L'Europa, l’Ecologia e la Pace

25 settembre 2006

Il tempo della Complessità

It all depends - tutto dipende da tutto. Così molti intellettuali definiscono sinteticamente la società contemporanea. Negli ultimi anni del secolo scorso una serie di avvenimenti ha scardinato le “regole del gioco” del mondo, spalancando le porte al tempo della complessità.

Molti pensano che la Guerra Fredda sia stato uno dei più grandi momenti di svolta della storia dell’uomo, capace di determinare i futuri destini dell’umanità. In realtà, nonostante si scontrassero sul campo le due più forti correnti ideologiche del ‘900, cioè il capitalismo e il socialismo, la sfida era una falsa sfida; entrambi i contendenti traevano la propria forza vitale dallo stesso meccanismo; sia le razionalizzate ed efficienti imprese occidentali che le mastodontiche fabbriche collettiviste si basavano sulla produzione industriale di massa.

Qualcosa però ha iniziato a cambiare, determinando quella discontinuità che ha dato origine alla vera e propria Globalizzazione; la spinta data dall’emergere della questione energetica (crisi petrolifere '73-’78, rapporto Meadows-Club di Roma sui Limiti dello Sviluppo) e soprattutto la rivoluzione tecnologica degli anni ’80 e ‘90 hanno gettato le fondamenta per una profonda trasformazione dell’economia, che ha iniziato a convertirsi verso la cosiddetta economia della conoscenza e dei servizi (o capitalismo cognitivo).
Le nuove regole del gioco della produzione favorivano (e favoriscono) soluzioni decentrate e rendono difficile un monitoraggio centrale delle informazioni (basta pensare ad internet); per evitare una riduzione del potere di controllo sull’economia e la società il socialismo è stato costretto a rimanere un passo indietro rispetto alle economie di mercato, perdendo in competitività, risultati e attrazione ideologica.

Il conseguente crollo dell’Unione Sovietica ha generato due conseguenze determinanti; da una parte l’elezione degli Stati Uniti a unica iperpotenza del mondo, dall’altra (e parallelamente) il Capitalismo è diventato la forma dominante di organizzazione economica (se non consideriamo qualche piccola enclave tipo Cuba, Corea del Nord ecc).
Il mantenimento di un disequilibrio nelle relazioni internazionali è diventato perciò la necessità fondamentale per gli interessi degli Stati Uniti, che in mancanza di un bilanciamento di potere hanno potuto plasmare e influenzare a loro piacimento la comunità internazionale, attraverso l’instaurazione di nuovi valori, come la democrazia ad ogni costo (evitando però di specificare che la democrazia non si ottiene solo con le modifiche nei procedimenti e nei meccanismi di potere, ma anche e soprattutto attraverso la partecipazione attiva della cittadinanza), nuove missioni, spesso di natura quasi messianica, ad esempio la guerra senza quartiere al terrorismo internazionale (che abbiamo in gran parte contribuito a creare) e nuovi strumenti, fra tutti la guerra preventiva, assoluta aberrazione del diritto e delle relazioni internazionali.

Allo stesso modo in cui la politica statunitense ha avuto campo libero, così il capitalismo si è trasformato in una sorta di treno in corsa senza freni, diretto verso un abisso. Mentre l’integrazione in una rete globale di relazioni economiche e politiche resta ancora un miraggio per certe zone del mondo, abbandonate alla povertà e private anche solo della possibilità di intraprendere un cammino di sviluppo, lo straordinario incremento della produzione dei paesi sviluppati (e di alcuni PVS come i nuovi giganti Cina e India) sta infatti mettendo a repentaglio come mai prima d’ora la sopravvivenza dell’umanità sulla terra; lotte per le risorse energetiche, sfruttamento delle terre, delle foreste e dell’acqua, inquinamento e conseguenti danni per la salute si mescolano alle tematiche politiche per plasmare la situazione di complessità sistemica che abbiamo preso in considerazione fino ad adesso.

