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La parabola ecologica di Rapanui

La civiltà dei moai si è autodistrutta per aver troppo consumato le risorse, limitate, dell'isola di Pasqua. Come la nostra civiltà sta consumando le risorse del mondo
Dietro il mistero dell'isola e dei suoi giganti di pietra è chiaro che il territorio un tempo doveva essere coperto di foreste, con una ricca agricoltura e un'abbondante popolazione. Ma i megaliti e le cerimonie ad essi connesse hanno via via esaurito tutte queste risorse, esaurendo con ciò anche la civiltà che vi prosperava, senza lasciare memoria
12 giugno 2004
Jean Chesneaux
Fonte: www.ilmanifesto.it
25.05.04


Nell'era del jet e del net, Rapanui (1) conserva intatta l'aura implacabile che affascinò La Pérouse, Chamisso, Loti, Alfred Métraux e tanti altri. Ecco i moai, giganti irreali e alteri di pietra grigia (fino a 10 metri d'altezza), alcuni dei quali con il copricapo pukao, cilindro di tufo rosso che raffigura senza dubbio uno chignon aristocratico. Ecco gli ahu, piattaforme cerimoniali dove sono allineati i moai. E il muro ciclopico di Vinapu, dove i muratori sapevano piazzare dei blocchi enormi al centimetro. E la miniera vulcanica di Rano Raraku, sul fianco della quale giacciono decine di moai gettati a terra. Sono gli archeologi che, sui principali siti, hanno recentemente rimesso altri giganti nella posizione verticale originaria; lungi dall'offuscarsi, il visitatore gli è grato.I moai, il loro ruolo, la società da cui provengono, le condizioni del loro trasporto, restano un enigma. A quattromila chilometri da qualsiasi terra abitata, Rapanui sembra un caso limite della storia umana, per il quale è senza dubbio possibile proporre il tema inedito di ultimità.L'isola, ricca di vestigia materiali e anche di tradizioni orali raccolte nel XIX secolo, per gli etnologi e gli archeologi è un «terreno» fertile e controverso (2). Da dove venivano i primi occupanti? Senza dubbio dalla Polinesia orientale a cui numerosi elementi della lingua dell'isola di Pasqua e molti usi e costumi avvicinano Rapanui. Come i divieti del tapu, o la parentela tra moai di pietra e tiki di legno. Ma il rongorongo, scrittura sacra ancora indecifrata, non ha equivalente nel Pacifico.Thor Heyerdhal, che nel 1947 ha realizzato il collegamento navale Perù-Pasqua su una zattera di giunco del lago Titicaca, è ben isolato nel credere in un'origine inca della cultura di Pasqua (3); riavvicina il muro di Vinapu alle muraglie giganti dell'Altopiano. Ma gli abitanti odierni dell'isola di Pasqua si considerano e si vogliono polinesiani.Un altro interrogativo riguarda la funzione simbolica dei moai. Sembra essere stata politica: queste statue perpetuerebbero il potere tutelare, il mana - nozione polinesiana - dei capi defunti; con la schiena rivolta al mare, continuavano a vegliare sui loro eredi e i loro sudditi. Come nelle altre civiltà megalitiche, sottolineano i ricercatori, i moai richiedevano un'organizzazione del lavoro sociale altamente diversificata e quindi fragile - ci torneremo.Oggi, Pasqua interessa i tour operators più ancora che gli scienziati. Sono già presenti le stigmate della commercializzazione turistica che infierisce su Luxor, Angkor o Xian. Nel mio precedente passaggio nel 1989, il tocco di miseria dignitosa e disordinata dominava ancora; i cavalli erano molto più numerosi delle automobili a Hangaroa (il minuscolo capoluogo) attraversato da cattive strade in terra battuta; ai siti era possibile accedere solo in jeep. Ma ormai sono i rari cavalieri che si fanno notare con la loro fiera prestanza. Lungo i marciapiedi ben allineati, si succedono bar e ristoranti, agenzie per l'affitto di un'auto, supermercati - la carta Visa è accettata dappertutto... Sui muri nuovi in prefabbricato sono stati incollati - vergogna assoluta - dei sottili strati di «pietra locale», una bella lava bruno-rossa con delle bolle, un tempo la sola ad essere utilizzata. Ma i guasti sono ancora limitati. Benché i grandi assi stradali siano organizzati e asfaltati, la quasi totalità di questo triangolo vulcanico così esiguo (quindici chilometri di lato) resta praticamente vuota. Agili mandrie di cavalli selvaggi e moai alteri sembrano disdegnare gli ancora rari turisti.Gli abitanti di Pasqua - sono quattromila, di cui tremila nell'isola - non rimettono in questione l'integrazione forzata al Cile dal 1888, benché rivendichino il rispetto della loro identità (4). Gestiscono questa nuova prosperità senza rinnegarsi, tanto sono fieri dei loro antenati di cui non sanno nulla ma a cui devono tanto. La grande messa cattolica della domenica - raccomandata dalla guida turistica Le Guide du Routard - è un momento autentico; i fedeli, molto numerosi, cantano i salmi liturgici, con ritmi strani che provengono da ere remote.Non bisognerebbe però guardare oltre queste