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La cura della dimora

Il rito e l’identità nelle forme culturali dell’abitare

"Tutte le etiche si fondano su un tipo di premessa: l’individuo è un membro di una comunità costituita da parti interdipendenti. L’etica della terra semplicemente dilata i confini della comunità per includere il suolo, le acque, le piante e gli animali: la Terra". Aldo Leopold
13 aprile 2004
Eduardo Zarelli

Ciascun luogo e ciascun gruppo ha un Genius Loci che può essere comparato a una divinità, la cui presenza continua dà carattere, coesione e “spirito” a quel luogo o a quel gruppo. Il Genius Loci cerca di mantenere un equilibrio congeniale tra gli elementi naturali e le culture, rappresentazioni molteplici dell’essere. Al contrario, si irrita se le caratteristiche e l’armonia vengono modificate da azioni o gesti estranei alla sua identità.

I Greci ed i Romani legavano ciascun luogo ad un particolare nume: ogni fonte, ogni valle, ogni montagna aveva la propria divinità tutelare. Il Genius Loci era un dio minore e locale: non risiedeva sull’Olimpo, ma in una certa città, collina o campagna.

Vi erano vari tipi di Genius Loci. Le Ninfe vivevano nelle fontane, nei ruscelli e nel mare: non erano immortali, ma in genere avevano una lunga vita. Le Naiadi, ninfe delle sorgenti e dei laghi, apportavano fecondità.

Le Driadi erano spiriti degli alberi, dei boschi e delle foreste; secondo antichissimi miti, ogni Driade nasceva con un albero da custodire e viveva nell’albero stesso o nelle vicinanze. Poiché, quando il suo albero crollava, anche la driade moriva, gli dei punivano chi ne aveva causato la distruzione. Perché una città o fortezza rimanesse integra, il nume doveva continuare ad abitarvi.

I corvi rappresentano il Genius Loci della Torre di Londra. Una leggenda racconta che la fortezza sarebbe rimasta inespugnata fino a quando avessero continuato ad abitarvi.

Le oche sono collegate al Genius Loci del Campidoglio. Quando Roma, nel 390 a.C. fu invasa dai barbari provenienti dalla Gallia, le oche, starnazzando, svegliarono il console Mànlio Marco Capitolìno, che li mise in fuga. Omero, nell’Odissea, (XII. 205-6), descrive come le Ninfe tessevano di continuo insieme elementi diversi. Racconta Omero che, nella grotta dove trova rifugio Odisseo, sbarcando ad Itaca, «vi sono telai sublimi di roccia, dove le Ninfe / tessono drappi dai bagliori marini...». 

La classicità suggerisce, dunque, che i luoghi possono avere un’anima e diventare sede di uno spirito del luogo, di un Genius Loci. I luoghi si guadagnano l’anima, attraverso un processo di deposito, di accumulazione di affetti, che viene operato dalle diverse generazioni di persone che li hanno abitati.

Tutte le culture tradizionali e sapienzali erano animate da un’interpretazione sacrale del territorio. Ogni angolo di terra del Pianeta presenta una propria manifestazione simbolica; ogni luogo, in cui gli uomini abbiano lasciato segni anagogici della loro presenza, ha una propria identità contemporaneamente irripetibile e universale. Mircea Eliade ha descritto compiutamente come le culture sciamaniche si basassero sulla consapevolezza che la terra ha un’energia ilomorfica, che varia da luogo a luogo. Carlos Castaneda, riportando le parole dell’uomo di medicina della tribù amerindia degli Hopi, Don Juan, parlava dell’esistenza di “luoghi di potere”, dove è possibile esercitare la “seconda attenzione”, o percezione sottile, il telema mercuriale. Rispettare un "territorio", proteggendolo ecologicamente invece di distruggerlo, significa quindi permettere alla sua energia di vivere, di sopravvivere nel tempo, di giungere sino a noi.

