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La divaricazione tra cultura e natura

Critica della ragione economica

24 novembre 2004
Eduardo Zarelli

È palese, a ogni coscienza critica intellettualmente onesta, che le categorie date non reggono la transizione tardo-moderna e l'annesso deserto nichilistico: questa è la sostanza concettuale su cui confrontarsi per formulare ipotesi teoriche coerenti e rigorose necessarie per risultare credibili nella critica all'egemone modello liberistico. A tale proposito, vorremmo porre all'attenzione comune una riflessione specifica sull'approccio antiutilitarista nel rapporto tra economia e ambiente. Questo, al fine di individuare quello che a noi appare contraddizione centrale del determinismo della modernità: la divaricazione tra cultura e natura. Tale antinomia permane, e anzi si espande con connotati drammatici e incalzanti, ponendosi come discrimine forte, in questo caso sostanzialmente ideologico, per chi intende scegliere la critica all'esistente quale posizione culturale, sociale ed esistenziale.

L'antiutilitarismo --nel pensiero del suo più qualificato e profondo interprete, Serge Latouche-- indagando sulla genealogia dell'economicismo non può che intrecciarsi con quella parte minoritaria, ma qualificata, del pensiero ecologista. Il reinserimento dell'economia nel sociale, la risacralizzazione del vivente e il conseguente re-incanto del mondo sono punti di riferimento condivisi, che d'altra parte assumono un sano realismo antiutopistico nel negare sia la razionalizzazione dell'ambiente ridotto a risorsa economica che l'idilliaco rispetto dell'incontaminato. Solo un equilibrio è possibile, tra cultura e natura: lo sbilanciamento per una delle parti in causa rafforza la vettoriale dialettica progresso/reazione a scapito della ciclicità, del senso del limite dell'armonico, che si incarna nel valore della giustizia condiviso nel bene comune. La critica dell'esistente non può identificarsi con la negazione della realtà, patologia genetica e germinalmente totalitaria degli ideologismi positivi, sia idealistici che materialistici.

D'altronde, la base del nostro agire quotidiano nelle società liberalcapitaliste, si fonda su una delle "favole" meglio riuscite dello storicismo. La condizione di scarsità materiale determina il sacrificio necessario del rapporto di scambio per sostituire la redistribuzione sociale. In realtà la reciprocità comunitaria precede e poi riappare con drammatica soluzione di continuità a disconoscere le categorie di Stato e mercato, che si impongono definitivamente solo con la piena modernità. Nella produzione e nella soddisfazione dei nostri bisogni, "ovviamente" materiali, si inventa la felicità edonistica, la quale può rendersi collettiva solo nella concorrenza tra i soggetti che tentano di massimizzare i loro interessi. Ecco allora l'utopia di una "armonia naturale", che in realtà della natura fa vedere quello che le conviene, vera "mano invisibile" che concilia provvidenzialmente la conflittualità degli interessi. Questo è il più potente determinismo storico costituente la civilizzazione occidentale. La diffusione del mercato porta con sé la "mano invisibile" che elimina conflitti e antagonismi di classe tra Occidente e Terzo mondo, e via discorrendo; ma, ammesso e non concesso che le cose stiano così, con la crisi verticale di rappresentanza delle ideologie critiche fondate su una base economicista dell'esistente, può questa carismatica "mano invisibile" eliminare anche i conflitti d'interessi tra gli uomini e la natura?
Evidentemente no. I mutamenti climatici, le mucche pazze piuttosto che la degenerazione immunitaria e lo sfaldamento dell'autonomia organizzativa dei sistemi naturali indicano che la mercificazione dell'esistente può piegare tutto, tranne la compiutezza del vivente, l'omeostasi fisio-biologica, il climax biotico. La falsificazione economicista deve quindi essere smascherata e combattuta nelle sue conseguenze pratiche sull'ambiente naturale a partire dai suoi stessi principi fondativi, simbolico-culturali ancor prima che concreti e razionali.

