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Quella perizia insabbiata dalla Ibm

Tutto comincia con una causa avanzata da alcuni lavoratori i quali sostenevano che le condizioni ambientali in cui lavoravano alla produzione di chip li avevano esposti a sostanze chimiche cancerogene.
23 luglio 2004
Franco Carlini

La reputazione è uno dei valori più importanti per una persona, un'istituzione o un'azienda. La si conquista faticosamente nel tempo, ma basta pochissimo per comprometterla. La Ibm, premiata azienda di computer, software e servizi correlati, ci sta riuscendo egregiamente, almeno nei confronti del mondo scientifico. Tutto comincia con una causa avanzata da alcuni lavoratori i quali sostenevano che le condizioni ambientali in cui lavoravano alla produzione di chip li avevano esposti a sostanze chimiche cancerogene. Inizialmente la Ibm assunse un atteggiamento collaborativo e finanziò lei stessa delle ricerche epidemiologiche che vennero affidate a due studiosi, Richard Clapp della Boston University e Rebecca Johnson di Circle Pines nel Minnesota, i quali analizzarono i registri di mortalità relativi a tre decenni delle persone che avevano lavorato alla Ibm. La pubblicazione dello studio era prevista su una rivista medica, ma ciò non è avvenuto. In febbraio un giudice della California, assolvendo la Ibm, aveva ritenuto lo studio non pertinente alla causa, rifiutandolo come prova e contemporaneamente vietandone l'utilizzo. Per parte sua gli avvocati della Ibm scrissero una lettera agli autori, dicendo che la società si riservava di intraprendere tutte le opportune azioni legali contro di loro in caso di pubblicazione.
L'editore Elsevier a questo punto bloccava l'articolo e allora, in segno di solidarietà, un discreto numero di altri ricercatori del ramo si rifiutò di pubblicare su quella rivista. Venerdì scorso Robert Kennedy, il direttore di Science, la più importante rivista scientifica americana, ha dedicato alla questione il suo editoriale. E il giudizio è severo: se la Ibm avesse ragione nel sostenere che quella ricerca non dimostra alcun legame tra i suoi impianti e l'alta mortalità da tumore, perché tanta preoccupazione per la sua pubblicazione? La scienza può procedere solo in pubblico, di modo che altri ricercatori possano conoscere metodi e risultati, eventualmente ripeterli e se del caso correggerli o contestarli. Tenerli chiusi nel cassetto non va a vantaggio della Ibm né della conoscenza su questioni ancora così poco esplorate.
Lo studio continua dunque a essere segreto, ma la rivista Science ne è entrata in possesso e non ha esitato a riportarne una sintesi: i due studiosi, Clapp e Johnson inizialmente condussero un'analisi preliminare che esaminava 8 tipi di cancro negli uomini e 5 nelle donne che apparentemente sembravano colpire i dipendenti Ibm in percentuali superiori a quelle della media degli americani. In seguito analizzarono le singole forme di cancro, con questi risultati: i 7697 dipendenti Ibm morti di cancro avevano una probabilità di cancro al fegato, cervello, sangue e pelle superiore alla media in percentuali variabili tra il 23% e il 62%. Quanto alle 1667 donne, esse avevano una percentuale di cancro al fegato superiore del 20%. Se poi ci si concentra sui sottogruppi di dipendenti che lavoravano negli impianti di produzione dei chip, allora le percentuali salivano ancora, fino al 62% e 79% negli uomini e al 112% per il tumore al fegato nelle donne.
Naturalmente le analisi epidemiologiche di questo tipo, che mettono in relazione dei fatti esterni (gli impianti) con dei tassi di mortalità, sono sempre delicate e la semplice correlazione non significa la prova di un rapporto di causa-effetto. Ma le cifre restano e semmai ci sarebbe da chiedere altre e più approfondite analisi. Resta singolare tuttavia la decisione del giudice di negarne l'ammissibilità e la pretesa degli avvocati della Ibm che, trattandosi di perizie di parte, debbano rimanere segrete. L'avvocato della Ibm in particolare ha sostenuto che «questo è uno dei più chiari esempi di quella che è stata chiamata scienza spazzatura». Il perché non è stato spiegato: per esempio potrebbe essere messa in discussione la metodologia statistica usata, o il software impiegato, o in generale il progetto dello studio, ma non c'è dubbio che i dati sono quelli e che una controperizia da parte di Ibm era lo strumento legale e scientifico per fare chiarezza.

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