I sacerdoti greci e gli àuguri romani, piuttosto che i druidi celti, erano determinanti nella scelta della fondazione di una città – cosa di per sé sacra, perché sacro era ritenuto l’abitare – che prevedeva primariamente l’individuazione del luogo idoneo per stabilire un nucleo urbano, in base a conoscenze di tipo cosmologico e divinatorio, ancorché geologiche e naturali. L’insediamento, in tal modo, diveniva il luogo in cui poteva esercitarsi la sacralità dell’abitare il microcosmo in simbiosi con il macrocosmo. Lo scopo della fondazione rituale di un luogo consisteva però anche nel “dovere scendere a patti” con il Genius Loci del luogo in cui si costruiva. L’energia propria al luogo naturale veniva richiamata e invitata a “collaborare” con gli abitanti di quell’insediamento. Gli antichi ritenevano che, all’identità propria al luogo, si sommasse l’energia propria alla sedimentazione dell’abitare e degli abitanti del luogo, generata dalle loro attività – sacre e/o profane – nel territorio. Lo spazio era considerato la modalità principale dell’essere nel mondo e si riteneva impossibile comprendere l’essenza dell’uomo indipendentemente dall’ambiente in cui viveva. Si pensava che l’esercizio del pensiero non fosse indipendente dallo spazio/luogo in cui si abitava e che determinasse gli atteggiamenti stessi dell’essere umano. L’oikos greco, quale senso della dimora della manifestazione dell’essere, poneva il “senso del limite” comunitario del vivere associato, in assoluta simbiosi con le risorse naturali del luogo, sia in merito alla cultura materiale che a quella spirituale e, quindi, culturale. In tale contesto, il concetto stesso di “economico” si poneva in termini di sussistenza della comunità: una lettura involontariamente ecologica delle forme di civiltà. 

Abitare, sulla scia della riflessione novecentesca di Heidegger e Kahn, voleva dire condurre ad espressione l’essenza dello spazio, un rapporto essenziale dell’uomo con l’essere. Abitare voleva dire permettere all’anima dei luoghi di manifestarsi in chi viveva in quel dato posto, che la assorbiva in sé, rispettandola, rilanciandola in modo creativo; così l’abitare diveniva un atto sacro di corresponsione con l’energia spirituale della terra, che è la vita stessa.

Questo è il riferimento fenomenologico, che è alla base delle riflessioni dei teorici del pensiero ecologico, come Arne Naess, quando parlano della natura come di un “valore in sé”, che l’uomo deve rispettare perché ne è parte. L’ecologia olistica insegna che non esiste una cosa isolata, tutto è profondamente connesso: «la vita è fondamentalmente una», una stessa sostanza vitale abbraccia ogni forma di vita. Una spontanea capacità di autoprodursi e di autoevolvere secondo un ordine proprio, che ci costituisce nel tessuto delle relazioni da cui dipende la vita dell’intero sistema.

Non si deve pensare però che costruire, architettare, edificare case ed edifici venisse ritenuto nell’antichità un’operazione riduttivamente impositiva e limitante.

Corrispondere all’identità propria del luogo rispettandola, significava corrispondere al divino la condizione umana: sacralizzare l’esistenza in modi autentici di vivere.

Per la maggior parte, le società native, nel mondo intero, avevano tre caratteristiche in comune: possedevano un rapporto intimo e cosciente con il loro luogo; erano stabili culture “sostenibili”, che spesso duravano migliaia d’anni; avevano una intensa vita cerimoniale e rituale. Il nostro modello di civilizzazione è in palese contrasto con tutto ciò: idolatriamo una razionalità strumentale e un tipo riduttivo di “praticità”, che ha disincantato ogni aspetto della nostra cultura. Se intendiamo ristabilire un rapporto vivibile con la natura, sarà necessario riscoprire la saggezza di queste altre culture – consapevoli che il rapporto con la terra e il mondo naturale richiedeva l’intero loro essere – che, fino a qualche decennio fa, erano ancora presenti, per quanto residualmente, nelle consuetudini popolari di molte aree del Paese. Quelli che noi definiamo sbrigativamente i loro “riti e cerimonie” erano in realtà una sofisticata tecnologia spirituale e sociale, affinata in migliaia d’anni di esperienza e di consuetudine tradizionale, che manteneva quel delicato rapporto con ben maggiore successo di quanto facciamo noi. Tutte le culture tradizionali avevano festività e riti stagionali. Lo scopo di tali eventi era di rivivere periodicamente il topocosmo; dal greco topos, luogo, e cosmos, ordine del mondo. Il topocosmo è l’intero complesso di una data località concepito come un organismo vivente: non solo la comunità umana, ma la comunità totale comprendente la natura, il suolo, il paesaggio del posto. Il topocosmo non è solo l’effettiva e presente comunità vivente, ma anche l’entità continua della quale la presente comunità non è che la manifestazione corrente, nella coincidenza simbolica e reale tra l’eternità dell’essere e il fluire del divenire.