Una crescita senza fine

'idea di una crescita senza fine e di un progressivo arricchimento delle condizioni di tutti i popoli della Terra, è stata introdotta ufficialmente nel mondo dal discorso d'insediamento del presidente statunitense Truman, il 20 gennaio 1949. Fu lui, al comando della più imponente potenza economica mai apparsa sul nostro Pianeta, a parlare per la prima volta di sviluppo come gioco globale a "somma positiva" e in quel preciso istante tre miliardi di abitanti della Terra diventarono di colpo "sottosviluppati". Cinquantatrè anni dopo, la civiltà occidentale è ancora fondata su quell'assunzione, ma le condizioni oggettive in cui si trova il nostro Pianeta ne hanno già da tempo segnalato il fallimento. La fede nel progresso e nella tecnologia supporta il culto dello "sviluppo" e gli economisti sono i grandi sacerdoti di questa nuova religione positiva e razionale che accompagna l'espansione senza precedenti dell'Occidente. Il potere di autorigenerazione della natura è stato rimosso, distrutto a beneficio di quello del capitale e della tecnica. La natura è stata ridotta a un serbatoio di materia inerte, ad una pattumiera. La globalizzazione sta completando l'opera di distruzione dell'oikos planetario; infatti la concorrenza spinge i Paesi industrializzati a manipolare la natura in modo incontrollato e i Paesi in "via di sviluppo", stretti nella morsa debitoria, a esaurire le risorse non rinnovabili. Con lo smantellamento delle regolamentazioni delle sovranità politiche, non c'è più un limite all'abbassamento dei costi in un gioco al massacro tra i popoli e a detrimento della natura che li sostiene. Nell'agricoltura, l'uso intensivo di concimi chimici e di pesticidi, l'irrigazione sistematica, il ricorso agli organismi geneticamente modificati hanno per conseguenza l'impoverimento dei suoli, il prosciugamento e l'avvelenamento delle falde freatiche, la desertificazione, la diffusione di parassiti indesiderabili, il rischio di devastazioni microbiche. Tutti i Paesi sono coinvolti in questa spirale suicida, ma nel Terzo Mondo, essendo in gioco la sopravvivenza biologica immediata, la riproduzione degli ecosistemi è completamente sacrificata. Si pensi che, per esportare il legname, la foresta tropicale sta sparendo (Camerun, Indonesia, Papuasia-Nuova Guinea) con l'annessa conseguenza di un'erosione accelerata dei suoli e di un aggravamento delle inondazioni (come quelle del Mekong e affini).

In pratica, ciò che viene comunemente inteso dalle economie occidentali come "sviluppo" è una ingannevole allucinazione, un drammatico fallimento. Due motivi di questo fallimento sono facili da intendere e riassuntivi della contraddizione del termine: l'insostenibilità sociale e quella ambientale. L'emergenza sociale è rappresentata dal cumulo di violenza compressa che sta montando nel mondo, spesso riconducibile alla reazione degli indigenti prodotti dall'occidentalizzazione del mondo, che, con un processo ineludibile, prima li cattura e poi li esclude; quella ambientale è determinata dalla limitatezza delle risorse della Terra oggi egemonizzate da un 20% scarso dell'umanità. Se, per una sorta di miracolo, si riuscisse ad annullare la prima emergenza, cioè il libero mercato planetario riuscisse a distribuire a tutti gli abitanti della Terra l'accesso ai consumi, immediatamente la seconda emergenza si farebbe terminale e apocalittica. Si pensi ad esempio all'effetto serra: a meno che gli scienziati non vogliano smentirsi in nome delle "magnifiche sorti e progressive", noi tutti viviamo grazie a una biosfera che è in grado di assorbire senza danni 2,3 tonnellate annue pro capite di emissioni di diossido di carbonio, ma ogni cittadino americano ne produce 20 all'anno, ogni tedesco 12 e ogni italiano 10. A noi non risulta che nei programmi dell'OCSE sia prevista la riduzione del 900% dei consumi dei cittadini americani (né per i tedeschi del 500% e del 400% per gli italiani); risulta quindi evidente che la somma del gioco globale della globalizzazione, chiamato eufemisticamente "sviluppo", è a somma zero, anzi, continuerà limitatamente nel tempo fino a che verranno mantenuti esclusi, in forme eminentemente violente, i quattro quinti dell'umanità dal modello occidentale che viene loro imposto.