derive mercantili e queste controversie colte, al di là stesso dei mitici moai? E leggere Rapanui come una parabola filosofica, quella di una società che ha esaurito le risorse naturali da cui dipendeva e a partire da ciò si esaurisce essa stessa?Degli indici paleo-botanici (polline fossile, humus profondo) suggeriscono che all'arrivo dei primi polinesiani l'isola era verdeggiante, accogliente, coperta di foreste. All'epoca classica dei moai si era sviluppata un'agricoltura complessa (5) che ha nutrito fino a dieci-dodicimila persone. Ma i megaliti, le loro dimensioni, il loro trasporto, le loro cerimonie erano dei grossi consumatori sia di manodopera che bisognava nutrire che di boschi; esaurivano uomini e foreste.Le esigenze di questo super-lavoro non produttivo, suggeriscono degli archeologi cileni come Patricia Vargas, in effetti hanno dovuto oltrepassare poco per volta la «capacità di carico» dell'isola, dove le risorse si facevano rare, attizzando feroci guerre tra clan. Gli scavi hanno rivelato l'apparizione di sanguinose e tardive armi personali, i mataa. Venne il momento - sembra nel XVII secolo - in cui il sistema crollò, avendo raggiunto i limiti. La carriera di Rano Raruku perpetua il ricordo di un improvviso terremoto sociale. Si vede un moai gigante ancora coricato - avrebbe misurato 19 metri di altezza - la cui costruzione è stata brutalmente interrotta e mai più ripresa. Il cantiere ha dovuto essere abbandonato dopo un «ragazzi, abbandoniamo tutto!», grido di rivolta che sembra risuonare ancora a tre secoli di distanza. Tutto il sito è costellato di moai rovesciati con la faccia contro la terra. Una visione che colpisce ancora, una visione eminentemente non-braudeliana; l'évènementiel, lungi dall'essere la «schiuma» che il maestro refutava, ha brutalmente messo termine, senza ritorno, all'arroganza dei moai; ha spezzato il destino della civiltà classica di Pasqua.Per sopravvivere, gli esseri umani dell'epoca più tarda hanno dovuto nascondersi, vivendo in grotte che è possibile visitare attorno al vulcano d'Orongo, interrando i loro orti, ritornando a culti marini come la ricerca di uova sacre da parte dell'uomo-uccello, su isolotti al largo. Questo microcosmo era in declino, hanno constatato i primi visitatori nel XVIII e XIX secolo, ben prima che le razzie schiaviste realizzate da mercanti peruviani di guano gli dessero il colpo di grazia. Gli alberi un tempo sovrabbondanti - e indipensabili alla costruzione dei moai - erano diventati talmente rari, raccontano questi visitatori, che i battelli da pesca erano solo più fabbricati con dei pezzi di legno piccoli e diversi, messi assieme con abilità.Sulla spiaggia di Anakena, quella dove sarebbe sbarcato l'antenato fondatore Hotu Matua, una linea di moai si staglia perfettamente oggi su uno sfondo di colline nude, secche, quasi morte. I megaliti predatori, come indifferenti, sembrano contemplare le distruzioni forse irreversibili che hanno provocato.La civiltà di Pasqua è crollata sotto i colpi di un esaurimento endogeno. Ma anche il nostro macrocosmo non è sottoposto a uno sviluppo i cui effetti «antropici» esauriscono la capacità di carico della terra, divorano le foreste, inquinano i suoli e le acque, sregolano gli equilibri climatici? I nostri prodotti, infinitamente più sofisticati dei mataa degli antichi abitanti di Pasqua, sono ben più devastanti. Le colline (le «mornes») pelate, quasi desertificate, che dominano il paesaggio attuale di Haiti sembrano le sorelle di quelle di Anakena, anch'esse devastate da disastri endogeni. L'isola di Pasqua appartiene a pieno titolo a quei Feuermelder, a quei «segnalatori di incendio» ai quali Walter Benjamin raccomandava di prestare attenzione...

Note: (1) Fu nel giorno di Pasqua che un ammiraglio spagnolo prese possesso dell'isola nel 1770. Il termine polinesiano di Rapanui, indigenista, è tardivo. (2) La bibliografia dell'isola di Pasqua è immensa. Un centro studi su Pasqua esiste all'università di Santiago del Cile, e una Easter Island Foundation all'università statunitense del Nuovo Messico.
(3) Ha presentato l'insieme delle sue vedute in un album riccamente illustrato, Ile de Pâques, les mystères dévoilés, Parigi, 1989.
(4) L'attuale governo cileno, nel quadro della sua politica di restaurazione democratica, ha istituto una commissione di studi sui problemi e i bisogni dei «popoli indigeni» del paese, ivi compresi gli abitanti di Pasqua. Il rapporto di questa commisione, Verdad historica y nuevo trato, è stato pubblicato nell'autunno del 2003.
(5) Dei paleo-botanici dell'università di Kiel, i cui lavori sono presentati all'entrata della grotta d'Orongo, hanno potuto analizzare l'organizzazione minuziosa dell'ortocultura nel palmeto di Poike, distrutto da un incendio nel XIII secolo e mai ripiantato.
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