Se intendiamo realmente ricollegarci alla terra, dobbiamo cambiare la nostra percezione e il nostro modo di relazionarci, più che il nostro posto. Finché ci faremo limitare dall’utilitarismo razionalista, saremo separati dall’ecologia profonda del nostro luogo. Come sostiene Heidegger, «abitare non è primariamente occupare, ma l’avere cura e creare quello spazio nel quale qualcosa di individuale sorge e prospera». Il rituale è essenziale, perché stabilisce le connessioni profonde tra cultura e natura. Fornisce comunicazione a tutti i livelli: tra la persona e la comunità, tra la comunità e il territorio e, attraverso questi livelli, tra l’umano e il non umano, nell’ambiente naturale. Il rituale ci fornisce uno strumento per imparare a pensare logicamente, analogicamente ed ecologicamente mentre facciamo l’esperienza, unica nella nostra cultura, invece di non opporci semplicemente alla natura o cercare di essere in comunicazione con essa, di trovare noi stessi nella natura, ovvero la chiave per un significato ontologico dell’esistenza e delle sue forme.

Faccio un esempio concreto e non banale: nella cultura popolare i prodotti della terra (l’olio, il vino) sono sacri, in quanto espressione dell’energia della terra, di cui portano impressa la traccia, la qualità essenziale. Mangiare i prodotti della terra che si attraversava era considerato un rito sacro, perché significava arricchirsi dell’energia di quel luogo. Per questo, Trakl individua nella figura del viandante il ricercatore dello spirito, colui che in ogni terra/luogo incontra ciò che è sempre uguale e sempre diverso: la natura autentica della vita e dell'emozione. Per questo motivo, a tavola gli vengono offerti “pane e vino”:

 
Alcuni nel loro errare
Giungono alla parte per oscuri sentieri
Aureo fiorisce l'albero delle grazie
Dalla fresca linfa della terra.
Silenzioso entra il viandante;
il dolore ha pietrificato la soglia.
Là risplende in pura luce
Sopra la tavola pane e vino.

 

Il viandante è colui che vive il Genius Loci proprio nel suo offrirsi di luogo in luogo, in quanto possiede “dentro” il senso archetipico dell’Heimat, dell’empatia della patria.
Si può così comprendere, dal punto di vista della fenomenologia di Heidegger (e del pensiero di Humboldt, prima di lui), il senso dell’affermazione: «La parola è sacra». Quello squadernarsi del mondo nelle quattro direzioni del cielo, della terra, dei mortali e dei divini: un gioco di rimandi allusivi, per cui ogni lato del quadrato è se stesso solo nell’atto di rinviare agli altri. La parola di un certo luogo, la sua lingua, è l’espressione autentica del corrispondere dell'essere umano al Genius Loci di quella terra. La lingua corrisponde allo spirito di un luogo. Per questo, Rilke sosteneva che il poeta fosse “parlato” dalla fonte dell’essere (dell'energia impersonale del luogo). Per questo, Hölderlin scrive: «La parola è il fiore della bocca». Il fiore è l'espressione dell'energia della terra non meno della voce, della parola. Il poeta è colui che coscientemente è “parlato” dall'energia della sua terra.

