L’Ecuador rifiuta Noboa, ma il Cile strizza l’occhio a Kast
Il risultato relativo ai quattro quesiti, a partire da quelli relativi alla presenza di basi militari straniere in territorio ecuadoriano e alla cancellazione della Costituzione correista di Montecristi del 2008, non era così scontato, tanto più a seguito del minaccioso avvicinamento della portaerei militare Usa nei Caraibi, un chiaro avvertimento al Venezuela bolivariano, ma anche un implicito messaggio di sostegno ai governi di destra del continente, tra cui quello di Noboa.
Al voto contrario degli ecuadoriani ai referendum voluti da Noboa fa da contraltare, però, il probabile successo dell’estrema destra nelle presidenziali cilene. Jeanette Jara, esponente del Partito Comunista e candidata unica delle sinistre, ha vinto si il primo turno, ma ha ottenuto poco più del 26% dei consensi rispetto al 24% di José Antonio Kast, uno dei candidati dell’estrema destra, assai frammentata, vista la presenza di almeno altri tre aspiranti alla Moneda, ma che, molto probabilmente, uniranno le forze per rendere nerissimo il cielo sopra il Cile il prossimo 14 dicembre.
Entrambe le votazioni si sono tenute domenica 17 novembre.
Definita come un’arma di distrazione di massa per distogliere il paese dal processo di privatizzazione dell’istruzione e della sanità a cui, da tempo, aspira Daniel Noboa, rieletto alla presidenza dell’Ecuador lo scorso 13 aprile, la consulta referendaria è stata promossa nel mezzo di un periodo storico estremamente violento. Noboa, probabilmente, scommetteva su questo per far passare almeno il referendum sulle base militari straniere (leggi statunitensi), spacciate come necessarie per combattere il narcotraffico, che in Ecuador spadroneggia ben più che in Venezuela, sebbene gli Usa abbiano scelto di chiudere entrambi gli occhi verso quello che rischia di trasformarsi in un narcostato poiché hanno dalla loro parte un presidente amico. Quasi il 61% degli elettori si è espresso infatti contro l’installazione delle basi militari nel paese.
Sempre intorno al 61% si è attestato il “No” alla convocazione di un’assemblea costituente che avesse lo scopo di sostituire la Costituzione correista entrata in vigore nel 2008, un segnale chiaro della volontà degli elettori di non abdicare alla sovranità del paese per varare una nuova Costituzione ad uso e consumo di quell’oligarchia che, da una vita, disprezza le comunità indigene, protagoniste, dal 20 settembre scorso, di uno sciopero a tempo indefinito promosso dalla Conaie (Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador) contro il Decreto 126 che sanciva l’aumento del prezzo del diesel a cui Noboa ha risposto duramente imponendo lo stato d’assedio e la militarizzazione dei territori.
Eppure, sfidando un clima pesantissimo, creato ad arte da Noboa, spintosi a parlare addirittura di conflitto armato interno in corso nel paese, i suoi referendum sono falliti, non solo i due principali, ma anche quelli relativi al mantenimento dei fondi pubblici ai partiti e alla riduzione del numero dei congressisti. I risultati emersi dalle urne rappresentano una sconfitta non solo per Noboa, ma anche per Trump. Nelle settimane precedenti al referendum, infatti, Noboa aveva accompagnato alcuni funzionari Usa a vedere dove avrebbero potuto alloggiare i militari a stelle e strisce nel caso in cui gli elettori avessero approvato la presenza di basi straniere nel paese.
Il referendum sull’approvazione della nuova Costituzione, risalente al 2007 e volto a sostituire quella di stampo neoliberista risalente al 1998, aveva ottenuto oltre l’81% dei consensi. Dalla fine del correismo, in Ecuador si sono succeduti i governi di Lenin Moreno, Guillermo Lasso e Daniel Noboa, rivelatisi tutti camerieri delle multinazionali e degli interessi statunitensi. Rieletto a sorpresa, Noboa aveva scommesso sulla consultazione referendaria per rafforzare la sua posizione e legare il paese agli Stati Uniti, ma non aveva fatto i conti con un elettorato stanco del clientelismo politico, del controllo sociale dell’attuale governo, ma soprattutto del tentativo di imporre un dominio politico di classe, quello di un capitalismo senza alcun freno che si imponesse sui diritti, sul buen vivir e sulla svendita delle risorse naturali del paese.
