emissioni «evitate».
I negoziati di Milano, nel dicembre 2003, hanno trattato, tra l'altro, dei vantaggi che gli Msp potrebbero portare ai paesi del sud. Da un punto di vista geopolitico la loro filosofia presuppone che i paesi destinatari non siano altro che recettori passivi di un sistema concepito per liberare crediti di emissione a favore dei paesi industrializzati, secondo la libera scelta dei loro investitori di capitali. L'unico incentivo sarà costituito dal prezzo della tonnellata evitata.
Così, il sistema probabilmente non riguarderà gli Inuit o i Micronesiani.
Nei loro paesi, visto lo scarso inquinamento, il prezzo della tonnellata evitata sarà molto basso. Al contrario, il meccanismo può interessare i grandi paesi in via di sviluppo. È l'esistenza del Msp che ha convinto la Cina a ratificare, nel 2002, il Protocollo di Kyoto, per attirare investimenti sul suo territorio. Il Canada è il suo partner più attivo nel finanziare progetti di sequestro del carbonio, di riduzione delle emissioni delle centrali a carbone, e di elettrificazione solare e micro-idraulica.
Sarà altrettanto complicato calcolare le «emissioni evitate» nei paesi che, come Cina e Brasile, aspettano che un «fondo speciale per i cambiamenti climatici» dia loro i mezzi finanziari per effettuare l'inventario delle emissioni - di cui una delle zona d'ombra è costituita dalla deforestazione amazzonica, in Brasile. Dotato di un misero budget di 50 milioni di dollari l'anno, questo fondo climatico, gestito dal Fondo mondiale per l'ambiente, sarà forse «operativo» dal 2005, e servirà soprattutto ad aiutare i paesi più minacciati ad «adattarsi» all'impatto dei cambiamenti climatici. Inuit e Micronesiani nel frattempo continueranno ad arrangiarsi come possono.
A meno che non aderiscano alla rete South South North, una delle iniziative più incoraggianti sopravvissute in questi ultimi tempi al vortice climatico - politico. Proposta da associazioni e giuristi di Brasile, Sudafrica, Bangladesh e Indonesia, South South North propone essenzialmente un capovolgimento di prospettiva per quanto riguarda lo sviluppo e un reinvestimento ecologico dei meccanismi di Kyoto (5).
La rete propone di mettere il Msp al servizio delle popolazioni interessate, aprendo la strada a progetti modello di eco-sviluppo adatti al contesto locale, che meriterebbero, anch'essi, di essere finanziati: impianti solari in Bangladesh, veicoli elettrici per il trasporto pubblico a Dacca, potenziamento termico e installazione di scaldabagni solari in un quartiere povero di Città del Capo (Sudafrica), estrazione di biogas da una discarica urbana a Rio (Brasile), carburanti puliti sui mezzi pubblici di Yogyakarta a Giava (Indonesia).
Progetti destinati ad essere riproposti ovunque nei paesi del sud del mondo e in grado di dimostrare che è possibile per questi paesi orientarsi direttamente verso uno sviluppo «senza rimpianti», basato su tecnologie durevolmente pulite. Per ora, la procedura si è arenata contro la logica del Msp che, paradossalmente, premia i paesi inquinanti.
In Bangladesh, dove le emissioni di gas a effetto serra sono trascurabili (meno di un'auto ogni 1.000 persone), il bisogno di ridurre le emissioni è oggi inesistente e dunque non consente di sbloccare incentivi sotto forma di crediti di carbonio.
Questo fatto conferma che il Protocollo è una sorta di ready-made concettuale, favorevole, in primis, agli interessi dei paesi industrializzati e dei giganti inquinanti del sud. A meno che altri paesi del sud non inventino strade diverse che si ricolleghino alla sopravvivenza della biosfera.

* Co-autrice di Sauver la Terre, Fayard, Parigi, ottobre 2003.

Note: (1) Il Protocollo di Kyoto, firmato in Giappone durante la Conferenza internazionale, tenuta nel dicembre 1997 su iniziativa dell'Organizzazione delle Nazioni unite per l'ambiente, impegna i paesi industrializzati a ridurre le emissioni di gas a effetto serra in media del 5% tra il 1990 e il 2012. L'obiettivo, benché modesto, rischia di non essere raggiunto perché la ratifica del protocollo è bloccata. Si legga anche Frédéric Durand, «La zattera di Kyoto nel mare dei disastri», Le Monde diplomatique/ il manifesto, dicembre 2002.

(2) Gruppo intergovernativo di esperti sull'evoluzione dei climi (Giec), Bilan 2001 des changements climatiques. Les éléments scientifiques, volume I, p. 30, Ginevra 2001.

(3) Cfr. Changements climatiques et solidarité internationale, pubblicato da Réseau Action Climat et alii, Montreuil, novembre 2003.

(4) Il Gruppo dei 77 è stato creato nel 1964 dai paesi in via di sviluppo. Benché il numero dei paesi sia passato a 133, l'organizzazione ha mantenuto il nome originario per il suo significato storico.

(5) www.southsouthnorth.org (Traduzione di G. P.) aa   qq
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