Di qui l’importanza della lingua di un luogo, del suo dialetto, perché porta in sé la testimonianza più immediata del Genius Loci. Nella manifestazione linguistica vi è quindi un fondamento evocativo sostanziale della cultura locale; ben oltre le forme della resistenza residuale ai margini della omogeneizzazione tecnomorfa della civilizzazione industriale, lo sforzo intenzionale per la sua sopravvivenza e per la consapevolezza del suo valore deve divenire uno sforzo dell’intera comunità d’appartenenza. Un luogo non puòessere tradotto, come nessuna lingua può esser tradotta, come nessun panorama può essere tradotto, come nessun monumento può essere tradotto. Quando le costruzioni di un luogo non si sovrappongono, ma, al contrario, facilitano il trasparire del Genius Loci di un luogo, possiamo parlare di “raduno”: il permettere alle cose di essere tali. Scopo dell’architettura è la creazione di luoghi in cui la spazialità del Genius identitario si esprima in concordia con la ricerca dei propri sentimenti. La sensibilità interiore è in ogni dove. Da essa si può guardare la realtà nelle sue sfumature, che creano le differenze qualitative della culturalità dell’uomo, abbracciando una visione olistica per cui la totalità è composta di complementarietà identitarie. Il Genius Loci è per definizione pluralista e relativista: per dirla con Mircea Elide, «in ogni luogo vi è un centro del mondo» versus ogni unilateralismo e omogeneizzazione.

L’uomo, parte di una comunità, da essa protetto e verso di essa, dunque, responsabile, consapevole del valore del mondo che lo circonda, attraversa il tempo della sua vita per comprenderne il senso.

In tale unità differenziale, il mio vivere qui e ora deve ritornare ad essere consapevole della sua molteplice appartenenza e, quindi, responsabilità: il mio comportamento responsabile e salvaguardante non esaurisce la sua azione nel cerchio più prossimo e più visibile, ma contribuisce all’armonia del tutto.

Quando Thoreau afferma che «nella natura selvaggia sta la preservazione del mondo», intende dire che una corretta disposizione ecologica, e quindi la possibilità di salvaguardare sia noi che la natura, sta nel lasciare ciò che è altro da sé nella sua alterità, sottraendosi alla tendenza ad assimilarlo con la forza dell’azione o del discorso. Nel momento in cui la natura viene concepita come parte di noi si distrugge la possibilità stessa di salvaguardarla. La remissione di ogni tendenza assimilazionistica riconosce e rispetta l’alterità delle identità.

In questo approccio, rintracciabile nella sapienzialità delle culture preindustriali, ritroviamo composta la drammatica frattura dualistica tra cultura e natura, che caratterizza il disagio profondo dell’uomo civilizzato. Il modello scientifico dominante è il prodotto della considerazione della realtà come “natura morta”, cioè osservabile dall’esterno con rigore matematico, sperimentabile e manipolabile all’infinito dal Promèteo tecnologico. Questa rappresentazione, all’oggi assunta come scontata e irreversibile, è anch’essa però frutto di una falsificazione ideologica progressista. La visione contemplativa della natura come cosmo vivente relazionale in simbiosi simbolica con la cultura è rintracciabile in millenni di civiltà umana ed è, a tutt’oggi, fonte inesausta per un approccio scientifico olistico. Le implicazioni epistemologiche della rivoluzione quantistica, che fanno intendere il reale come tessuto di eventi totalmente interconnessi, in continuo divenire, ribaltando il piano di lavoro empirico casualistico delle scienze positivistiche, mostrano al tempo stesso la falsificazione dei modelli di conoscenza dominanti. Una scienza dei “legami vitali”, armonicamente coordinati nella coerenza della natura viva, sconvolti dalle micidiali incompatibilità culturali, psicologiche e fisiologiche della tecnosfera. Lo squilibrio dualistico dovuto alla razionalizzazione si cristallizza nel potere della sopraffazione: l’artificiale sul naturale, il materiale sullo spirituale, i “progrediti” sugli “arretrati”. Questo significa che, qualunque sia il punto di vista da cui si critica la società contemporanea, per andare alla radice dei suoi mali e delle sue contraddizioni, bisogna considerare come centrale la questione ecologica, non già semplicisticamente nei suoi effetti ultimi, “ambientali”, ma nel suo significato profondo, ontologico, causale, di distacco fra cultura umana e natura.

