Latina

Il fratello, Luis Alberto Cardona Mejia, è stato assassinato il 4 aprile 1989

Incontro con Maria Cardona Mejia, familiare di vittima di mafia colombiana

Aveva denunciato i legami tra latifondisti, narcotrafficanti e sicari al loro servizio
15 marzo 2019
David Lifodi

Maria Cardona Mejia

“Lo Stato di giorno indossa i panni del soldato, ma di notte veste quelli dell’assassino”: si esprime così Maria Cardona Mejia, familiare di vittima di mafia colombiana, a proposito delle istituzioni del suo paese. Suo fratello, Luis Alberto Cardona Mejia, tra i fondatori, insieme a lei, della Commissione permanente per i diritti umani, è stato assassinato il 4 aprile 1989. Ad uccidere il professore universitario, militante del Partito comunista colombiano, due sicari pagati dal narcotraffico.

Maria Cardona Mejia racconta la storia di suo fratello, degli omicidi mirati che dagli anni Ottanta ad oggi continuano ad essere perpetrati ai danni di attivisti per i diritti umani, militanti sociali, sindacalisti ed ecologisti e degli accordi di pace traditi prima da Santos e poi dal nuovo presidente Duque, in occasione di un incontro organizzato da Libera a Siena il 14 marzo alle Stanze della memoria, sede dell’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea ed un tempo luogo di tortura dei partigiani all’epoca del regime fascista.

Maria e Luis Alberto, pur figli di un padre fortemente conservatore, fin da giovanissimi si occupano dei braccianti agricoli impegnati nella raccolta del caffè, costretti a vivere in una condizione molto simile alla schiavitù, con turni di lavoro massacranti e senza alcun diritto. L’attivismo dei fratelli Cardona Mejia ben presto suscitò le ire dei latifondisti, che non vedevano di buon occhio le loro denunce a proposito dello sfruttamento dei lavoratori del caffè (i cafeteros), tanto che sia Maria sia Luis Alberto furono costretti, per un certo periodo, a rifugiarsi all’estero a seguito delle minacce ricevute, anche se poi sono sempre rientrati in patria quando la situazione tornava ad essere un po’ più tranquilla.

Per Luis Alberto, secondo la sorella, la condanna a morte fu decisa quando iniziò a denunciare i latifondisti perché pagavano dei sicari per compiere degli omicidi mirati, una pratica assai diffusa ancora oggi in Colombia. Lo studio pubblicato da Luis Alberto quando era già divenuto docente universitario sottolineava la stretta connessione tra i latifondisti e i cartelli del narcotraffico, evidenziando come i narcos avessero avuto origine proprio dai proprietari terrieri. Ad ucciderlo, mentre si trovava su un autobus, furono sette colpi di pistola esplosi da due sicari. Da allora, Maria Cardona Mejia ha deciso di proseguire la battaglia del fratello, nonostante aggressioni ed epitaffi di morte ricevuti a casa, fin quando non è stata costretta a trascorrere sei mesi in esilio in Spagna.

Luis Alberto Cardona Mejia

Portare avanti l’impegno del fratello, per Maria, significava onorare non solo la sua memoria, ma quella di tutti i morti ammazzati in Colombia, un paese dove i lottatori sociali sono esposti a rischi altissimi e molto spesso condannati all’emarginazione sociale. In Italia per una serie di incontri organizzati da Libera e da Alas (América Latina Alternativa Social), la sua corrispondente in Sudamerica, Maria ha incontrato alcune vittime della mafia italiana, con le quali ha provato un forte sentimento di unione, come se facessero parte di un’unica grande famiglia. Più volte, a questo proposito, la sorella di Luis Alberto ha utilizzato il verbo hermanarse, affratellarsi, parlando dei suoi incontri con i familiari vittime della mafia del nostro paese.

Nel corso dell’incontro Maria non si è limitata a parlare delle minacce del narcotraffico, ma si è soffermata anche sull’attuale scenario politico sociale della Colombia, dagli accordi di pace tra la guerriglia delle Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) e lo Stato, attualmente in fase di stallo, alla difficile situazione alla frontiera tra Colombia e Venezuela a seguito della partecipazione attiva di Palacio Nariño nel destabilizzare Maduro, di concerto con gli Stati uniti e con il Gruppo di Lima per farlo cadere.

