Nelle si è compiuta una carneficina allo scopo di preparare il terreno al ritorno del bolsonarismo

Río de Janeiro: la criminalizzazione delle periferie

La violentissima operazione scatenata dal governatore bolsonarista dello stato, Cláudio Castro, del 28 ottobre scorso, aveva solo fini propagandistici ed elettorali
13 novembre 2025
David Lifodi

Río de Janeiro: la criminalizzazione delle periferie

Lo scorso 30 ottobre Lucia Marina dos Santos, deputata del Partido dos Trabalhadores e dirigente nazionale del Movimento Sem terra, ha proposto un’indagine parlamentare dell’Assemblea legislativa dello stato di Río de Janeiro, di cui è rappresentante, sul massacro pianificato di due giorni prima avvenuto nella città carioca e conclusosi con 121 morti, non solo giovanissimi favelados o appartenenti alla criminalità organizzata (ma anche civili) che spadroneggia nelle sterminate baraccopoli della metropoli brasiliana.

Nelle favelas di Penha y Alemão si è infatti compiuta una carneficina mascherata da una strategia non nuova per il Brasile, quella di generare il caos nel paese per preparare il terreno al ritorno del bolsonarismo in vista delle prossime presidenziali. Non è un caso che il mandante di un’operazione del tutto sconsiderata sia stato Cláudio Castro, governatore dello stato di Río de Janeiro e fedelissimo del Messia Nero che non si è fatto alcun problema nello scatenare un’azione poliziesca ad altissimo rischio solo per fini elettorali, ma, soprattutto, senza alcun coordinamento con gli altri poteri dello stato. La città di Río de Janeiro è stata trasformata in una zona di guerra.

Il modello di sicurezza amato dal bolsonarismo e fondato esclusivamente sulla violenza poliziesca si è rivelato un totale fallimento, soprattutto perché i narcotrafficanti non vivono esclusivamente nelle favelas e, a maggior ragione, non vi risiedono i loro capi, nonostante si adoperino nel controllare il territorio e ci riescano, talvolta, assai meglio dello stato stesso.

Il progetto di sicurezza fondato sul rispetto della dignità umana è stato del tutto stravolto a vantaggio di una modalità di fare politica solamente repressiva quale è quella adottata, ad esempio, dagli Stati Uniti in Colombia, dove le strategie di guerra al narcotraffico si sono rivelate essere, nel corso degli anni, un fiasco totale. Inoltre, la violenza di un’azione come quella del 28 ottobre scorso è servita a Castro per occultare l’incapacità delle istituzioni dello stato di Río de Janeiro, sviare l’attenzione dalla crescente crisi economica e sociale e mettere in difficoltà il governo centrale, costringendo Lula ad entrare, suo malgrado, in una logica repressiva allo scopo di mettere in crisi il già labile equilibrio tra sicurezza pubblica e diritti civili.

La sensazione di disordine percepita dalla cittadinanza al termine di questa violentissima operazione poliziesca potrebbe rappresentare terreno assai fertile per l’estrema destra bolsonarista, attualmente in difficoltà, ma non sconfitta, e lo stesso termine utilizzato dal governatore dello stato di Río de Janeiro per giustificare l’azione, “guerra al narcoterrorismo”, intende avvicinare il Brasile ad uno scenario non troppo diverso da quello che sta vivendo adesso il Venezuela, tra sanzioni, attività di spionaggio e destabilizzazione, nonché rappresentare un invito agli Stati Uniti ad operarsi per il cosiddetto “controllo del territorio”.

La battaglia scatenata dalla polizia militare per le strade delle favelas di Río allo scopo di bonificarle dalla presunta presenza di esponenti di spicco del Comando Vermelho (nata a fine anni Sessanta come organizzazione armata contro la dittatura, ma trasformatasi, nel corso degli anni, in un cartello dedito al commercio della droga) non è servita a niente, se non a fiaccare, una volta di più, gli abitanti delle favelas, stretti tra le minacce della criminalità organizzata e quella, non meno pericolosa, delle forze speciali che hanno trasformato molte abitazioni in veri e propri campi di battaglia.

La militarizzazione delle favelas è la strategia adottata dal bolsonarismo per individuare il narcotraffico come il problema principale del paese e trasformare la sicurezza pubblica in piattaforma elettorale, ma, almeno nell’immediato, potrebbe divenire un boomerang. Al governatore Cláudio Castro si rimprovera, infatti, di aver abbandonato una grande città come Río de Janeiro (dove vivono oltre sei milioni di persone) al proprio destino per impiegare gran parte degli agenti in due favelas della zona nord della metropoli scatenando la reazione armata della criminalità organizzata che ha messo a repentaglio la vita dei residenti di Penha y Alemão. La paralisi dell’intera regione metropolitana ha provocato il panico ed una percezione di insicurezza generalizzata senza tener conto che lo spiegamento di un tale apparato poliziesco non può comunque garantire, in alcun modo, il controllo totale sul territorio e sulla popolazione.

Tuttavia, lo stesso Castro ha deciso, sempre a fini esclusivamente elettorali, di assegnare alla forze di polizia dello Stato delle risorse che combinano letalità e tecnologie di ultima generazione. È in questo contesto che la polizia carioca ha potuto utilizzare il nuovo elicottero Black Hawk, equipaggiato con due missili e due mitragliatrici che permettono di sparare migliaia di colpi al minuto. E ancora, mentre il Brasile acquista undici elicotteri di questo tipo, investe soldi pubblici in sistemi sempre più efficaci di videosorveglianza e per le attività di riconoscimento facciale, non si riesce a dotare le uniformi degli agenti di sistemi che ne rendano possibile l’identificazione e che filmino le azioni di cui sono responsabili.

Tutto ciò non serve per impedire la crescita della criminalità organizzata a Río de Janeiro, ma accresce la sensazione che la volontà politica sia quella di criminalizzare la povertà e le sterminate periferie urbane. Le responsabilità di questo massacro sono, in primo luogo, dello stato di Río de Janeiro e in secondo, di uno stato federale che, per quanto non sia stato avvisato dell’operazione poliziesca in corso nelle favelas, non riesce ad individuare un modello di sicurezza esclusivamente inclusivo e non repressivo.

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