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Tempi duri per la Coca Cola

Vendite in calo, crisi sanitarie e legali. Ma il gigante delle bibite ora è contestato non tanto perché è un simbolo ma perché combina guai. Per esempio in India
11 marzo 2004
Sabina Morandi


Tempi duri per il gigante delle bevande gassate. Nel dare l'annuncio del ritiro di Douglas Draft, attuale presidente, il Financial Times di ieri dava notizia del calo delle vendite dovuto alla concorrenza di alternative più sane, come l'acqua minerale o le bevande non gassate, premiate da consumatori attenti alla salute e alla linea. Ma il salutismo dei consumatori non è stato il solo problema che Draft ha dovuto affrontare. Dal '99 è stato tutto un susseguirsi di crisi sanitarie - come la scoperta delle contaminazioni degli stock europei nel 2000 - e di svariate accuse di concorrenza scorretta - l'ultima in ordine di apparizione ha innescato un'inchiesta da parte della Sec statunitense. Che dire poi dell'inaspettata concorrenza dei marchi islamici, come la Mecca Cola o la Sam Sam, appositamente lanciati per cavalcare l'antiamericanismo suscitato dall'invasione dell'Iraq? L'identificazione con gli Usa, che tanta fortuna ha portato al marchio, sta presentando il conto.

Ma la Coca Cola non viene contestata soltanto perché è un simbolo. Viene criticato il comportamento della compagnia negli angoli più remoti del pianeta, dove i governi compiacenti e l'estrema povertà favoriscono una certa disinvoltura nei confronti delle leggi e delle popolazioni locali da parte delle grandi transnazionali.

Passaggio in India
Il World Social Forum di Bombay è stata l'occasione per presentare al mondo il Coca-Cola virudha samara samithy, una piattaforma allargata di tutte le popolazioni indiane, in prevalenza indigene, che lottano contro la corporation di Atlanta. Davanti allo sguardo attonito dei giornalisti occidentali, un migliaio di indigeni capeggiati da Medha Padka, leader del movimento contro le dighe, hanno mostrato alle telecamere i loro cartelli contro la più famosa bevanda gassata del mondo. Ma perché mai le remote popolazioni native delle foreste ce l'hanno con la Coca Cola? Difficile che i contadini del Kerala, dell'Uttar Pradesh e del Tamil Nadu - alcuni degli Stati dell'immensa India - possano essere spinti da motivi ideologici o dall'anti-americanismo. La loro ostilità ha infatti motivazioni ben più concrete perfino di quelle che spinsero il governo indiano a cacciare la multinazionale nel 1977 per il mancato rispetto di alcune norme fiscali e aziendali. Ma da quando la Coca è tornata in India, nel '93, attirata sia dal basso costo del lavoro che dal vastissimo mercato indiano, secondo soltanto a quello cinese, le cose hanno cominciato ad andare molto male per alcune comunità, come quella di Plachimada, nel Kerala, che innescato la scintilla dell'incendio delle proteste.

Fino a qualche anno fa Krishna Swami era un agricoltore benestante: oltre alla sua famiglia dava da mangiare a dozzine di lavoranti. «Da quando è arrivato lo stabilimento i canali si sono seccati e la terra ha cominciato a morire», ha raccontato. C'è poco da stupirsi visto che l'impianto ha bisogno ogni giorno di un milione e mezzo di litri d'acqua che aspira in profondità, direttamente dalla falda, prosciugando i pozzi artigianali e provocando la salinizzazione del terreno. Secondo l'Indian National Trust for Arts and Cultural Heritage, l'acqua estratta dalla compagnia corrisponde a quella utilizzata per uso domestico da almeno 20 mila persone, ovvero due terzi della popolazione locale.

Kirshna non è solo. Più di 2400 chilometri quadrati di terre fertili, dove fino a pochi anni fa venivano coltivati riso, mango, banana, sesamo e cocco, sono stati abbandonati dopo l'entrata in funzione del più grande impianto d'imbottigliamento indiano. A chi è rimasto il Distretto medico di Palakkad sconsiglia l'uso domestico dell'acqua dei pozzi rimasti, ormai definitivamente contaminata.

Davide e Golia
Il 22 aprile del 2002 la popolazione di Plachimada decise dare l'avvio alla mobilitazione sotto le bandiere dell'Adivasi samrkshana Samithy, il comitato per la protezione indigena, mentre i maggiori partiti politici del Kerala si dissociavano. Una mobilitazione integralmente basata su varie forme di azioni non violente e su una sola richiesta: o la Coca Cola ripristina le falde acquifere e bonifica l'area contaminata o chiude l'impianto. Sulle prime la corporation negò ogni responsabilità e la polizia fece i suoi arresti nell'indifferenza generale. Ma la resistenza continuò. Dopo circa un anno, la causa degli indigeni aveva conquistato leader come Medha Padka e Vandana Shiva, e attirato l'interesse dei media internazionali. In un'inchiesta mandata in onda il 26 luglio del 2003, la Bbc rivelò che alcuni campioni d'acqua raccolti a Plachimada e analizzati dalla Exeter University britannica contenevano cadmio in rilevante quantità: 65 milligrammi per litro quando il limite sicuro stabilito dall'Organizzazione mondiale della sanità è di 10 milligrammi. Le percentuali di cadmio contenute nelle acque reflue erano niente in confronto a quelle rilevate nei rifiuti solidi: 100 milligrammi per chilo di cadmio, una sostanza notoriamente cancerogena. L'inchiesta della Bbc confermava in pieno le precedenti denunce diffuse dalle ong e dagli ambientalisti indiani che puntavano il dito, oltre che sull'esaurimento delle falde acquifere, anche sulla natura pericolosa degli scarti di lavorazione dell'impianto.

Il 7 agosto del 2003 il Kerala State Pollution Control Board, l'organismo pubblico di controllo dell'inquinamento, confermò la natura tossica degli scarti provenienti dall'impianto della Coca Cola di Plachimada. Simili riscontri dettero gli stessi risultati anche negli impianti dell'Himachal Pradesh e del Bengala: cadmio in abbondanza con una spolverata di piombo, una delle più potenti neurotossine esistenti in natura. Alla fine i risultati vennero confermati anche dal Central Pollution Control Board of India, l'organismo di controllo nazionale.

Nel frattempo, comunque, la comunità non era rimasta con le mani in mano ad aspettare il verbo degli eminenti scienziati e aveva affiancato alla protesta le azioni legali. Il 7 aprile del 2003 il Consiglio dei panchayat revocò formalmente la licenza all'impianto della Coca Cola e diede al gigante l'ordine di fare le valige. Il 16 maggio l'Alta Corte del Kerala bloccò la decisione del Consiglio, giudicandola arbitraria. I panchayat non si diedero per vinti e riformularono una nuova petizione in cui rivendicavano il diritto all'autogoverno. Alla fine, il 16 dicembre scorso, l'Alta Corte del Kerala ha pronunciato una decisione storica che riconosce il diritto all'autodeterminazione dei panchayat e chiede alla Coca Cola di smettere immediatamente di utilizzare l'acqua della falda e di trovare fonti alternative entro un mese. Mentre dal Kerala non provengono notizie sulle conseguenze dell'importante decisione, nella caffetteria che serve i parlamentari indiani dal 21 gennaio è stata proibita la vendita di Coca e Pepsy. Motivo: la presenza di alcuni contaminanti che evidentemente fanno male solo ai deputati regolarmente eletti. E la storia continua...

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