Il governo attuale, quello del presidente Iván Duque, vuol tornare alla situazione di guerra e distruggere quanto resta del processo di pace perché gli conviene. L’accordo di pace firmato tra l’allora presidente Juan Manuel Santos e la guerriglia delle Farc nel 2016 aveva suscitato grandi speranze, ma non è stato il primo tentativo di giungere ad un negoziato con la principale forza insurgente del paese (attualmente anche i tentativi di negoziato sorti a seguito della trattativa Santos-Farc, quelli tra lo Stato e la guerriglia guevarista dell’Eln - Ejército de Liberación Nacional, sono interrotti a causa delle continue giravolte di uno Stato che prima dice di aspirare alla pace, ma poi strizza l’occhio alla guerra).

Già negli anni Ottanta la pace sembrava un passo. Allora dalle Farc era nata l’Unión Patriótica, partito che in pochi anni vide cadere almeno 5.000 suoi militanti uccisi dai paramilitari con il beneplacito dello Stato e dell’oligarchia terriera. Oggi che la guerriglia delle Farc si è trasformata nel partito politico Fuerza alternativa revolucionaria del común la situazione non sembra essere molto diversa, anche perché l’accordo di pace è stato affossato da gran parte della popolazione colombiana e dallo stesso presidente Santos, il quale, dopo averlo ratificato, decise di sottoporlo ad un ambiguo referendum in cui la propaganda guerrafondaia giocò un ruolo di primo piano. Gran parte degli elettori non si recò alle urne e tra i votanti, pur se di poco, prevalse il no agli accordi di pace, anche se si recò a votare poco più della metà degli abitanti del paese. Maria Cardona Mejia, che insieme ai movimenti sociali e alla sua Commissione permanente per i diritti umani fece propaganda per il si, racconta che si dovette scontrare con una serie di menzogne, prima tra tutti quella che la Colombia si sarebbe trasformata in un nuovo Venezuela se avessero prevalso coloro che erano favorevoli alla pace.

Utilizzando argomenti che non c’entravano nulla con il tema del referendum, dal rischio che si affermasse l’equità di genere (un tema assai sentito in un paese profondamente machista e patriarcale come la Colombia) al timore di una improbabile collettivizzazione delle terre di stampo socialista (per alimentare le paure dei piccoli proprietari terrieri), a prevalere è stato il sentimento di coloro che per vari motivi traggono grandi vantaggi economici se l’accordo di pace fosse seppellito definitivamente. Questo, accusa Maria Cardona Mejia, sembra essere il principale scopo della presidenza Duque, il quale non si preoccupa dei principali problemi del paese, ma soltanto di prestare agli Stati uniti il proprio territorio per invadere il Venezuela.

Maria si augura che la guerra in Venezuela possa essere evitata grazie alla presenza di attivisti come lei e della sua associazione, ma confida di essere assai preoccupata per la rottura delle relazioni tra Caracas e Bogotá, dovuta, principalmente al petrolio, intorno al quale ruota l’aggressione a Miraflores. “In Venezuela la gente fa la fila per mangiare qualcosa, in certe zone della Colombia le code non ci sono semplicemente perché non c’è cibo e le persone muoiono di fame”, argomenta la donna, sostenendo che se Maduro fosse di destra lo Stato colombiano non avrebbe agito come sta facendo. E ancora, sostiene Maria, prima Venezuela e Colombia erano due paesi fratelli. I venezuelani spesso hanno accolto i colombiani quando erano in difficoltà, mentre adesso lo Stato colombiano sta utilizzando in chiave strumentale e propagandistica la crisi migratoria che costringe ogni giorno migliaia di venezuelani a cercare rifugio in Colombia.

“Speriamo che la Colombia”, conclude Maria, “non si trasformi nel Caino dell’America latina”.

Note: Articolo realizzato da David Lifodi per www.peacelink.it
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