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Accordo fra Mosca e Tokyo per la costruzione di un oleodotto da 10 miliardi di dollari

Caccia al petrolio, la strategia russa

26 marzo 2004
Sabina Morandi    


Nella feroce partitura della guerra globale c'è una trama sottostante. Come la filigrana, va osservata in controluce perché non è facile cogliere le sottili ramificazioni delle rotte petrolifere. Sappiamo tutti che il petrolio c'entra qualcosa con quanto sta accadendo, ma rimaniamo spiazzati quando un autorevole esperto come l'ex dirigente Eni Benito Li Vigni, descrive la guerra di Washington come un attacco votato alla prevenzione non tanto del terrorismo, quanto della possibilità che potenze regionali come Europa, Russia, Giappone e Cina si assicurino un accesso indipendente alle risorse. Ma se gli Stati Uniti mettono piede in Caucaso - dottrina Clinton - e cercano di assicurarsi il controllo del petrolio iracheno - dottrina Bush - stracciando i contratti delle aziende russe e francesi, come rispondono le suddette potenze? Edificando nuove alleanze e sottraendo importanti depositi di risorse al controllo della vera task force della Casa Bianca, le grandi corporation Usa.

Tanto petrolio,
ma lontano
Sulla prima pagina del Financial times di ieri campeggiava l'annuncio del raggiunto accordo fra Mosca e Tokyo per la costruzione di un oleodotto da 10 miliardi di dollari. La pipeline dovrebbe partire da Taishnet, in Siberia, e terminare nel porto di Nakhodka, sul Mar del Giappone. La rotta giapponese sarebbe stata preferita a quella cinese che doveva portare il petrolio siberiano a Daqing, grande centro energetico e sede di raffinerie. A guardare la cartina, però, si rimane stupiti: i due tracciati sono perfettamente compatibili. E' del resto interesse dei russi far affluire verso l'Asia del Pacifico le risorse naturali del paese, e non è poi tanto importante se passeranno per il Giappone o per la Cina, cosa sempre possibile come assicurano i funzionari del Sol levante. Una notizia non particolarmente importante, insomma, finché non si guarda alla filigrana sottostante.

In primo piano ci sono le enormi riserve russe di petrolio e di gas naturale. Sui giacimenti petroliferi, che attualmente pompano nel mercato mondiale fra i 7 e gli 8 milioni di barili al giorno, ci sono poche certezze mentre è sicuro che la Russia detiene un terzo delle riserve mondiali di gas naturale. Entrambi però, sia petrolio che gas, hanno lo stesso problema: la vastità del paese rende il trasporto estremamente costoso. Ecco quindi che un nuovo sistema di oleodotti diventa essenziale, soprattutto ora che le zone caucasiche attraversate dalla vecchia rete sono ormai quasi totalmente destabilizzate - situazione a cui gli americani, interessati alla rotta turca, non sono completamente estranei.

Sfilarsi dal Caucaso presenta quindi due vantaggi per i russi: cominciare a sfruttare massicciamente i giacimenti siberiani a fronte di un aumento esponenziale della domanda asiatica - la Cina ha appena sorpassato il Giappone come secondo consumatore mondiale di energia - e manovrare in una zona dove gli States non hanno ancora una presenza militare. L'accesso al mercato asiatico non è quindi solo un grande affare ma, come si dice oggi, è una questione di sicurezza nazionale. Il Giappone, conservando il ruolo di affidabile alleato di Washington, si ritaglia un ruolo commerciale come intermediario con i paesi asiatici e con la costa statunitense del Pacifico; la Cina, considerata dagli strateghi del Pentagono unico vero concorrente strategico globale, deve assolutamente garantirsi una fonte alternativa a quella mediorientale; infine la Russia, costretta all'angolo dall'aggressiva strategia statunitense, non può certo consentire di lasciarsi risucchiare via l'unica ricchezza che possiede, le risorse energetiche.

L'affare Yukos
Un altro tassello importante del grande gioco petrolifero è stato l'arresto per frode ed evasione fiscale dell'oligarca a capo della Yukos, la principale compagnia petrolifera russa. Nell'ottobre del 2003, Mikhail Khodorkovsky è finito in carcere e le azioni della Yukos sono state congelate. Immediatamente un brivido ha percorso il mercato finanziario internazionale: che stiano ridiventando comunisti? L'allarme è aumentato quando, poco dopo, Putin ha cacciato Alexander Voloshin, ex-capo dello staff e ultra-privatizzatore vicino sia a Khodorkovsky che a Washington. A tutto ciò va sommato lo scarso entusiasmo mostrato da Putin nel lanciare il progetto di privatizzazione della Gazprom, l'azienda statale del gas naturale che controlla un terzo delle risorse mondiali.

Nel caso della Yukos, però, invece di rimandare e di rassicurare gli investitori internazionali sulla sua fede liberista - privatizzando magari settori meno strategici come scuola e sanità - Putin ha agito con estrema rapidità rischiando gli strali dei pasdaran neo-liberisti. Per quale motivo? Per capirlo bisogna andare a spulciare le notizie economiche della primavera 2003, quando venne annunciata per la prima volta l'intenzione di costruire un oleodotto fra i giacimenti siberiani della Yukos e la Cina settentrionale. Il progetto venne presentato come l'occasione del secolo: l'accesso al mercato asiatico potrebbe far passare la produzione da 380 ai 500 milioni di petrolio annui entro il 2010, proiettando la Russia in cima alla lista degli esportatori di petrolio, perfino più in alto dell'Arabia Saudita. Ma Khodorkovsky, sapendo di non avere forze sufficienti per un piano così ambizioso, decise di mettere Yukos sul mercato.

I risultati non si fecero attendere. All'inizio dell'ottobre ExxonMobil, gigante petrolifero statunitense, annunciò l'imminente fusione con Yukos. Khodorkovsky ammise candidamente che gli americani puntavano ad acquisire il 50% più uno delle azioni della Yukos, ovvero il controllo integrale della compagnia. Un affare da 25 miliardi di dollari soffiato alla Chevron e destinato a proiettare la ExxonMobil al top dei giganti petroliferi mondiali. Nel commentare l'evento gli analisti economici prospettarono però una probabile spartizione della torta Yukos fra le due compagnie, con il risultato di aprire ai petrolieri statunitensi i giacimenti della Siberia e, soprattutto, di sottrarre definitivamente al Cremino ogni controllo sulle proprie risorse nazionali.

Quello che quindi non funzionava nell'oleodotto cinese non era tanto il tracciato quanto l'architettura finanziaria. Sotto questa luce l'acquisizione della Yukos da parte della Exxon assume un significato che va ben al di là del business. Dopo l'occupazione militare dell'Afghanistan - con l'istallazione di basi militari basi nelle ex-Repubbliche sovietiche confinanti - e dell'Iraq, e dopo essersi garantita il petrolio caucasico tramite la costruzione dell'oleodotto che arriva in Turchia, a Washington non restava che mettere le mani sulle compagnie russe per isolare la Cina e ipotecare il futuro energetico del pianeta. A quel punto lo zar ha reagito rapidamente: prima gettando Khodorkovsky in galera - dove ancora risiede - e poi rilanciando la rotta giapponese.

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