I rapporti tra l'economia e l'ecologia si intrecciano nel paradosso. Entrambe nascono dall'oikos (la casa, l'ambito comunitario, la nicchia), ma ne declinano interpretazioni opposte. Aristotelicamente, l'economico si limita ad essere supporto dell'esistenza del comunitario, l'economico moderno ne ribalta il concetto e si rende autonomo, autoreferenziale, nell'accumulo di sé (crematistica). In tal senso, gli ecologisti coerenti risultano critici dell'economia come teoria e nemici nella sua pratica.
L'economia della modernità si poggia concettualmente sull'utilitarismo e sul mercantilismo. Sempre in nome del paradossale rapporto tra economia e natura, i Fisiocratici incentrano la teoria dello sviluppo economico sulla fertilità naturale, mutuandone il libero dispiegarsi. Malauguratamente, confondendo la fertilità naturale con la produttività dell'attività umana, i Fisiocratici, invece di mantenere l'economia iscritta nella biosfera e di accettarne e studiarne i limiti, formuleranno la definitiva autonomia della sfera economica mistificandola come "organismo naturale".
Lo stesso liberismo degli economisti classici espone una natura limitata e avara ma per disporre simbolicamente del vero grimaldello edonistico economicista: la scarsità. La natura ostile è spogliata di valore intrinseco. Strumento d'emancipazione umana, la scarsità naturale non verte sui limiti delle materie prime e delle fonti energetiche, quanto sulla necessità della loro trasformazione con un lavoro che si fa morale e una tecnica strumentale che si rende fine etico. In tal modo la natura è fuori dall'economia. Adottando il modello della meccanica classica newtoniana, l'economia esclude l'irreversibilità del tempo. I modelli economici si svolgono in un tempo meccanico e reversibile; essi ignorano l'entropia, vale a dire la non reversibilità delle trasformazioni dell'energia e della materia. Essendo sparito ogni riferimento a qualunque substrato biofisico, la produzione economica non si confronta con alcun limite ecologico. La conseguenza è uno sperpero incosciente delle risorse rare disponibili e una sottoutilizzazione del flusso energetico solare, in tutte le sue ricadute organolettiche. I rifiuti e l'inquinamento, pure prodotti dall'attività economica, non rientrano nelle funzioni della produzione, così nulla si oppone più alla realizzazione, da parte della tecno-scienza e dell'economia, del programma di dominio e di sfruttamento totale dell'universo. Su questo piano inclinato, le varianti redistributive, collettivistiche e autoritarie, mutano la forma, ma non la sostanza nichilistica della modernità.

