Latina

Nella Colombia di Mario Paciolla l’arresto di Álvaro Uribe è “la notizia del secolo”

L'arresto dell'ex presidente colombiano è stato totalmente bucato dai nostri media
10 agosto 2020
Gennaro Carotenuto

Nella Colombia di Mario Paciolla l’arresto di Álvaro Uribe è “la notizia del secolo”

Nella Colombia dove meno di un mese fa è stato assassinato il cittadino italiano e funzionario ONU Mario Paciolla (un omicidio che, fino a prova contraria, può avere motivi politici legati al processo di pace), l’arresto dell’ex-presidente Álvaro Uribe è “la notizia del secolo”. Una notizia del secolo totalmente bucata dai nostri media, cerchiamo di capire perché.

Onnipotente, e ancora oggi difeso dall’attuale presidente Iván Duque, del quale è mentore influentissimo, Uribe nel primo decennio del secolo (2002-2010) fu il principale alleato emisferico di George W Bush. Era il tempo post 11 settembre e della “guerra al terrorismo” e dell’America Latina che, dopo il tracollo del “neo-liberismo reale”, guardava a sinistra da Lula a Kirchner a Chávez. Uribe fu per anni “il nostro uomo a Bogotà”; destra vera, non opportunismo. Godeva di ottima stampa (spesso redazionali pagati) che magnificavano presunti successi di politiche ultraliberali in un Continente che in quegli anni rileggeva Gramsci e guardava a Keynes. Intanto, con la scusa della guerriglia vetero-marxista delle FARC si negava l’essenza di un conflitto feroce per la terra, con milioni di contadini espulsi dalle loro terre per far posto all’agroindustria e il ruolo nefasto del narcotraffico. Un conflitto per la terra che vedeva i contadini sempre massacrati, dall’esercito, dai paramilitari e a volte perfino dalla guerriglia, e che generava la guerriglia stessa quasi come un danno collaterale di un processo di modernizzazione neoliberale dei rapporti di produzione. Rapporti di produzione dove l’industria militare resta tra le più prospere e abominevoli, come attestò il Plan Colombia, voluto dagli USA. Basta ricordare il caso dei “falsi positivi”, migliaia di disgraziati, contadini, studenti, totalmente estranei, assassinati a sangue freddo e rivestiti con la divisa della guerriglia per incassare i soldi pattuiti col governo degli Stati Uniti per ogni guerrigliero ucciso.

Uribe, con i suoi paramilitari, era materialmente dietro non solo a molti dei singoli crimini, ma ideologo dell’impalcatura generale di una macchina criminale e genocida che ha fatto 250.000 morti. A cominciare da quel Massacro di El Aro, nel lontano 1997, riconosciuto come Crimine contro l’Umanità, quando i paramilitari delle AUC, legati a lui che in quel momento era governatore di Antioquia, assassinarono 15 contadini per sloggiarne 900 altri. Tra gli esecutori materiali vi fu quel Salvatore Mancuso, paramilitare e narcos, legato alla ‘ndrangheta, successivamente impegnato nella destabilizzazione del governo Chávez in Venezuela, e nel 2008 estradato negli USA. Uribe, non fosse stato alleato di Bush, in quella stessa stagione avrebbe meritato un tribunale penale internazionale come un Milosevic o un Saddam Hussein. Oggi otto anni di indagini di un potere giudiziario che in questi decenni ha pagato prezzi altissimi per difendere la propria autonomia, hanno portato all’emissione di un mandato di arresto (già trasformato in domiciliari per una presunta positività Covid19) per una parte di quei crimini. Nello specifico la sua relazione con i paramilitari e, in particolare, nella corruzione di testimoni (è stato arrestato anche l’avvocato di Uribe) per smontare le accuse del coraggioso senatore Iván Cepeda, del Polo Democratico, e che dimostrerebbero come Uribe e suo fratello Santiago siano fin dall’inizio personaggi chiave del paramilitarismo nel Nord-Ovest della Colombia.

Se dell’arresto di Uribe e della lunga vicenda processuale che lo riguarda sentirete parlare poco sui giornali, che vi stanno del resto negando informazioni sull’omicidio di Mario Paciolla, ancora meno sentirete parlare di vicende giudiziarie di questi giorni e di segno opposto in America latina, eppure decisive nella comprensione della Storia della Regione in questo scorcio di XXI secolo. L’Interpol, per la terza volta nel giro di un anno, ha sostenuto che dietro la condanna per corruzione dell’ex-presidente ecuadoriano Rafael Correa esista una precisa “persecuzione politica”, orchestrata dall’attuale presidente Lenín Moreno, e quindi si è rifiutata di procedere contro questo. Contemporaneamente in Brasile la Corte Suprema riconosce una volta di più quanto la condanna di Lula fosse viziata dal giudice Sergio Moro (che con sprezzo del ridicolo qualcuno sui giornali italiani definì “il Falcone brasiliano”), che poi è stato Ministro della Giustizia di Jair Bolsonaro. Moro agì al fine di “influenzare in modo diretto e rilevante il risultato delle elezioni, […] violando il sistema accusatorio nonché le garanzie costituzionali del contraddittorio e della difesa”. A questo si aggiunga la denuncia di brogli mai esistiti, inventati a tavolino dall’Organizzazione degli Stati Americani, che furono prodromici al golpe contro Evo Morales in Bolivia e all’instaurazione di un catastrofico regime di fatto che sta usando il Covid19 per perpetuarsi. È il “lawfare”, la guerra giudiziaria contro tutti i governi di centro-sinistra degli ultimi vent’anni: lo strumento per normalizzare l’America Latina. Tutti corrotti, salvo Uribe ovviamente.

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