Votare “No”, per gli ecuadoriani, ha significato ribellarsi ad uno Stato che intendeva ridurre, se non bloccare, la partecipazione dei los de abajo alla vita politica imponendo un percorso di smobilitazione delle organizzazioni popolari e della società civile per sostituirlo con un ordine sociale ossequioso verso coloro che, dentro e fuori dal paese, puntavano solo a depredarlo.
La vittoria del “No” ha rappresentato la bocciatura del programma politico di Noboa e, in un contesto in cui Usa e governi di destra alleati della regione mirano a incendiare l’America latina trasformandola in un laboratorio di guerra, dall’Ecuador è arrivato un messaggio inequivocabile, quello che conferma l’articolo 5 dell’attuale Costituzione: il paese è un territorio di pace che proibisce la presenza di basi militari amministrate da forze armate straniere.
Se la risposta dell’Ecuador a Noboa è stata inequivocabile, assai più difficile si presenta lo scenario politico cileno a seguito del primo turno presidenziale.

Del resto, per i candidati di estrema destra sarebbe impossibile non appoggiare Kast, un personaggio che, durante la campagna elettorale, non si è fatto alcun scrupolo nel dichiarare che, se Pinochet fosse ancora in vita, avrebbe sicuramente votato per lui. Resta da capire come si comporterà l’elettorato di un altro candidato di destra, Franco Parisi, che ha raggiunto, a sorpresa, quasi il 20% dei voti e afferma di non amare le posizioni estremiste, tuttavia sembra assai improbabile un’alleanza con Jeanette Jara.
Sono molti a sostenere che Jara ha vinto, ma che, in realtà, ha perso. I consensi ottenuti dalla candidata del Partito Comunista fanno pensare ad un ballottaggio nemmeno troppo combattuto. Il rischio che possa andare alla Moneda il figlio di un ex membro della Gioventù hitleriana è alto.
Suo padre, Michael Kast, ha scritto Claudiléia Lemes Dias in un articolo dedicato alle presidenziali cilene pubblicato su Left, “si iscrisse al partito nazista nel 1942, una circostanza che il candidato aveva tenuto nascosta fino al 2021, quando lo scandalo è emerso grazie ai documenti rivelati dall’Associated Press. La tessera del partito nazista del padre, divulgata dall’AP e dal giornalista cileno Mauricio Weibel, ha smentito le dichiarazioni di Kast secondo cui il padre avrebbe aderito all’esercito tedesco per costrizione”.
A primo turno concluso, il basso numero di voti conquistato da Jeanette Jara viene interpretato, da alcuni, come la punizione per aver tentato di far passare nell’elettorato come una coalizione di centrosinistra quella che, in realtà è espressione del Partito Comunista e, per questo, lo staff di Jara cerca di guardare a coloro che hanno scelto Parisi, esponente di destra votato anche da persone non necessariamente politicizzate.
Il dilemma del Cile, così come la scelta tra Jeanette Jara e Kast, riguarda un bivio fondamentale: schierarsi per la giustizia sociale o preferire i dettami del neoliberismo. Sul risultato non del tutto soddisfacente di Jara sono pesate, forse, diverse incertezze di Boric, che ha finito per rimanere inviso sia alla sinistra sociale (dall’incapacità di risolvere la questione mapuche se non ricorrendo a sua volta alla repressione fino alla scorsa volontà di confrontarsi con i movimenti sociali, se non tramite una risposta militare) sia alle destre, che adesso puntano apertamente alla formula cara al pinochettismo: mano dura, tappeti rossi alle multinazionali, criminalizzazione della protesta insieme al negazionismo climatico e all’imposizione di una stabilità utile solo all’oligarchia, ma sinonimo di enormi disuguaglianze sociali, alle quali non sono riusciti a far fronte nemmeno i governi di centrosinistra.
Le destre hanno scommesso sulla polarizzazione della campagna elettorale e, in caso di vittoria di Kast nel ballottaggio, si verrebbe a creare un’alleanza con Milei pericolosa non solo per Cile e Argentina, ma per l’intero continente latinoamericano.
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