Non da meno, le proposte "deboli", che animano la parte maggioritaria dell'ambientalismo progressista, si concentrano nell'ossimoro dello "sviluppo sostenibile", che ha obbligato gli economisti, sulla spinta dell'evidenza, ad un aggiornamento della loro disciplina e ad includere l'impatto sull'ambiente naturale dei loro modelli. In tal modo, l'economia "ecologica" è lungi dal rimettere in discussione la logica utilitaristica, che è la vera fonte della negazione della natura. La ciclicità del vivente, il debito nei confronti della natura e la misteriosa solidarietà della specie, sono ridotti a dispositivi tecnici, che trasformano l'ambiente naturale in un meccanismo materialistico energetico finalizzato dalla ragione strumentale della modernità. La stessa logica giunge alla tassazione dell'inquinamento per reindirizzare virtuosamente l'allocazione delle risorse. Su tale strada, i potentati economici hanno determinato il delirio dell'ultimo trattato internazionale sulle emissioni gassose, che consente di ridistribuire l'inquinamento acquistando quote territoriali di discarica indipendentemente dalle proprie produzioni (cioè il diritto ad inquinare). Rimane però il problema nelle cause, e non negli effetti, in un universo fisico comunque limitato. La credenza dell'inesauribilità delle risorse naturali, su cui poggia il modello industriale di sviluppo sostenuto dagli economisti, è crollato, mentre i sotto-prodotti deleteri della produzione minacciano la sopravvivenza stessa della nostra specie. Qualunque sia il grado di arbitrarietà apocalittica sulle attuali compatibilità ecologiche con la civilizzazione industriale, nessun interlocutore intellettualmente onesto può misconoscere che la devastazione della natura corrode definitivamente i benefici dello sviluppo. Questo si iscrive nell'idea che il capitale artificiale può sostituirsi a quello naturale, semplicemente conviene dargli un prezzo per assicurare la ricostituzione del suo equivalente. Già a Manhattan, nei caffè rumorosi si possono comprare tre minuti di silenzio acquistando una cassetta vergine. Analogamente, negli incroci di Città del Messico, si compra l'ossigeno delle maschere antigas. Una scansia del supermercato degli orrori dove cerchiamo con raccapricciante scontatezza l'acqua in bottiglia piuttosto che gli uteri in affitto o gli organi per sempre più eterogenerici trapianti; tuttavia la materia prima di tutte queste manipolazioni rimane ancora un insopportabile dono della natura, dotato di proprietà naturali non inventabili dalla tecnoscienza. La scomparsa di specie vegetali e animali selvagge non ferma la biopirateria, gli OGM, i comportamenti predatori. Questo è il paradosso col quale si scontrano i trust agro-alimentari e farmaceutici nella loro prometeica impresa di integrale colonizzazione e artificializzazione del vivente. Distruggono la biodiversità propagandandone sul mercato solo i geni utili, ma hanno bisogno di accedere al patrimonio originario in esaurimento. La "sostenibilità" quindi è la mistificazione ultima del modello utilitaristico. Nulla ha a che fare con la natura in sé, ma corrisponde ad un calcolo economico implacabile. Acquistare quote di inquinamento nel Terzo Mondo stimolerà il suo sviluppo. Meglio morire di cancro che morire di fame. In realtà entrambi i fattori sono destinati a svilupparsi, questi sì senza limiti, per i motivi sopra esposti, a dimostrazione che razionalizzando l'ecologia si cede il dominio all'economico alimentando la contraddizione tra sviluppo e natura.
Pretendendo che l'umanità sia composta da atomi individuali mossi dai loro soli interessi egoistici, che si attribuiscono ogni diritto sulla natura e sulle altre specie viventi, la scienza economica sostiene e incoraggia storicamente la più straordinaria impresa di distruzione del Pianeta. Mettendo in opera questo programma e lanciandosi in un'accumulazione illimitata, stimolata da una competizione evolutiva senza freni, l'economia liberistica, oramai globalizzata, distrugge ogni cura dell'oikos, della comunità e delle sue forme di sussistenza, sradica ogni forma naturale o culturale che sfugge alla mercificazione.

Ci sono sempre più economisti ecologisti, ma è palese che, la scienza economica è reticente sulla natura, misconoscendo il fatto che il mercato si sviluppa in una biosfera. L'integrazione nel calcolo economico degli elementi dell'ambiente naturale, contabilizzandoli artificialmente, non modifica la natura dello sviluppo né la logica razionalista della modernità. È attraverso la fuga in avanti nella tecnica che si pensa di risolvere i problemi posti dalla megamacchina tecnomorfa.
Di fronte alla profonda corruzione sensistica del progetto acefalo, temporalmente vettoriale, dello "sviluppo" industriale è necessario estrarre la politica dalla rappresentanza formale eterodiretta dagli interessi del macchinismo sociale e reintegrare la persona in un contesto comunitario per mezzo della partecipazione democratica: ridurre la scala, metabolizzare il globale nel locale, recuperare l'orizzonte antropologico estraendolo dal dissesto nichilistico della civilizzazione planetaria. Ecologismo non significa rendere ambientalmente migliore, meno inquinante la megamacchina. Significa esclusivamente avvicinare l'uomo alla Natura.