In una civilizzazione ad alta entropia - generazione di un ordine sempre più accentuato in un determinato ambito, inducendo il disordine e la morte nell’ambiente che lo sostiene - lo scopo prevalente della vita diviene quello di usare un elevato flusso energetico per creare l’abbondanza materiale e soddisfare ogni concepibile desiderio umano; la libertà umana viene quindi a coincidere con l’accumulo di una quantità sempre maggiore di ricchezza. Avendo bandito il sacro dalla società, il sistema di valori materialista e ad alta entropia cerca di creare il “paradiso in Terra”, definendo lo scopo ultimo della nostra esistenza nella soddisfazione di ogni possibile bisogno voluttuario. La “realtà” è ridotta a ciò che si può misurare, quantificare, verificare; si negano i valori qualitativi, spirituali e metafisici. Il dualismo pervade le nostre menti separate dai nostri corpi e i nostri corpi disgiunti dal “mondo circostante”. Soggiaciamo al progresso materiale, all’efficienza dell’automatismo, alla specializzazione posta al di sopra di qualsiasi altro valore e, di conseguenza, distruggiamo la famiglia, la comunità e le tradizioni. La fede faustiana nella capacità tecno-scientifica di superare tutti i limiti relativizza i valori sostanziali, ontologici.

Feyerabend scrive che il razionalismo occidentale è legato, fin dalla sua origine, a derive totalitarie: «La scienza diventa anch’essa antidemocratica, nella misura in cui da arte si converte in impresa filosofica»; per il filosofo o per lo specialista, sapere cos’è un uomo non significa semplicemente conoscere, attraverso rapporti personali, molti uomini, uomini di diverse culture e di diverse classi sociali, ma cogliere un’essenza chiara, obbediente a chiare regole, che sia separata da processi così caotici e soggettivi: il concetto di uomo. Questo ci dovrebbe persuadere che la giustizia e la verità non si possono isolare da una forma di vita, che le forme speculative e i concetti astratti sono sostanziali al macchinismo della modernità e che la pretesa di ogni forma di razionalismo legato alla tradizione occidentale ha essenzialmente l’obiettivo di istituire forme politiche liberticide, che annichiliscono le comunità solidali e le identità sostanziali. 

La cultura dominante ribalta la constatazione della realtà e descrive le leggi di natura come pure astrazioni, che, non a caso, sussume nelle leggi economiche e giuridiche. In realtà, vivere secondo le leggi di natura significa porsi il problema di come non ferire la sensibile trama della vita che ci circonda, di come ridurre nel migliore dei modi l’impatto dovuto ai nostri consumi, ai nostri bisogni. Se c’è qualcosa che la natura indica perentoriamente, è il senso del limite, la sobrietà, la forma. L’economicismo, la devastazione ambientale, la meschinità dei comportamenti interessati, il gigantismo, l’anonimato delle metropoli e l’insignificanza dei suoi luoghi, l’anestetico arredamento razionalista sono alcuni dei sintomi della repressione della bellezza effettuata dal pragmatismo: sono un derivato della perdita di quel sentimento di misura e di armonia cosmica, di pudore e di grazia, che rivela l’essenza e accende l’eros, l’amore per l’anima in tutte le sue manifestazioni. Il Sé - per dirla con James Hillman - può manifestarsi solo come «interiorizzazione della comunità», da un lato, e come continuità con il cosmo, dall’altro. Solo l’amore per l’ineffabile può ricomporre l’unità interiore tra uomo e natura, tra forma e cultura, nel cuore incarnato dei popoli: vox populi, vox dei.

 


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