Una prospettiva per il futuro dell’Umanità

Ovunque nel mondo la necessità di porre rimedio a questa situazione di profonda crisi sta venendo a galla; nascono e si rafforzano movimenti transazionali di difesa dell’ambiente, dei diritti umani, pacifisti, a tutela dei poveri, dei lavoratori ecc.. una morale globale dei cosiddetti “perdenti” della globalizzazione (come li chiama Ulrick Beck) sta lentamente emergendo e portando avanti una semplice richiesta: un’economia dal volto più umano, che non umili la vita delle persone per perseguire interessi materiali ipocritamente coperti da altissimi valori, una sostenibilità ambientale che permetta alle future generazioni di vivere decentemente e la sicurezza rispetto alle violenze, ai conflitti etnici e religiosi, alle guerre.

Perché tutto ciò possa però trovare una eco veramente consistente, è necessaria una “rivoluzione antropologica e istituzionale”; antropologica perché devono essere de-costruiti i meccanismi iniqui che regolano il funzionamento del mondo e rifondati sulla base della sostenibilità e della solidarietà, istituzionale perché, al di là delle prospettive che auspicano e prevedono un processo di deistituzionalizzazione positiva della società (Ivan Illich e posizioni anarchiste), è sempre bene ricordare che, come diceva uno dei “padri fondatori” dell’Europa, Jean Monnet: “niente esiste senza le persone, ma niente dura senza le istituzioni”.
E solamente l’Europa ha la maturità economica e politica che le deriva della sua straordinaria esperienza storica per candidarsi come modello fondante la futura società cosmopolita. Solo l’Europa ha sviluppato un sistema di valori comuni che si basano sull’inclusione piuttosto che sull’autonomia, sull’aiuto piuttosto che sull’abbandono, sulla comunità piuttosto che sul solo individuo (vedi il Sogno Europeo di J.Rifkin).
L’Europa ha la base culturale per rilanciare una politica non di tolleranza, che implica il prevalere di alcuni valori su altri, che vengono quasi “per bontà” o superiorità accettati, bensì di Cittadinanza, che trova già pieno impiego nel suo motto: Uniti nelle Diversità, diversità che non diventano motivo di scontro, bensì ricchezza e motore di sviluppo.
E Solamente tramite l’Europa quelli che oggi abbiamo detto essere valori in fieri, il desiderio di una sostenibilità ambientale e della ricerca di una nuova strada energetica che metta fine all’equilibrio del bisogno (aggiornamento dell’equilibrio del terrore della guerra fredda), oltre alla tutela dei diritti umani, acquisiranno lo status di valori universali.

Così come lo Stato Nazionale si fa carico della produzione di una serie di beni pubblici che il mercato non produrrebbe (la difesa, i trasporti pubblici, le infrastrutture ecc..), anche un’Europa caratterizzata da delle democratiche istituzioni federali potrebbe farsi produttrice di “beni pubblici globali”, che resterebbero utopie finché si tenta di produrli a livello nazionale. Beni pubblici globali come la promozione di un’economia e una società ecologica e soprattutto l’affermazione del valore della Pace.
Come abbiamo già detto la Pace è oggi il valore più a rischio, a causa della particolare situazione delle relazioni internazionali e della presenza di un serie di tecnologie che potrebbero, come in una riproposizione del romanzo di Frankestein a scala globale, provocare la fine di chi le ha generate; si sente sempre più spesso parlare di guerra umanitaria, dimenticando quello che A. Einstein affermava con saggezza: ”la guerra non si può umanizzare, si può solo abolire”.

Il futuro dell’umanità, oggi schiacciata da tutti questi problemi, e senza approfondire le tematiche (seppur rilevantissime alla luce del “it all depends” del quale parlavamo prima) riguardanti la migrazione internazionale, la precarietà del lavoro ecc, necessita quindi di una rivoluzione valoriale; il sogno di un’Europa unita non è un’utopia, ma la condizione necessaria per evitare che una auspicabile globalizzazione dei diritti e della prosperità si trasformi in una pericolosa globalizzazione del risentimento.

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