Partendo dalla cultura ecologista, emancipata dal riduzionismo scientifico, si deve formulare la critica dell'esistente su alcuni concetti cardine. Non si risolvono i problemi legati al vivente riformando gli effetti dannosi, ma rimuovendo le cause della patologia. La natura è ciclica e limitata nel suo eterno rinnovarsi. Pensare secondo la forma ciclica del tempo comporta in primo luogo, che l'idea di causa venga sostituita da quella di condizione concomitante: in base a tale sostituzione risulta che ogni evento ha più cause e che ciascuna di esse è a sua volta effetto di altre cause. In secondo luogo all'idea di successione subentra l'idea di simultaneità, per cui eventi diversi possono verificarsi ed essere colti nel medesimo momento, in una percezione sincronica invece che diacronica. Infine, la logica lineare che sostiene i processi di industrializzazione e di deduzione viene sostituita con quella dell'analogia. In definitiva, la forma ciclica del tempo comporta una visione panoramica in quantità e simbolica in profondità, non prospettica ed analitica del mondo e della vita, per cui ciò che conta è una visione d'insieme, dove i singoli elementi sono in relazione tra essi, celebrando una percezione empatica del reale. La scienza può essere di avanzamento nella conoscenza e nell'evoluzione sociale solo fuori dal riduzionismo razionalistico, solo se simbionte al vivente, ricomponendo la frattura dualistica in un quadro olistico, dove la totalità è superiore alla semplice somma degli elementi. La complessità relazionale non è programmabile per astrazione, i fenomeni sono indeterminabili meccanicisticamente nella loro complessità, solo l'intuizione poetica (intelligenza) può cogliere sintesi di superiore profondità e consapevolezza rispetto al presunto efficientismo del pragmatismo empirico.

La dimensione del locale

Sostenere che il progresso non esiste, non significa che una somma di avvenimenti succedutisi in anni diversi non origini qualcosa, che si può chiamare "storia". Significa sostenere che questi avvenimenti hanno fatto profondamente regredire l'umanità e, se qualcuno pensa che da un punto di vista sociale questo non sia vero, la risposta è che i miglioramenti sociali sono stati a "somma zero". I bambini che vivono rovistando nelle bidonville di Città del Messico sono la diretta conseguenza di ogni aumento di stipendio di un salariato del "mitico" nord-est. Prima dello sviluppo, mangiavano tortillas nelle loro capanne e giocavano sporcandosi di terra.
Noi occidentali viviamo più a lungo: questo è vero… Ma in che modo, e in che percentuale?
Siamo fuori dall'indigenza --ma il concetto di indigenza è molto sfuggente-- e questo è, a nostro avviso, tutto ciò che di apparentemente buono il "progresso" ha realizzato. Il progresso tecnologico è tale solo a posteriori: tutto ciò che garantisce è un'accelerazione delle nostre vite, e la creazione di nuovi bisogni. È vero che oggi è difficile fare a meno del cellulare: ma quindici anni fa ne facevamo a meno e non sembra che la qualità della nostra vita sia migliorata grazie al cellulare, anzi si comunica molto di più per capirsi sempre di meno. In compenso, il patrimonio di conoscenze tradizionali, di sensibilità, di varietà culturale e biologica, e molto altro, si è drammaticamente compromesso. La nostra possibilità di sopravvivenza si è infinitamente ridotta: dipendiamo dalla tecnologia per il soddisfacimento di qualunque bisogno primario e, se è vero che oggi il povero occidentale appare meno povero, è anche vero che lo straccione Tom Saywer faceva il bagno nel fiume. Oggi, non c'è solo il bimbo di Città del Messico: ci sono i bambini di Roma, che non hanno mai visto una gallina o una mucca in vita loro e che, se fanno il bagno nel Tevere, vengono ricoverati con prognosi riservata.

