Latina

Il rischio maggiore è la candidatura del "Messia Nero" alle presidenziali del 2026

Il Brasile prigioniero del bolsonarismo

Jair Bolsonaro rischia il carcere per il tentato golpe dell’8 gennaio 2023, ma la martellante campagna delle destre, i settori più radicali delle chiese evangeliche ed un Congresso dove sono ancora molti i suoi sostenitori, insieme ai governatori di ben sette stati del paese, potrebbero salvarlo.
12 maggio 2025
David Lifodi

Il Brasile prigioniero del bolsonarismo

Il Brasile non riesce a liberarsi dal bolsonarismo. Come se già non bastasse, all’interno del Congresso, il potere della bancada ruralista, trasversale agli schieramenti politici, sempre all’interno dello stesso organo continuano ad essere molti gli alleati di Bolsonaro impegnati a garantirgli l’amnistia a seguito della condanna del Tribunale Supremo Federale che, il 26 marzo scorso, lo ha dichiarato colpevole del tentato colpo di stato dell’8 gennaio 2023, per il quale il “Messia Nero” rischia una condanna fino a 28 anni di carcere.

In Brasile la forza dell’estrema destra non è mai venuta meno, non a caso, in seno al Congresso, le minacce dell’ex presidente e dei suoi alleati, tuttora intenzionati a seppellire lo stato democratico di diritto, sono state prese molto sul serio. Sebbene l’ultimo sondaggio di Datafolha abbia attestato che almeno il 62% dei brasiliani si dichiari contrario all’amnistia per uno dei peggiori presidenti che il paese abbia mai avuto, secondo solo ai ventuno anni di dittatura militare (1964-1985), il presidente della Camera dei Deputati, Hugo Motta (Republicanos) è sottoposto costantemente alle pressioni dell’estrema destra, ma anche del centrodestra, affinché Bolsonaro e il gruppo di militari e civili che, insieme a lui, avevano complottato per rovesciare la presunta, quanto poco probabile “dittatura socialista” di Lula, siano sollevati dall’accusa di sovversione dell’ordine democratico. Peraltro, non bisogna dimenticare che Motta non è una figura affidabile: ha condannato ufficialmente i fatti accaduti l’8 gennaio 2023, ma ha anche rifiutato di definire quanto successo come un colpo di stato. Il suo partito è pericolosamente vicino ai gruppi evangelici più radicali, in passato ha sostenuto l’impeachment contro Dilma Rousseff e, in più di un’occasione, ha mostrato il suo doppiogiochismo.

Il Tribunale Supremo Federale si è espresso all’unanimità per la condanna di Bolsonaro e, per questo motivo, è stato bollato come un “potere comunista” negli slogan scanditi dai manifestanti che, lo scorso 1° aprile, sono scesi in piazza per commemorare il golpe di stato che, nel 1964, vide l’inizio della dittatura militare protrattasi per oltre un ventennio. Se il progetto di amnistia per Bolsonaro venisse approvato, spiega Guilherme Boulos, esponente di spicco del Partido Socialismo e Liberdade, non solo il tentativo di colpo di stato non sarebbe più considerato un crimine, ma, più in generale, si tratterebbe di un attacco mortale all’assetto democratico brasiliano.

Insieme a Bolsonaro, che si è guardato bene dal presentarsi al cospetto del Tribunale Supremo Federale in occasione della formalizzazione dell’accusa, saranno giudicati anche l’ex presidente Walter Braga Netto, generale, insieme al pari grado Augusto Heleno, ex ministro della Sicurezza, Alexandre Ramagem, il capo dell’intelligence, Anderson Torres, ex ministro della Giustizia, Almir Garnier, alla guida della Marina, Paulo Nogueira, ex ministro della Difesa e il tenente colonnello Mauro Cid.

Se il processo contro i vertici del bolsonarismo arrivasse alla conclusione si tratterebbe del primo risultato di un certo livello, in ambito politico, a seguito dell’assalto dell’8 gennaio 2023 che, finora, ha visto la condanna di 371 persone, con pene dai 3 ai 17 anni di carcere, ma si è trattato di pesci piccoli. Inoltre, è rimasto ancora irrisolto il caso dei tanti fuggitivi espatriati in Argentina allo scopo di farsi riconoscere, per quanto possa sembrare paradossale, lo status di rifugiati politici, a partire da quello di Leonardo Rodrigues de Jesús, figlio di Rosemeire Nantes Rodrigues, sorella di Rogéria, prima moglie del “Messia Nero”. In fuga si trova anche Eduardo Bolsonaro, uno dei figli dell’ex presidente brasiliano: ha trovato rifugio negli Usa, da cui promuove una martellante campagna di fake news allo scopo di propagandare la sua innocenza insieme a quella del padre.

Inoltre, Jair Bolsonaro può contare sul sostegno di di ben sette governatori: Romeu Zema (Minas Gerais), Jorginho Mello (Santa Catarina), Tarcísio de Freitas (San Paolo), Ronaldo Caiado (Goiás), Wilson Lima (Amazonas), Ratinho Júnior (Paraná) e Mauro Mendes (Mato Grosso). È insieme a tutti loro che Jair Bolsonaro è sceso in piazza per dichiararsi innocente dall’accusa di golpe e promuovere la sua candidatura alle presidenziali del 2026, sebbene su di lui penda il divieto di ricoprire incarichi pubblici fino al 2030 per aver ripetutamente attaccato e gettato discredito sul sistema elettorale brasiliano.

Da parte sua, Lula ha ricordato che l’azione di lobby promossa dalle destre in seno al Congresso per far ottenere l’amnistia a Bolsonaro ricorda il golpe che fu organizzato, il 31 marzo 1964, contro João Goulart. Il “Messia Nero” ha deciso di puntare tutto, ancora una volta, sulla polarizzazione dello scontro politico. La miccia per le presidenziali del 2026, alle quali, secondo i sondaggi attuali, Lula parteciperà in qualità di favorito, è già accesa.

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