La modernità occidentale porta a compimento la divisione tra cultura e natura. Invece, in tutte le culture sapienziali, ogni corpo individuale, compreso quello umano, è sempre parte integrante del corpo cosmico, determinazione intrinseca di quell'ordine universale che è la Natura. Nella tradizione Taoista "L'uomo si conforma alla Terra, la Terra si conforma al Cielo, il Cielo si conforma al Tao, il Tao si conforma alla spontaneità". La spontaneità è sinonimo di naturalezza, categoria eversiva nel mondo artificiale del contrattualismo sociale e del dominio tecno-scientifico. Bisogna quindi uscire dal conformismo delle regole fatte convenzioni morali, sociali, culturali e politiche: l'uomo per conformarsi al Tao, deve pertanto "volgersi alla radice", "volgersi all'origine", "uniformarsi al fondamento", ossia riconquistare quelle condizioni di spontaneità che vigevano prima dell'introduzione della regola sociale. Una visione politica, basata su queste leggi, sul modo in cui opera il mondo del vivente, è indisposta ad un potere monolitico (tecnocratico) che eterodirige gli elementi fondanti l'organismo stesso, sarà piuttosto propenso alla decentralizzazione, all'interdipendenza e alla diversità. Un potere diffuso, partecipativo, in qualche modo "accidentale", la cui sede decisionale è nella vitalità della comunità di base, possibile solo in un contesto antropologicamente limitato. Uno scenario realisticamente postmoderno, quindi non fuori dalla storia, ma possibile nella decisione culturale di un destino diverso dal determinismo unilineare della modernità.
"Potremmo avere navi e carrozze, ma non ve ne sarà bisogno, potremmo bardarci di armi e corazze, ma non si dovrà combattere. Gli uomini torneranno ad imparare a fare nodi con una corda per sollecitare la memoria, piuttosto che servirsi della scrittura. Tutti avranno abbastanza da mangiare, vestiti decenti; sapranno godersi la vita casalinga, giacché ogni villaggio è uno Stato a sé, e con contentezza troveranno ogni risposta nelle tradizioni locali. Gli Stati confinanti si guarderanno a vista, udranno gli uni degli altri il canto dei galli e l'abbaiare dei cani, ma i vicini, per tutta la vita, non si faranno mai visita".

Quanto Lao Tse dice contrasta sia con lo "sviluppo economico" che con la civilizzazione politica (Stato), ma sostanzia quella reciprocità di sobria sussistenza, che include l'economico nel sociale legittimandolo culturalmente. A tutt'oggi, nella Cina profonda, i contadini vivono con l'acquacoltura. Stagni, laghi e bacini per cinque milioni di ettari servono all'allevamento della carpa; i contadini fertilizzano le vasche col letame, nutrendo così il plancton in una catena alimentare perfetta. In questo modo la Cina copre da sola i due terzi dei prodotti della acquacoltura mondiale e si sfama, senza squilibrare il territorio.
Nel Tao (la Via spirituale) si tende insomma a un modello di economia ecologica in cui piccolo è bello e l'uomo è ricco se gli basta ciò che ha. Se vuole invece di più, è povero. La virtù taoista conduce alla felicità; non viceversa, come per istinto utilitario crede l'Occidente. Se è l'utile il fine che guida l'uomo occidentale, l'atto supremo dell'economia di Lao Tse è la naturalezza, quanto è in sorgere e rimanda all'origine. La felicità è armonia che precede l'utile. I Cinesi non moriranno di fame fino a che non arriveranno i supermercati incombenti con la grande distribuzione della WTO. A quel punto, abbandoneranno il loro stile di vita e cominceranno a morire di cancro.

In senso generale, se in ogni luogo c'è un centro del mondo possibile, è necessario che gli uomini tornino abitanti del loro territorio, riprendano cioè in mano la questione ecologica ed etologica della loro sopravvivenza, dal momento che è oramai minacciata nella sua stessa sostanza dai meccanismi razionalistici. In questo orizzonte l'esigenza identitaria va politicamente reinterpretata come energia costruttiva per la crescita della coscienza del luogo e per l'affermazione di modelli di sviluppo autocentranti, fondati sulle peculiarità socioculturali, sulla cura e la valorizzazione delle risorse locali (territoriali, cioè ambientali e quindi produttive) e su reti di scambio complementari e solidali piuttosto che gerarchiche fra entità locali. Il principio di sussidiarietà deve partire dall'entità fondamentale della comunità naturale (la famiglia), delegando alle entità superiori solo ciò che non è assolvibile dal livello fondamentale, autonomo e libero e quindi coeso e comunitariamente partecipe dell'organismo complessivo. L'uomo, parte di una comunità, da essa protetto e verso di essa, dunque, responsabile, consapevole cosmogonicamente del valore del mondo che lo circonda, attraversa il tempo della sua vita per comprenderne il senso e dargli quindi una "forma", uno stile, che sacralmente plasma il divenire in un eterno presente.

Note: Bibliografia di riferimento

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